Lineamenti essenziali del sistema beneficiale nel Codice del 1917
La trattazione del titolo XXV del Codice Pio-Benedettino De beneficiis ecclesiasticis era così articolata: nei canoni 1409-1412 si enunciava la definizione del beneficio ecclesiastico, indi se ne precisavano gli elementi costitutivi e, a corollario della formula iniziale, si introducevano alcune distinzioni e classificazioni.

Al § 1 del canone 1413 chiariva preliminarmente che le norme del codice non si applicavano ai benefici concistoriali (quelli cioè conferiti dal Papa in Concistoro)11, mentre al § 2 si dettava una norma di rinvio in forza della quale la disciplina dei canoni 147-195 sulla provvista degli uffici (Lib. II, tit. IV De officiis) era applicabile anche ai benefici unitamente a quanto disposto nei canoni 1431-1447 De beneficiorum collatione.

I canoni 1414-1430 regolavano la costituzione ed i modi di trasformazione del beneficio; mentre al diritto di patronato erano riservati i canoni 1448-1471. Della figura del beneficiario, dei suoi doveri e dei suoi diritti si occupavano invece le norme di cui ai canoni 1472-1488.

2.1 Definizione di «beneficio ecclesiastico»: il canone 1409
Posto all’inizio del titolo, il canone 1409 conteneva l’espressa definizione del beneficio ecclesiastico come «ens iuridicum» ed è questa un’opzione molto significativa perché, prima dell’emanazione del Codex, le scuole canonistiche tradizionali qualificavano il beneficio per lo più come un diritto soggettivo e non come persona giuridica.

Con una certa unilateralità, a seconda che si volesse mettere in luce l’elemento patrimoniale del diritto spettante al beneficiario ovvero quello spirituale relativo all’ufficio sacro ed allo status di chierico, esso veniva infatti definito ius perpetuum percipiendi fructus ex bonis ecclesiasticis ovvero ius perpetuum ministrandi in Ecclesia.

Il legislatore invece preferì configurare un soggetto giuridico autonomo, che fosse il centro di imputazione di diritti e di doveri, senza con ciò sciogliere la complessità di un istituto che era al contempo realtà spirituale, entità economica e strumento di organizzazione territoriale.

In merito a questa definizione, visto che la dottrina della personalità giuridica del beneficio era stata enunciata già molti secoli prima, Schiappoli osserva che la formula scelta dal Codice non avrebbe apportato alcuna decisiva innovazione in materia12.

A noi pare, tuttavia, che la definizione del canone 1409 mantenga un grande significato e non se ne possa sminuire la portata, perché essa ha fissato autoritativamente un punto fondamentale che, per le sue implicazioni non solo giuridiche, segna in maniera indelebile l’intero sistema di sostentamento delineato dal Codex Iuris Canonici. Del resto, si potrebbe aggiungere che – come ricordava Stocchiero al riguardo – la teoria circa la soggettività del beneficium, seppur conosciuta, non era universalmente accolta ed applicata dai canonisti ed anzi «rimase infeconda per lunghi secoli»13.

Il Codex Iuris Canonici ha recuperato dunque l’autorevole insegnamento di Innocenzo IV circa la personalità giuridica del beneficio14, con «il pratico vantaggio di conferirgli una certa indipendenza dagli elementi che lo compongono (ufficio, dote e redditi): il beneficio ecclesiastico è una istituzione ecclesiastica […] con proprie capacità, diritti e doveri»15.

Nella formula del canone 1409 il beneficio era pertanto un ente giuridico eretto in perpetuo dall’autorità competente secondo il diritto canonico (ens iuridicum a competente ecclesiastica auctoritate in perpetuum constitutum seu erectum) e costituito dai predetti due elementi, quello spirituale dell’ufficio e quello patrimoniale della dote (constans officio sacro et iure percipiendi reditus ex dote officio adnexos).

In proposito, il Fedele giustamente sottolinea come il fine peculiare dell’istituto ne condizionava nel complesso ogni suo aspetto. In primo luogo, essendo un ente il cui patrimonio era destinato ad uno scopo, il beneficio assumeva le caratteristiche proprie di una fondazione, cioè di una persona giuridica non collegiale.

L’ente era però contrassegnato da alcune particolarità relative alla sua funzione economica che era quella di assicurare con la dote beneficiale il sostentamento al titolare di un ufficio sacro.

Tale finalità ne determinava, sempre secondo Fedele, anche la sua natura ecclesiastica, la quale – a ben guardare – discendeva per noi direttamente dalla necessità che l’erezione del beneficio fosse compiuta soltanto dall’autorità ecclesiastica e nelle forme previste dal diritto.

La maggiore peculiarità di questa persona giuridica risiedeva infine – ad avviso del nostro Autore – nella separazione perpetua della titolarità del diritto di usufrutto dalla proprietà, in applicazione di uno schema elaborato nei secoli dalla scienza canonistica. Secondo questo sistema la proprietà dei beni che costituivano la dote del beneficio ecclesiastico spettava all’ente giuridico, mentre l’usufrutto toccava al titolare dell’ufficio16.

In tal modo, veniva garantita in perpetuum la destinazione funzionale dei beni per un esercizio sereno e proficuo dell’ufficio ecclesiastico da parte del suo titolare e si otteneva di configurare la dote esclusivamente come elemento accessorio del ministero nel rispetto del principio formulato da Bonifacio VIII: beneficium datur propter officium17.

Il rapporto tra i due elementi del beneficio era uno dei maggiori argomenti di disputa fra i canonisti: mentre infatti per alcuni autori, l’ufficio e la dote erano da considerarsi sullo stesso piano; per altri, il concetto di beneficio si identificava e si esauriva in uno solo di questi elementi ossia l’officium sacrum, al punto da negare l’autonoma personalità giuridica del beneficio rispetto all’ufficio18.

A giudizio di Tommaso Mauro questi tratti di problematicità sarebbero stati conservati anche dalla definizione del canone 1409 che «non riusciva a risolvere in maniera precisa e definitiva i contrasti preesistenti in dottrina, tanto da dare adito, anche in seguito, a dubbi ed incertezze circa l’essenza del «beneficium ecclesiasticum»»; ma il medesimo Autore aggiunge che, anche a prescindere dall’intervenuta definizione codicistica, il beneficio «si configurava di per sé come una fondazione il cui patrimonio aveva precisamente lo scopo di provvedere ai bisogni ed alle necessità dell’«officium sacrum»»19.

In sintesi ci sembra allora che proprio la definizione del canone 1409, così com’era configurata, impediva nettamente la dissoluzione del beneficio in uno dei suoi due elementi e ciò nonostante il fatto, rilevato da molti autori, che nel Codice il termine beneficio fosse utilizzato indifferentemente per far riferimento ai beni che erano parte della dote ovvero quale sinonimo dell’ufficio20.

Ciò detto, non si può tuttavia negare la preminenza dell’elemento spirituale. «Causa prima» dell’ente, nell’assetto del Codice, il più importante dei due elementi che componevano il beneficio era dunque l’ufficio sacro. Questo per definizione del canone 145 era, in senso stretto, una carica costituita stabilmente per ordinazione divina o ecclesiastica, da conferirsi a norma dei sacri canoni, che comportava almeno qualche partecipazione della potestà di ordine o di giurisdizione. Solo il titolare di un ufficio che rientrava in tale definizione aveva diritto al conferimento di un beneficio.

A conferma ulteriore di tale preminenza si ricordi che nel Codex esistevano degli uffici senza beneficio (ad es. il vicario generale o il vicario foraneo), mentre non poteva esservi alcun beneficio sine officio, costituito cioè indipendentemente dalla finalità di garanzia verso un munus sacro21.

2.2 La dote
Il secondo elemento del beneficio era la dote, cioè il patrimonio da cui si ricavano i redditi dovuti al titolare dell’ufficio; tali beni erano in proprietà del beneficio stesso e si consideravano beni ecclesiastici ai sensi ed ai fini del canone 149722.

Anticamente la dote consisteva in un complesso di beni immobili appartenenti al beneficio, giacché la proprietà fondiaria era considerata l’unica vera fonte di ricchezza. L’evoluzione della vita economica, le numerose confische di beni beneficiali da parte degli Stati ed il mutare delle forme della stessa presenza ecclesiale sul territorio fecero sì che la dote potesse essere composta anche da un altro genere di beni23.

A norma del canone 1410, la dote era infatti costituita dai beni mobili o immobili che si trovavano in possesso o in proprietà del beneficio ovvero da diritti di credito derivanti da vincoli certi ed obbligatori e relativi a prestazioni in denaro o in natura verso determinate famiglie o enti morali, da diritti reali e persino dai cosiddetti diritti di stola o da semplici oblazioni consuetudinarie in misura certa, ma volontarie, riconosciute dai fedeli all’ente beneficiario o infine da distribuzioni sui redditi comuni di patrimoni unitari nei collegi capitolari, cioè dalle distribuzioni corali24.

Dunque non sempre l’autonomia di un patrimonio in proprietà del beneficio ecclesiastico era un requisito essenziale della dote. Essenziale era invece che la dote fosse stabile ed adeguata al perseguimento dei suoi fini istituzionali, che erano la garanzia del funzionamento dell’ufficio e del sostentamento del suo titolare in perpetuo; disponeva in tal senso il canone 1415 § 1: beneficia ne erigantur, nisi constet ea stabilem et congruam dotem habere, ex qua reditus perpetuo percipiantur.

In mancanza di uno dei requisiti sopra descritti, non ricorreva la fattispecie del beneficio ecclesiastico; pertanto, a corollario della definizione posta al principio del titolo XXV, il canone 1412 stabiliva che, benché avessero aliquam cum beneficiis similitudinem, non erano benefici: le vicarie parrocchiali non erette in perpetuo; le cappellanie laicali, cioè non erette dalla competente autorità ecclesiastica; le coadiutorie con o senza futura successione; le pensioni personali che, pur essendo imposte su una quota del patrimonio beneficiale, rappresentavano soltanto una riduzione temporanea delle rendite (canone 1429); le commende temporanee. Anche da questa norma si evince che la perpetuità era una caratteristica strutturale e non accessoria della fattispecie del beneficio ecclesiastico.

2.3 Le diverse tipologie di beneficio
Le distinzioni presentate dal canone 1411 aiutano a meglio delineare la varietà tipologica dell’istituto beneficiale e sono un’ulteriore prova dell’adattabilità di questa figura giuridica rispetto alle necessità ed alle situazioni in cui la Chiesa si è storicamente trovata.

Alla bipartizione consueta dei benefici in maggiori e minori, a seconda della potestà ecclesiastica attribuita al titolare dell’ufficio, il Codice sostituiva la già menzionata distinzione tra benefici concistoriali e non concistoriali: i primi erano conferiti dal Papa in Concistoro, gli altri erano di regola conferiti dai vescovi e si è già detto che le norme del Codice si applicavano soltanto a questi ultimi (canone 1413 § 1).

Un’altra serie di classificazioni atteneva alle caratteristiche dell’ufficio: i benefici si qualificavano così in curati o non curati, a seconda che essi avessero annessa o meno la cura animarum. I benefici erano poi duplici o residenziali e semplici o non residenziali, se era previsto o meno per il titolare dell’ufficio l’obbligo di residenza nella sede del beneficio, che in genere sussisteva per tutti i beneficia curata.

Se il conferimento dell’ufficio era a titolo revocabile, i benefici erano chiamati manuali (temporanei o amovibili); diversamente si indicavano come inamovibili.

Un altro criterio di classificazione era di ordine soggettivo e faceva riferimento allo status di colui che poteva essere nominato titolare dell’ufficio: erano quindi secolari i benefici conferiti ai chierici secolari, religiosi o regolari quelli conferibili soltanto agli appartenenti agli ordini religiosi25. Mandelli riferisce che, per determinare la natura secolare o religiosa di un beneficio, occorreva tener conto di tre elementi: la volontà del fondatore di attribuirlo solo ai religiosi; la natura dell’ufficio beneficiale, quali ad es. l’ufficio di abate o canonico regolare che sono propri di religiosi; il fatto che il beneficio fosse unito pleno iure o incorporato ad una casa religiosa26.

2.4. L’erezione di un beneficio e le sue trasformazioni
I canoni 1414-1418 erano dedicati all’erezione canonica, che era l’atto istitutivo attraverso il quale l’autorità ecclesiastica, in presenza dell’oggettiva perpetuità dei requisiti sostanziali sopraindicati27, conferiva soggettività giuridica al beneficio ecclesiastico; senza tale provvedimento formale, per l’ordinamento canonico, non poteva aversi un beneficio.

L’ordine delle competenze per la costituzione dei benefici era indicato dal canone 1414: la Sede Apostolica aveva la competenza esclusiva in merito all’erezione dei benefici concistoriali (cfr. canone 1414 § 1), dei capitoli cattedrali e collegiali nonché delle dignità capitolari (cfr. canoni 392; 394 § 2); mentre per i benefici non concistoriali la competenza della Santa Sede concorreva con quella attribuita a ciascun Ordinario nell’ambito della sua diocesi, nel senso che il Romano Pontefice poteva in ogni momento avocare a sé il diritto di erigere un beneficio. Quanto ai cardinali, essi potevano erigere benefici non curati nell’ambito del loro titolo o della loro diaconia; mentre i vicari generali non potevano costituire benefici senza uno speciale mandato da parte dell’Ordinario diocesano.

Oltre alla presenza degli elementi propri della fattispecie del beneficio, la giusta causa era un altro requisito sostanziale per la costituzione di un beneficium; doveva cioè riscontrarsi la necessità o l’utilità spirituale della Chiesa per la salute delle anime e l’incremento del culto divino28. Correlativamente il canone 1428 disponeva che le trasformazioni dei benefici fatte senza una causa canonica fossero nulle. Il beneficio doveva essere poi posto in un luogo adatto ad essere contrassegnato da perpetuità oggettiva nei suoi elementi, per poter adeguatamente realizzare lo scopo per il quale veniva costituito.

Circa le formalità da seguire, il canone 1416 imponeva che prima dell’erezione del beneficio fossero convocati e sentiti tutti coloro che ne fossero in qualche modo interessati, affinché non venissero lesi i diritti di alcuno e si potesse addivenire alla decisione con la maggiore consapevolezza possibile. Il canone 1418 esigeva infine che erectio beneficiorum fiat per legitimum instrumentum, occorreva cioè un atto formale (generalmente un decreto) in cui fossero definiti il luogo ove il beneficio veniva eretto, la dote, i diritti ed i doveri del beneficiario.

Ammettendo il concorso di un soggetto privato nell’atto di costituzione, il canone 1417 prevedeva l’eventualità che al fondatore di un beneficio – cioè a chi aveva fornito più della metà dei beni della dote – fosse consentito di porre alcune condizioni, che potevano anche essere contrarie al diritto comune, purché fossero honestae e non incompatibili con la natura del beneficio.

Sia chiaro che ciò non comportava il venir meno della competenza esclusiva dell’autorità ecclesiastica per l’attribuzione della personalità giuridica al beneficio. Tali condizioni, una volta inserite nell’atto istitutivo, non potevano essere mutate o soppresse dall’Ordinario, salvo che, previo consenso del fondatore, fossero sostituite da condizioni più favorevoli29.

Nei canoni 1419-1430, si trattava la materia delle trasformazioni dei benefici ecclesiastici che dovevano essere disposte dalla autorità competente nelle forme previste dal Codice e giustificate dalla presenza di determinate condizioni. Le innovazioni regolate da queste norme erano: l’unione, l’incorporazione, la translatio o trasferimento della sede, la divisione, la dismembratio, la conversio o cambiamento di specie, la soppressione. Anche l’imposizione di pensioni, regolata dal canone 1429, era considerata come un’innovazione del beneficio.

Questi istituti normativi, che pure ebbero grande importanza nella gestione concreta del sistema beneficiale, toccano solo marginalmente la materia vera e propria del sostentamento del clero e per tale ragione non ci diffonderemo nel commento. Va comunque segnalato che queste vicende erano trattate con particolare sfavore dal Codice e che, per l’importanza dei provvedimenti relativi, esse erano per lo più riservate alla competenza della Santa Sede. Spettava infatti al Romano Pontefice disporre l’unione estintiva dei benefici, la loro soppressione, il loro smembramento, l’unione aeque aut minus principalis di un beneficio religioso con uno secolare nonché la traslazione e la divisione di un beneficio religioso.

 2.5 L’amministrazione di un beneficio
Una volta preso legittimo possesso del beneficio, il titolare dell’ufficio ecclesiastico a norma del canone 1472 omnibus iuribus fruitur tam temporalibus quam spiritualibus, quae beneficio adnexa sint.

Il beneficiario, come titolare dell’officium, aveva pertanto il diritto e il dovere di esercitare tutte le attribuzioni che erano ad esso proprie; tra i doveri spirituali inerenti all’ufficio, il canone 1475 menzionava quello di canonicas horas quotidie recitare sanzionandone l’omissione con una corrispettiva diminuzione dei redditi che doveva essere così erogata alla fabbrica della chiesa, al seminario diocesano ovvero in favore dei poveri.

In riferimento agli aspetti patrimoniali relativi alla dote, il Codice precisava che beneficiarius bona ad suum beneficium pertinentia, ut beneficii curator, administrare debet ad normam iuris (canone 1476 § 1). Egli quindi aveva la rappresentanza del beneficio quale persona giuridica e ne curava l’amministrazione del patrimonio secondo le prescrizioni canoniche. L’obbligazione di amministrare correttamente i beni beneficiali comportava la responsabilità del beneficiario per i danni arrecati da sua colpa o negligenza (damna resarcire beneficio debet: canone 1476 § 2). Nel caso si fosse trattato di un beneficio parrocchiale, tali negligenze costituivano altresì giusta causa per la rimozione dall’ufficio di parroco.

Ad avviso di Mandelli, da queste disposizioni dovrebbe ricavarsi uno specifico obbligo del beneficiario a mantenere la consistenza patrimoniale del beneficio, atteso che una parte dei redditi sarebbe vincolata alla finalità di reintegrare la dote «poiché integra non può rimanere se il passivo nella produzione non viene colmato». Sembrerebbe così che la finalità del sostentamento finisca in secondo piano, se l’Autore scrive: «in rapporto ai redditi il beneficiario deve anzitutto […] reintegrare la dote delle sue passività. Gode invece liberamente della parte dei redditi che gli spettano come diritto acquisito per l’adempimento dei suoi doveri d’ufficio»30.

Pur trattandosi di sottili sfumature nel prospettare l’istituto, viste le sanzioni di cui sopra per l’amministratore negligente e visto che si è sottolineata con particolare nettezza la preminenza dell’elemento spirituale del beneficio ecclesiastico, ci pare di dover escludere che tra i doveri del beneficiario vi fosse la conservazione ad ogni costo del patrimonio beneficiale, poiché diversamente sarebbe venuta meno la destinazione funzionale dei beni31.

Ciò non significa avallare i comportamenti di amministratori sconsiderati, bensì stabilire delle priorità nel giudizio e nella interpretazione delle norme, che nella formulazione scelta da Mandelli parevano messe in sottordine. A garanzia del giusto equilibrio tra le diverse esigenze del sostentamento e della conservazione del patrimonio del beneficio, il sistema prevedeva poi dei poteri di controllo in capo al Vescovo; nel canone 1478 si statuiva che Ordinarius loci obligatione tenetur advigilandi etiam per vicarios foraneos ut beneficialia bona conserventur et rite administrentur.

Per la medesima ragione, deve ritenersi troppo rigida (benché didatticamente efficace) anche la distinzione dei redditi beneficiali in tre quote così articolata da numerosi autori: quota per la reintegrazione della dote; quota per il sostentamento del chierico; quota di reddito superfluo disciplinata dal canone 1473.

Il Codice elencava altre obbligazioni di carattere temporale che inerivano all’amministrazione ed erano a carico del beneficiario: sostenere le spese ordinarie inerenti ai beni beneficiali (cfr. canone 1477); adempiere fideliter gli oneri che fossero peculiari del beneficio amministrato (cfr. canone 1475); corrispondere le pensioni imposte sui beni a norma del canone 1429; corrispondere il tributo ordinario per il seminario diocesano (cfr. canone 1356 § 1), il cattedratico da versarsi quotannis in signum subiectionis Episcopo (cfr. canone 1504) e gli altri tributi straordinari contemplati nei canoni 1505-1506.

Per converso, il beneficiario aveva il diritto di libere uti frui fructibus beneficialibus qui ad eius honestam sustentationem sint necessarii e ciò anche se avesse avuto altri beni non beneficiali (cfr. canone 1473). Tale ius percipiendi si configurava come un diritto di godimento che non comprendeva la facoltà di disporre dei beni, tant’è che – garantito il sostentamento e soddisfatte le altre obbligazioni – il superfluo doveva essere impiegato a favore dei poveri o di cause pie.

L’unica eccezione prevista in merito dal Codice era il privilegio concesso ai cardinali dal canone 239 § 1 n. 19 de reditibus beneficiariis libere disponendi etiam per testamentum e si noti che anch’esso riguardava sempre e soltanto i frutti e non il patrimonio del beneficio, che restava perpetuamente vincolato alle esigenze dell’officium e del sostentamento del suo titolare.

2.6 Il diritto del beneficiario in temporalibus: configurazione giuridica
La qualificazione del diritto del beneficiario in temporalibus ha dato luogo ad interessanti dispute tra gli studiosi che val qui la pena di richiamare. La tesi tradizionale, in cui si riassume la tendenza predominante della dottrina, era quella di considerare il beneficiario come una figura speciale di usufruttuario; in tal senso vale la massima enunciata da Goffredo da Trani: clericus in beneficio usufructuario comparatur32.

Lo schema civilistico dell’usufrutto come «ius alienis rebus utendi fruendi salva rerum substantia»33 elaborato dalla giurisprudenza romana è parso a molti il più idoneo a descrivere la situazione giuridica soggettiva del beneficiario, essenzialmente perché consentiva di distinguere in perpetuo la proprietà del patrimonio dai diritti di godimento spettanti al titolare dell’ufficio.

Ruffini sottolinea la decisiva e stretta connessione di tale teoria con la configurazione del beneficio ecclesiastico come autonoma persona giuridica, dotata in quanto tale della capacità necessaria e sufficiente ad avere la titolarità della proprietà della dote.

In altre parole, soltanto se il beneficio è un ens iuridicum e ad esso spetta la proprietà dei beni beneficiali, il diritto del beneficiario può qualificarsi come ius in re aliena ed essere assimilato all’usufrutto. L’origine di tale ardita concezione giuridica recepita dal canone 1409 sta nel concetto enunciato per la prima volta da Sinibaldo dei Fieschi (divenuto poi Innocenzo IV) secondo cui: praebenda potest habere iura sua et possidere, sicut episcopatus, abbatia, hospitale vel quaecumque alia domus vel dignitas vel administratio34.

Contro tale ricostruzione si pongono le tesi di chi ha voluto descrivere il diritto del beneficiario come una figura giuridica sui generis, propria della tradizione canonistica ed assolutamente estranea allo schema dell’usufrutto.

Tra le varie obiezioni formulate dalla dottrina, ricorderemo innanzitutto che, nell’ordinamento civile, il diritto dell’usufruttuario è destinato ad estinguersi, affinché la proprietà possa ricostituirsi pienamente in capo ad un unico soggetto, mentre nel beneficio il godimento dei beni è separato in perpetuo dalla proprietà e non può esservi consolidazione delle distinte facoltà in capo al medesimo soggetto.

In secondo luogo, mentre l’usufruttuario può liberamente usare e fruire del bene come se ne fosse il proprietario, il beneficiario – come ben spiega Stocchiero – «non ha il libero godimento dei beni «nel modo che ne godrebbe il proprietario», ma può goderne soltanto subordinatamente all’esercizio dell’ufficio ecclesiastico, entro i limiti posti dalla necessità del suo sostentamento e col dovere di passare il di più in beneficenza»35.

Il diritto del beneficiario è relativo, condizionato cioè all’esecuzione dei doveri inerenti all’ufficio; il diritto dell’usufruttuario è invece assoluto e non è gravato da oneri aggiuntivi.

Ancora, l’usufruttuario può cedere il proprio diritto a qualsiasi titolo, sia oneroso che gratuito; l’ordinamento canonico non prevede né potrebbe prevedere questa facoltà per il beneficiario. L’usufruttuario non può compiere alcuna innovazione sulle cose che gli sono date in godimento, mentre il beneficiario può ad es. introdurre ex novo una piantagione sul fondo o un ampliamento nella casa beneficiale.

A partire da questi rilievi, lo Stocchiero giunge a concludere che lo schema privatistico dell’usufrutto è inadatto all’esatta qualificazione del diritto del beneficiario, perché solo a patto di grandi forzature si potrebbero ignorare tali e tante eccezioni e particolarità rispetto al modello civilistico.

Vi sono infatti elementi d’ordine pubblicistico che complicano la fattispecie, poiché in virtù dell’ufficio – cioè di un titolo di diritto pubblico – il beneficiario ha anche la rappresentanza e l’amministrazione del beneficio, che in diritto privato sono legittime facoltà del proprietario36.

Del medesimo avviso pare essere anche Schiappoli quando scrive che «la qualità di amministratore dell’ente assorbe quella di usufruttuario, onde si può dire che questa più non esiste»37.

Dovendo definire il diritto de quo, Stocchiero preferisce la figura del diritto di congrua; esso cioè si esaurirebbe nel diritto ad un assegno spettante al beneficiario in forza dell’ufficio esplicato: si tratterebbe in altre parole di uno stipendio dovuto dall’ufficio e corrisposto mediante i redditi del beneficio38. Amministratore di tutti i redditi dell’ente, il beneficiario avrebbe diritto ad una quota di essi per il servizio prestato e, limitatamente a tale quota, ne diverrebbe il legittimo proprietario.

In proposito Fedele ha osservato che, se la dote del beneficio è costituita soltanto da assegni dello Stato e da oblazioni volontarie, «il diritto del beneficiario non è dissimile dal diritto di un impiegato allo stipendio»; diversamente però «dalla qualificazione del beneficio come persona giuridica deriva che il diritto di proprietà sulle cose che compongono il beneficio non può spettare che ad esso e che il diritto del beneficiario relativamente ad esse non può che essere considerato come un diritto limitato che presuppone un diritto illimitato ed assoluto, cioè il diritto di proprietà spettante al beneficio, […] come un ius in re aliena, cioè come un diritto di godimento su cosa altrui»39.

Anche Mazzacane, aderendo alla tesi tradizionale, ritiene non fondamentali le obiezioni formulate contro di essa ed è incline a qualificare il diritto del beneficiario come una species canonica del genus costituito dal diritto di usufrutto ed elaborato dalla scienza giuridica occidentale. Le differenze tra i due istituti ed in particolare le molteplici qualità che si assommano nel beneficiario (usufruttuario, amministratore, rappresentante del beneficio) sono riconducibili alla diversità del titolo, che nel cosiddetto «usufrutto beneficiario» è costituito dalla nomina canonica40.

A questo punto, par di doversi concludere che sia innanzitutto necessario distinguere tra gli aspetti pubblicistici inerenti all’officium ed il problema della qualificazione dello ius percipiendi attribuito al beneficiario. Il Codice stesso – come s’è visto – affermava la personalità giuridica del beneficio e quindi la titolarità della proprietà dei beni in capo all’ente; il diritto spettante al beneficiario era poi inequivocabilmente descritto con la terminologia propria dell’usufrutto: beneficiarius […] omnibus iuribus fruitur tam temporalibus quam spiritualibus, quae beneficio adnexa sint (canone 1472); beneficiarius […] libere uti frui potest fructibus beneficialibus (canone 1473).

Pertanto, si dovrà concordare che la figura giuridica dell’usufruttuario è quella che più si avvicina a quella del beneficiario e che meglio permette di distinguere i rapporti tra l’ente ed il titolare dell’ufficio. Ciò naturalmente a patto di non dimenticare tutte le particolarità e le differenze che rendono questo istituto una figura sui generis, riconducibile solo per analogia allo schema dell’usufrutto41.

2.7 Il conferimento del beneficio e la sua perdita
I canoni 1431-1447 (Cap. III – De beneficiorum collatione) disciplinavano una delle modalità di conferimento dell’ufficio ecclesiastico che si rendeva necessaria entro sei mesi da quando, per il venir meno del suo titolare, esso diventava vacante42.

Va premesso che il Codice conosceva quattro modi di conferimento dell’ufficio (cfr. canone 148 § 1): provisio officii ecclesiastici fit vel per liberam collationem a legitimo Superiore, vel per eius institutionem, si praecesserit praesentatio a patrono aut nominatio, vel per eius confirmationem aut admissionem, si praecesserit electio aut postulatio, vel tandem per simplicem electionem et electi acceptationem, si electio non egeat confirmatione.

Di tali forme di «provvista canonica», che era la locuzione tecnica con cui si indicava propriamente il conferimento di un ufficio, il § 2 del canone 148 specificava che l’institutio era regolata dalle norme sul diritto di patronato, mentre l’electio, la confirmatio e l’admissio trovavano la propria disciplina ai canoni 160-178. La libera collatio era contemplata sia nelle norme sugli uffici (cfr. canoni 152-159) sia nelle norme sui benefici (cfr. canoni 1431-1447).

La nomina da parte del legittimo superiore, compiuta liberamente e senza l’intervento da parte di alcuno, si definiva libera collazione; infatti la provvista veniva distinta in libera, se effettuata per libera collazione e necessaria, se l’autorità ecclesiastica era vincolata dalle proposte di un’altra persona (ad es. il patrono) o di un collegio, nel caso dell’electio.

Il Romano Pontefice, in virtù della suprema potestà giurisdizionale, aveva il diritto di conferire i benefici in tutta la Chiesa e di riservarsene ovunque il conferimento in via esclusiva (cfr. canone 1431); la competenza della Sede Apostolica era concorrente con quella dell’Ordinario del luogo per quanto riguardava i benefici diocesani e si sostituiva a quella dell’Ordinario, per diritto di devoluzione, qualora questi non avesse provveduto al conferimento entro sei mesi dalla notizia certa della vacanza (cfr. canone 1432).

Il canone 1435 enumerava le categorie di benefici il cui conferimento era riservato alla Santa Sede e che non potevano pertanto essere conferiti validamente da alcun’altra autorità ecclesiastica.

La competenza dei cardinali riguardava la provvista dei benefici vacanti nell’ambito del loro titolo o della propria diaconia, salvo il diritto della Santa Sede. Gli Ordinari locali, salvo sempre il diritto della Santa Sede per competenza, per riserva e per devoluzione, avevano titolo giuridico a conferire i benefici nel loro territorio, mentre il vicario generale non poteva fare provviste se non con mandato speciale (cfr. canone 152).

Il canone 1437 disponeva infine che nessuno potesse conferire a se stesso un beneficio né potessero conferirsi due uffici incompatibili, che non potessero cioè essere adempiuti dalla stessa persona (cfr. canone 156). Come precisava il canone 1439 § 2, erano incompatibili tra loro anche due benefici di cui uno fosse sufficiente ad honestam sustentationem del beneficiario.

La forma scritta era richiesta ad validitatem (canone 159: «cuiuslibet officii provisio scripto consignetur») e, perché la provvista fosse efficace, occorreva l’accettazione espressa del beneficiario (cfr. canone 1436).

Tra le norme dedicate alla validità del conferimento ricordiamo qui che era necessario un esame preliminare per accertare l’idoneità della persona prescelta; tale persona doveva essere dotata delle qualità richieste per quel determinato ufficio dal diritto o dall’atto di fondazione del beneficio, altrimenti la provvista era nulla o poteva essere dichiarata nulla (cfr. canone 153); soltanto ai sacerdoti poteva essere conferito un beneficio con cura d’anime (cfr. canone 154); i benefici secolari potevano essere conferiti soltanto a chierici secolari, quelli religiosi soltanto a chierici appartenenti all’ordine a cui i benefici erano annessi (cfr. canone 1442).

Il canone 1438 stabiliva che tutti i benefici secolari dovevano essere conferiti a vita del beneficiario, salvo che disponessero diversamente l’atto di fondazione del beneficio, una consuetudine immemorabile o uno speciale indulto43. I benefici dovevano essere conferiti senza diminuzioni, salvo il caso delle pensioni di cui al canone 1429, e senza simonia cioè senza riduzione dei redditi ad essi relativi, senza compensi o pagamenti da parte dell’investito al collatore, al patrono o ad altri (cfr. canone 1441).

L’institutio, previa presentazione del patrono, era una forma di conferimento dell’ufficio che rientrava tra i privilegi riconosciuti per diritto di patronato ai fondatori cattolici di una chiesa, una cappella o un beneficio. Lo ius patronatus si trasmetteva anche ai successori (cfr. canone 1448). Per il conferimento del beneficio, il patrono o i suoi aventi causa avevano quindi il diritto di indicare alla competente autorità ecclesiastica un chierico che fosse in possesso di tutti i requisiti previsti per l’ufficio vacante.

Poiché il Codice vietava per l’avvenire la costituzione di diritti di patronato ed esortava gli Ordinari del luogo a far venir meno quelli esistenti chiedendone la rinuncia ai titolari (cfr. canoni 1450-1451), non ci pare necessario dilungarci nell’analisi dei canoni 1448-1471, che costituiscono appunto il Capitolo IV De iure patronatus.

Delle altre forme di provvista (elezione, conferma o ammissione) non diremo oltre, se non che, anche in questi casi, il conferimento dell’ufficio comportava la preposizione al beneficio.

Il possesso del beneficio veniva acquistato mediante un apposito atto di consegna che ad validitatem doveva essere compiuto dalla competente autorità ecclesiastica e seguiva le forme prescritte dal diritto locale o dalla consuetudine (cfr. canone 1443); nel caso di benefici non concistoriali, la missio in possessionem competeva all’Ordinario del luogo che poteva affidarla anche ad un suo delegato. Per quanto riguardava il titolare dell’ufficio egli poteva incaricare un proprio procuratore, purché munito di mandato speciale (cfr. canone 1445); la consegna o institutio corporalis poteva essere evitata solo mediante dispensa scritta dell’Ordinario del luogo (cfr. canone 1444 § 1).

Il godimento dei frutti del beneficio, come di ogni altro diritto temporale o spirituale annesso al beneficio, s’iniziava con la presa di possesso validamente eseguita; gravi sanzioni erano previste dal canone 2394 per chi si immetteva nel possesso di propria autorità, senza seguire il modo stabilito dalla competente autorità ecclesiastica. La ratio di questo istituto stava nell’esigenza di fissare con certezza il termine a quo, rispetto a cui il beneficiario poteva legittimamente esercitare i propri diritti44.

Dal momento della immissione nel possesso decorrevano infatti a vantaggio del chierico i termini della prescrizione introdotta dal canone 1446 per l’ipotesi che il titolo d’ordinazione presentasse dei vizi; la prova del pacifico possesso di buona fede per un triennio ininterrotto sanava il vizio del titolo originario, purché esso non fosse simoniaco, e costituiva valido titolo d’acquisizione del beneficio (beneficium ex legitima praescriptione obtinet [canone 1446]).

Sempre in tema di possesso, il canone 1447 riconosceva la legittimazione all’esercizio dell’actio petitoria contro chi aveva il pacifico possesso di un beneficio a colui che affermava di esserne il titolare; del pari, il possessore di un beneficio che si considerava illegittimamente privato di esso poteva esercitare l’azione possessoria per ottenere la reintegrazione nel possesso.

La perdita dell’ufficio comportava – com’è logico – anche la perdita del beneficio. In materia di benefici, ai canoni 1484-1488, il Codice faceva espresso riferimento soltanto ai due casi della rinuncia e della permuta, mentre per la privazione, la rimozione ed il trasferimento dall’ufficio valeva il rinvio del canone 1413 § 2 alla disciplina dettata in tema di uffici dai canoni 183-195.

Tutti i beneficiari potevano rinunciare al beneficio, ma l’Ordinario del luogo non poteva accettare tale rinuncia se non gli risultava che il chierico avesse da altra fonte quanto necessario ad honestam sustentationem (canone 1484). Se il titolo dell’ordinazione fu il beneficio, a norma del canone 1485, era necessario farne espressa menzione nella rinuncia ed indicare il titolo sostitutivo. Queste norme erano dettate da un’evidente finalità di tutela del clero che ispirava anche il canone 1486, secondo cui la rinuncia non poteva farsi a favore di altri né poteva essere subordinata a condizioni relative alla provvista del beneficio o all’erogazione dei suoi redditi. L’Ordinario del luogo poteva accettare una rinuncia in favore d’altri soltanto come mezzo di composizione tra due contendenti rispetto ad un beneficio litigioso.

Il canone 1487 ammetteva la liceità della permuta di due benefici, fissandone rigidamente le condizioni; ma val bene ricordare che era soltanto con il consenso dell’autorità ecclesiastica competente che la rinuncia unilaterale e reciproca dei singoli beneficiari produceva l’effetto di trasferire i benefici permutati; se così non fosse stato, avremmo avuto una rinuncia in favore di altri vietata dalla legge.

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