Storia della redazione dei canoni 1272, 1274 e 1275
Dagli inizi allo Schema del 1977

I lavori per dare soluzione alle questioni concernenti il sostentamento del clero e i benefici ecclesiastici, sollevate – come abbiamo visto – durante il dibattito conciliare e dal m.p. Ecclesiae Sanctae, iniziarono sin dal gennaio 1967, quando durante la Sessio I del Gruppo di Studio De Bonis Ecclesiae temporalibus vennero posti ai consultori tre quesiti, ossia:

Quaenam sint recognoscenda, scilicet mutanda, addenda aut supprimenda

in normis generalibus (canones 1495-1498)

in normis de bonis Ecclesiae acquirendis (canones 1499-1517)

de bonis Ecclesiae administrandis (canones 1518-1528)

Si trattava dunque di trarre le conseguenze di quanto era stato suggerito dal Concilio, come riconobbe lo stesso Segretario della Commissione.

Tra le questioni sollevate dalla riflessione conciliare «omnes consultores conveniunt quaestiones prae aliis difficiliores provenire ex praescripto Concilii de abolendo vel reformando systemate beneficiali et de praeminentia officii ecclesiastici loco beneficii».

Il dibattito su questi problemi si rivelò sin da subito molto acceso.

Il Segretario sottolineava che l’abolizione del sistema beneficiale avrebbe forzatamente costretto a trovare un altro sistema di remunerazione del clero e che, sia pure tenendo conto delle indicazioni fornite dal Concilio Vaticano II, alcune questioni sarebbero rimaste senza risposta, tra cui quella della dote e quella sulla concezione della «costituzione» degli uffici. Inoltre egli si domandava: «quis posset praevidere quot sint necessitates spirituales ad quas occurendas officia tribuantur ita ut actu officium et constituatur et conferatur?».

Allo stesso modo un Consultore osservava che il testo del Concilio Vaticano II sull’abbandono del sistema beneficiale abbisognava certamente di un’interpretazione:

 

Mens Concilii videtur esse quod officium locum principem habeat in iure. Iamvero in Codice J. C. quid habetur? Nihil de paroecia, nihil de dioecesi ut subiecta iuris, ita ut parocho et Episcopo non paroecia vel dioecesis conferatur, sed beneficium aliquod cui adnexum sit officium parochi vel Episcopi […].

 

Concludeva poi affermando che, poiché con il termine «officium» s’intendeva un dovere «stabilmente conferito» e non «stabilmente costituito», allora «Concilium vim facit in libera collatione officii secundum circumstantias, ita ut sine aliquo impedimento possit occurri necessitatibus fidelium».

Contro la moltiplicazione dei servizi si schierò un secondo Consultore, il quale ritenne che i Padri Conciliari avessero parlato dei benefici per una preoccupazione di tipo sociale e fece notare come molti di essi provenissero da regioni in cui il sistema beneficiale non era in vigore. Egli si espresse inoltre contro la centralizzazione dei beni e contro la proposta di abbandonare il sistema beneficiale.

Un altro Consultore suggeriva di non soffermarsi troppo sulla terminologia usata dal Concilio, ma piuttosto di svilupparne l’idea portante emersa, ossia che venisse attribuito senza dubbio il posto principale nel diritto alla categoria di ufficio ecclesiastico.

Riprendendo le posizioni già assunte dalla Pontificia Università Gregoriana, il nostro Consultore giungeva alla conclusione che «systema beneficiale relinquendum [est] ut extollatur functio officii ecclesiastici cuius ratio et extensio tamen iuridice determinanda sunt».

Un altro Consultore, quello dalle cui osservazioni aveva preso spunto il dibattito, fece notare come la questione dell’abbandono del sistema beneficiale riguardasse pochissime nazioni, ossia Italia, Spagna e Portogallo, ed anche in quelle zone – come precisarono un altro Consultore ed il Segretario – i benefici con dote erano rarissimi o assai esigui.

In ogni caso vi fu l’unanimità dei pareri attorno alla dichiarazione di esentare i parroci ed i sacerdoti dall’amministrazione dei benefici medesimi, e rispetto alla necessità di far confluire questi beni in un sistema amministrativo che potesse provvedere a sostituire quello beneficiale, senza intaccare l’adeguatezza del sostentamento del clero.

In una successiva riunione un Consultore mosse l’appunto che «per se huic Coetui pertinet materia de bonis Ecclesiae temporalibus non autem de officiis et beneficiis», ma il Segretario sottolineò che – poiché la personalità giuridica, secondo il Concilio, sembrava da applicarsi agli stessi uffici – la discussione avrebbe dovuto vertere sulla personalità morale a cui i diritti di godimento si riferivano. Infatti essa non si sarebbe potuta assegnare indiscriminatamente a tutti gli uffici, poiché

 

certe non omnibus omnino officiis potest tribui personalitas moralis, cum adsint aliqua munera quae non gaudent charactere stabilitatis et non sint ad finem spiritualem nisi lato sensu […] Necessarium est ergo determinare criteria rigida ne munera cuiuscumque generis ut officia habeantur.

 

Vi fu successivamente una discussione su come i beni ecclesiastici potessero essere connessi ai vari uffici senza che si verificassero i medesimi inconvenienti presenti nel sistema beneficiale.

Intervenendo nel dibattito suscitato da questa affermazione un Consultore osservava come il Concilio avesse parlato di

 

officiis sensu lato – ut apparet in Relatione circa rationem qua elaboratum est “Schema propositionum de Sacerdotibus” […] Commissioni nostrae autem pertinet bene delineare notionem officii illamque, si opus ferat, restringere, quia nullibi in Concilio sancitum est omnibus omnino officiis personalitatem iuridicam tribuendam esse.

 

Il dibattito osservò una battuta d’arresto temporanea, per poi essere ripreso durante la Sessione II, 5-10 giugno 1967.

In tale occasione, uno dei Consultori assenti alla Sessione I presentò un lungo ed articolato votum relativo a tutte le questioni connesse al problema del sostentamento del clero.

Dopo aver segnalato come «sustentatio» fosse un termine che indicava: «summam mediorum materialium oeconomicorum quae toto tempore vitae et activitatis clerici ei necessaria et debita sunt», il Consultore riteneva che nel sostentamento dovessero essere comprese sia la «retributio», cioè «subministratio mediorum ad vivendum necessariorum clerico qui in sua opera incumbit», che la «praevidentia socialis», ossia il debito e sufficiente concorso di mezzi necessari per il sostentamento del chierico anziano o comunque inabile a portare a termine i propri compiti.

Sempre confrontandosi con i testi conciliari, il nostro Consultore suggeriva che soggetti dell’obbligo di una giusta remunerazione dei presbiteri fossero in primo luogo i Vescovi, invitati sia a sollecitare e formare i fedeli circa questa materia, sia, se necessario, a trovare forme di collaborazione con altre diocesi.

Circa la questione dei benefici, il Consultore riteneva che i testi conciliari avessero espresso una maggiore importanza per la categoria di ufficio rispetto a quella di beneficio, ma «consectaria […] immediate magnopere possunt differre […] Patet ergo quod post Concilium actum sit de dominio pleno beneficiati in reditus beneficii».

Quando però, il 5 giugno 1967, lo stesso Consultore richiamò l’attenzione su alcune questioni particolari da affrontare prima di quelle generali, il Segretario e altri Consultori ritennero che:

 

quaestiones particulares tuto posse tractari in nostro coetu, donec in alio coetu quaestio de officio ecclesiastico definiatur, cum aggredi non possit quaestio de reformando systemate beneficiali quin prius illa de officio ecclesiastico definiatur.

 

Più tardi, durante la Sessione III, 20-24 novembre 1967, si ebbe modo di parlare anche dei poteri delle Conferenze Episcopali e dei beni sovradiocesani: partendo dalla prescrizione conciliare fissata in PO 21, la discussione si concentrò sul modo di amministrare i beni costituenti le masse.

Per quanto le opinioni in merito fossero eterogenee e variegate, quasi tutti i Consultori si dichiararono concordi nell’affermare che «subiectum dominii debeat esse Conferentia Episcopalis»; da qui nacque il problema concernente l’attribuzione di una personalità morale a tutte le Conferenze Episcopali.

Tre Consultori avrebbero voluto che tale personalità fosse attribuita espressamente anche alle Conferenze Episcopali nel canone 1496, così come era fissato per le parrocchie e le diocesi. Un altro sottolineò come alle Conferenze Episcopali dovesse essere attribuita implicitamente, interpretando il medesimo canone alla luce delle parole «aliaeque personae morales». Un altro ancora ritenne che la suddetta personalità, atta a possedere i beni sovradiocesani, non dovesse riferirsi univocamente alle Conferenze Episcopali, in modo da lasciare aperta la strada alla costituzione di altri organi sovranazionali con analoghe funzioni.

Un Consultore dichiarò che la personalità morale non era propriamente necessaria per il fine di cui si trattava. Un altro, richiamandosi al m.p. Ecclesiae Sanctae, propose l’istituzione di una Prelatura a cui fosse assegnata l’amministrazione dei beni sovradiocesani; proposta questa condivisa da un altro Consultore, il quale però non mancava di sottolineare come, in taluni Stati, l’eventuale attribuzione della personalità morale alle Conferenze Episcopali avrebbe tramutato queste ultime in corporazioni, cosa che certo non coincideva con la personalità morale.

Nonostante questa eterogeneità di pareri, comunque, i Consultori si dichiararono unanimemente concordi nell’includere espressamente le Conferenze Episcopali nel canone 1496: perciò, come faceva notare il Relatore, sembrava che rimanesse aperta solo la questione dell’amministrazione dei beni.

Un Consultore, tuttavia, intervenne ricordando che esisteva un’altra questione pregiudiziale, ossia quella relativa alla costituzione dei beni sovradiocesani, assolutamente da chiarire prima di poter passare alla loro amministrazione. Per questo, propose di redigere un canone in cui si dichiarasse che ogni massa comune dovesse essere costituita presso le singole Conferenze Episcopali.

La discussione si riportò dunque intorno alla questione dell’amministrazione dei beni sovradiocesani. Un Consultore propose che si dicesse: «Conferentiae Episcopalis est moderari administrationem bonorum ecclesiasticorum, quae ex pluribus dioecesibus proveniunt et necessitatibus ecclesasticis superdioecesanis inserviunt».

Un altro Consultore propose una formula del seguente tenore:

 

Bona ecclesiastica, quae ex pluribus dioecesibus coalescunt et necessitatibus ecclesiasticis superdioecesanis inserviunt, administrantur secundum normas a Conferentiis Episcopalibus in singulis regionibus, approbante Sancta Sede, statutas.

 

Emergeva dunque una grande somiglianza fra le due formule, tra l’altro perfettamente identiche nella loro prima parte: il fatto non sfuggì ai Consultori che infatti le esaminarono contemporaneamente e diedero vita ad un dibattito piuttosto acceso.

Uno di loro avrebbe preferito che si iniziasse il canone con una subordinazione di tipo ipotetico: «se per caso si formano delle masse comuni provenienti da più diocesi […]»; mentre un altro – a sua volta appoggiato da altri tre – avrebbe preferito omettere le parole «et necessitatibus […] serviunt».

Tutti gli altri si opposero all’espunzione di quest’ultima locuzione, in quanto esprimeva efficacemente lo scopo a cui si destinavano i beni.

Un Consultore non trovò opportuno l’uso del termine «coalescunt» ed il Segretario suggerì l’utilizzo del verbo «colligere», ma l’autore del voto affermò che il verbo non doveva essere mutato, sia perché esprimeva correttamente la diversa provenienza dei beni che formavano la massa, sia perché, se si fosse usato il verbo «colligere», si sarebbe poi dovuto specificare la provenienza dei singoli beni.

Facendo seguito a queste osservazioni, un Consultore propose la seguente stesura per la prima parte del canone:

«Bona ecclesiastica, quae ex pluribus dioecesibus coalescunt ad normam can. X»; che ottenne il «placet» di sette Consultori e il «non placet» di quattro.

Per quanto riguardava invece la seconda parte della formula, il Consultore che aveva proposto la prima ne approvò la stesura, purché venisse eliminata l’espressione «in singulis regionibus» e purché il canone fosse redatto mantenendo «aperta via […] organis supranationalibus».

Ci si domandò allora se piacesse l’eliminazione dell’espressione «in singulis regionibus» e la seconda parte della formula così com’era rimasta.

La richiesta d’eliminazione ottenne l’unanimità; riguardo invece all’altro quesito, le posizioni differivano, sia pure non considerevolmente: ad un Consultore non piaceva riservare l’approvazione alla Santa Sede, altri invece preferivano parlare di «recognitio», e non di «approbatio», da parte del Pontefice.

Uno dei Consultori propose di emendare la formulazione in «[…] administrantur secundum normas a Conferentiis Episcopalibus legitime statutas», proposta che – messa ai voti – ottenne dieci «placet» contro un «non placet».

Il 24 novembre 1967, circa la questione «massae bonorum communes: a quibus administrantur et ad quas personas morales pertinent» si decise che: «normae generales de bonis administrandis, in praesenti sessione statutae, applicandae sunt etiam massis bonorum communibus», affidando al Relatore di redigere i canoni relativi all’amministrazione dei beni ecclesiastici, secondo le indicazioni fornite dai Consultori.

Tale lavoro venne appunto preso in esame durante la Sessione IV e, tra gli altri, diede luogo anche al dibattito sulla formulazione del canone 1519-bis, che – secondo le indicazioni preparate dal Relatore – avrebbe dovuto esplicarsi in questi termini:

«Bona ecclesiastica, quae ex pluribus dioecesibus coalescunt, ad normam canonum […] (qui adhuc formulandi sunt) administrantur secundum normas a Conferentiis Episcopalibus legitime statutas».

La formulazione omnibus placet ed un Consultore propose di trasformare questo canone 1519-bis nel canone 1519 e viceversa: la proposta ottenne il placet di tutti.

Nella Sessione successiva, che tocca solo marginalmente il nostro lavoro, i Consultori vennero chiamati a decidere se delegare al diritto particolare le norme fissate dal canone 1523 § 2, già approvate nella sessione precedente, come da proposta di un Consultore. Inoltre si trovarono a sistemare quella parte del Codex Iuris Canonici relativa all’amministrazione dei beni ecclesiastici e ai contratti.

La proposta di delegare al diritto particolare la normativa relativa ai casi che ricadevano nel canone 1523 § 2 venne respinta all’unanimità, mentre venne approvata unanimemente l’idea del Relatore (già avanzata nella precedente sessione) di invertire l’ordine di disposizione dei paragrafi del canone 1527.

Con la Sessione VI venne chiesto ai Consultori – oltre alla recognitio sui canoni 1535-1543 e alla sistemazione di tutti i canoni – di indicare se vi fossero delle lacune da colmare e di esprimere la propria opinione sul tema «de patrimoniis communibus ad varias necessitates providendum: an et quomodo constituenda et administranda sint».

I Consultori, dunque, proposero di sottoporre ad esame le seguenti quaestiones:

 

An systema beneficiale reponendum vel reformandum sit; an patrimonia communia usui determinato destinata costituenda sint; an in hac tantum parte Codicis de iure patrimoniali generali Ecclesiae agendum sit, vel in aliis quoque partibus Codicis (ex. gr. de bonis religiosorum); an officia personalitate iuridica habeant quoad ius patrimoniale.

 

Riguardo a quest’ultima problematica, il Segretario fece notare che in assemblea competente era già stata effettuata la distinzione tra persone giuridiche pubbliche e private, e da tale distinzione nasceva la questione se considerare beni ecclesiastici anche i beni delle persone giuridiche private.

Quanto alle altre quaestiones, per le quali i Consultori approntarono una bozza con i propri pareri, fu chiaro che necessitava maggior tempo per dar luogo ad uno studio più approfondito sulle tematiche prese in esame: si chiedeva pertanto alla Segreteria di indicare le singole quaestiones su cui essi avrebbero potuto esprimere un voto.

La Segreteria della Commissione rispose con una lettera ai Consultori, indicando, tra le altre che sarebbero state esaminate nella successiva Sessione, le seguenti quaestiones:

 

1. An patrimonialia bona personae privatae inter bona ecclesiastica computari debeant; 2. Quaenam massae bonorum reputentur necessario efformari ac definiri debere in iure patrimoniali Ecclesiae; de singulis dicatur constitutio, finis, subiectum dominii; 3. Quaenam sunt institutiones ecclesiasticae quae assignatione bonorum patrimonialium stabilium egent ut recte constitui possint; 4. An quaedam officia ecclesiastica bona temporalia, tamquam dos, in posterum retinere valeant; 5. Quid de superviventia beneficiorum ecclesiasticorum, ratione habita situationis in singulis regionibus, statui possit in novo Codice, v. gr. de iuribus quaesitis, de conventionibus cum statibus, etc.

 

Si pregavano, inoltre, i Consultori di esaminare tali questioni e di voler indicare, assieme ai canoni concernenti, anche un voto in proposito.

Essi, dunque, inviarono il loro voto scritto esprimendo molti suggerimenti, compendiati dal Relatore ed approntati per i Consultori stessi e per la Segreteria della Commissione prima della Sessione VII.

Tale Sessione si tenne tra il 26 e il 31 maggio del 1969.

Il 28 maggio, a fronte della questione: «quaenam massae bonorum reputantur necessario efformari ac definiri debere in iure patrimoniali ecclesiae», uno dei Consultori, invitato dal Segretario ad esporre i punti generali delle questioni all’ordine del giorno e ad introdurre lo schema dei canoni, iniziò affermando che la questione delle masse comuni dei beni era strettamente legata a quella della soppressione dei benefici. Egli proseguì delineando una serie di masse comuni che potevano essere create per far fronte alle svariate necessità della Chiesa. Affermò inoltre che, seppur la problematica fosse indubbiamente da riferire al Codice di Diritto Canonico, era anche necessario devolvere molti aspetti al diritto particolare.

Facendo seguito a questa premessa, il Consultore distribuì agli altri lo schema dei canoni da lui stesso elaborato nel suo voto scritto.

Sette Consultori replicarono che tale schema era troppo costrittivo riguardo all’obbligo di costituzione della massa comune, eccessivamente dispersivo ed invasivo del diritto particolare.

Un Consultore avrebbe voluto che si costituissero sempre e comunque masse comuni, mentre un altro espresse il parere che ciò ricadesse sempre sotto la giurisdizione delle Conferenze Episcopali, lasciando al diritto comune il compito di fornire una normativa per quelle diocesi dove queste non avessero ancora stabilito nulla in proposito.

Relativamente alla terminologia, un Consultore avrebbe preferito che tali patrimoni comuni venissero denominati «Instituta», piuttosto che «massae», ma un altro fece notare come tale vocabolo si prestasse ad interpretazioni piuttosto ambigue: a suo giudizio, dunque, sarebbe stato meglio che la denominazione fosse stabilita dal diritto particolare, in modo da lasciare i Vescovi liberi di seguire le circostanze di luogo.

Il Segretario, dunque, «attentis his discussionibus», propose la seguente formula:

 

§ 1. Advigilent Episcoporum Conferentiae, iuxta normas ab ipsis condendas, ut in singulis dioecesibus habeatur speciale institutum quod bona vel oblationes colligat eum in finem ut honestae necnon fundamentaliter aequali sustentationi omnium clericorum, qui in populi Dei servitium munere funguntur vel functi sunt, apte provideatur.

 

A questa formula fecero seguito le osservazioni di un Consultore che avrebbe voluto integrare la frase iniziale con «Advigilent Episcopus et […]», con la motivazione che il Vescovo, nella sua diocesi, poteva agire senza attendere le normative della Conferenza Episcopale.

Tale proposta non piacque, così come quella avanzata da un altro Consultore che – sulla scorta del primo – avrebbe voluto iniziare così il periodo: «Episcopi, praesertim in Conferentiis Episcopalibus […]», e quella di un altro che avrebbe voluto espungere la parola «apte».

Vennero invece accolte le proposte di espungere le parole «vel functi sunt», secondo l’indicazione di un Consultore che faceva notare come per quei chierici si dovesse provvedere tramite un’altra massa comune, e quella – secondo i suggerimenti di un ulteriore Consultore – di indicare nell’ultimo paragrafo, in modo da poterla riferire anche ad altre masse di beni, che più diocesi potessero dar vita ad un unico istituto interdiocesano.

Nel Conventus successivo un Consultore propose lo schema del § 2 circa le masse dei beni:

 

Item curent Episcoporum Conferentiae ut, attentis legibus ecclesiasticis et civilibus, in singulis nationibus habeantur sive instituta dioecesana, etiam inter se foederata, sive instituta pro variis dioecesibus simul constituta, sive consociatio pro tota natione condita, quibus, sub vigilantia sacrae Hierarchiae, satis provideatur tum congruenti cautioni et adsistentiae sanitariae, quam vocant, tum debitae sustentationi clericorum qui infirmitate, invaliditate aut senectute laborant.

 

Un altro Consultore pensava che tale formula fosse troppo prolissa e ne propose una forma abbreviata:

 

 

In nationibus ubi praevidentia socialis in favorem cleri nondum apte ordinata est, curent Conferentiae Episcoporum pro suo cuiusque territorio ut, attentis legibus   ecclesiasticis  et  civilibus,  habeantur  instituta  quibus, sub vigilantia Hierarchiae, satis provideatur necessitatibus providentiae socialis et adsecurationi sanitariae.

 

Il Relatore approvò quest’ultima formulazione, ma propose che si modificassero le ultime parole in «[…] sub vigilantia Hierarchiae, securitati sociali clericorum satis provideatur», e ciò piacque a tutti.

Un Consultore chiese se tale norma dovesse applicarsi anche ai religiosi ed il Segretario rispose che era preferibile lasciare tale questione al diritto particolare.

Venne successivamente proposta la formulazione del § 3:

 

In singulis dioecesibus vel regionibus, modis ab Episcoporum Conferentiis definiendis, constituatur quantum fieri possit, massa communis, qua valeant Episcopi obligationibus erga alias personas Ecclesiae deservientes satisfacere variisque dioecesis necessitatibus occurrere, quaque etiam valeant dioeceses divitiores adiuvare pauperiores.

 

Un Consultore avrebbe preferito determinare anche i parametri di costituzione di tale massa comune, ma gli altri approvarono la formulazione generale, in quanto non risultava possibile, nella legge comune, stabilire criteri precisi validi per tutti i luoghi.

Venne respinta anche la proposta avanzata da un altro Consultore di sopprimere le parole «quantum fieri potest», mentre venne accettata, salvo due riserve, l’integrazione «[…] laicorum etiam opera adhibita […]», da aggiungersi dopo «[…] modis ab Episcoporum Conferentiis definiendis […]».

La formulazione proposta venne dunque accettata con le sole riserve a cui abbiamo accennato: esse provenivano da due Consultori, che avrebbero preferito parlare dell’apostolato dei laici in altro luogo, in quanto l’argomento trattato nel § 3 era quello della costituzione delle masse.

Il 29 maggio venne presentata la formulazione del § 4 del canone sulle masse comuni:

 

De iudicio competentis Conferentiae Episcoporum et iuxta normas ab ipsa condendas instituta necnon massa de quibus supra (in §§ 1, 2, 3) esse possunt sive dioecesana, etiam inter se foederata, sive pro diversis dioecesibus simul constituta, sive consociationes pro tota natione condita.

 

Ne nacque una «longa discussio» a proposito delle seguenti problematiche:

 

An concedenda sit Conferentiae Episcopali potestas legislativa quoad hanc materiam, ita ut omnes Episcopi teneantur legibus ipsius Conferentiae.

An opportunum sit consociationem Institutorum ad plures nationes extendere.

An remissio facienda sit ad can. 1519 (recognitum) quod attinet ad administrationem bonorum quae coalescunt ex pluribus institutis foederatis.

An possibilitas sese foederandi extendi debeat etiam ad instituta de quibus in § 1 (ad honestam sustentationem clericorum).

 

Vediamo ora le animadversiones avanzate alle singole questioni.

Alla domanda se si dovesse concedere alla Conferenza Episcopale il potere legislativo sulla materia, di modo che tutti i Vescovi si attenessero a quanto stabilito dalla Conferenza stessa, due Consultori risposero affermativamente, temendo le conseguenze di un certo ed inevitabile «egoismo diocesano» da parte dei singoli Vescovi. Altri due risposero positivamente purché le Conferenze disponessero di almeno due terzi dei voti dei membri. Altri due invece espressero parere negativo per non limitare la potestà dei Vescovi con l’accrescere il potere di questo organo intermedio, e per il timore che in simile materia le deliberazioni della Conferenza non fossero efficaci quanto quelle di ogni singolo Vescovo. Altri due affermarono che non era necessario attribuire facoltà legislative alla Conferenza: sarebbe stato preferibile – una volta raggiunta la maggioranza dei voti – ottenere il placet della Santa Sede perché la deliberazione della Conferenza avesse forza di legge.

Alla domanda se fosse opportuno estendere la consociazione degli Istituti a più nazioni, numerosi Consultori risposero positivamente: uno di loro mise in guardia gli altri da un possibile pericolo di strumentalizzazione di tali istituzioni da parte degli Stati civili, che avrebbero potuto servirsene per trafficare in valuta. Due Consultori pensarono di lasciare alla Santa Sede il compito di esaminare i singoli casi, e che nulla in proposito si dicesse nella legge comune.

Alla richiesta se vi fosse da fare rimando a quanto stabilito dal già recognito canone 1519, attinente all’amministrazione dei beni formati da più istituti federati, due Consultori diedero parere positivo, mentre gli altri pensavano che ciò non fosse necessario.

Alla domanda se la possibilità di federazione dovesse essere estesa anche agli istituti di cui al § 1 (per l’onesto sostentamento del clero), un Consultore sottolineò come fosse intenzione del Concilio che alcuni di essi fossero esclusivamente diocesani, mentre gli altri – di cui ai §§ 2 e 3 – potevano essere federati. I restanti Consultori non ebbero nulla in contrario a che gli istituti di cui al § 1 potessero federarsi.

Durante la seduta successiva, il 29 maggio, fu proposto lo schema del § 4:

 

De consensu competentium Episcoporum Conferentiarum et iuxta normas ab ipsis condendas, fines de quibus in §§ 1, 2, 3 promoveri possunt per cooperationem plurium dioecesium vel per consociationem sive pro tota natione, sive pro pluribus nationibus conditam.

Quodsi, in casu particulari, aliqualis eiusmodi dispositio ad bonum commune necessaria esse videtur decisio Conferentiae competentis, ad normam can… prolata, vim legis habet pro omnibus quos respicit. VEL Quodsi, aliqua eiusmodi dispositio maiori parti Conferentiae videtur ad bonum commune requiri, valde optandum est ut decisio maioritatis ab omnibus Conferentiae membris in effectum deducatur.

Un Consultore avrebbe voluto definire in maniera più circostanziata l’organo definitivo: un unico istituto per più diocesi oppure una federazione di più istituti diocesani. Gli altri, invece, accettarono come base di discussione sia la prima sia la seconda formulazione. Un ulteriore Consultore sottolineò come, nelle formulazioni presentate la creazione dell’associazione di istituzioni venisse descritta impersonalmente, mentre al contrario era auspicabile esprimere chiaramente chi dovesse promuovere ciò. Pertanto egli propose la seguente formulazione:

 

Episcoporum Conferentiae, iuxta normas ab ipsis condendas, fines de quibus in §§ 1, 2, 3 promoveant vel per instituta dioecesana inter se foederata, vel per cooperationem aut etiam convenientem consociationem pro variis dioecesibus, imo et pro toto territorio constituta.

 

A questa formulazione un Consultore oppose che la forma impersonale fosse da preferirsi e così si giunse a suggerire una formulazione semplificata:

 

Fines de quibus in §§ 1, 2, 3 obtineri possunt per instituta dioecesana inter se foederata vel per cooperationem aut etiam per convenientem consociationem pro variis dioecesibus, imo et pro toto territorio constitutam.

 

Un altro Consultore approvò questa formulazione, proponendo tuttavia che si integrasse la parola «aptius» prima di «obtineri possunt»: la sua proposta piacque a tutti. Un altro, tuttavia, fece notare come si potesse parlare di «aptius» a buon diritto in tutti e tre i paragrafi, ma – in effetti –, per quanto specificato nel § 1, gli scopi si potevano ottenere «aptius» attraverso gli istituti diocesani. Egli propose pertanto di parlare di «aptius» limitatamente ai §§ 2 e 3: la sua proposta piacque a tutti, per cui la formula originaria venne approvata con i due emendamenti che abbiamo citato.

Un Consultore, infine, propose che si completasse il § 4 con le seguenti parole:

 

Foveantur insuper relationes, quoties id expedire videatur, inter huiusmodi instituta diversarum nationum ad eorum maiorem efficacitatem promovendam ac tuendam.

La proposta fu approvata da tutti.

Relativamente invece alla personalità morale di questi istituti i Consultori pensavano che in proposito non fosse necessario stabilire nulla nella legge comune, di modo che il diritto particolare avrebbe provveduto per le diverse circostanze di luogo.

Proseguendo la discussione, un Consultore propose che nel canone relativo alle masse comuni fosse aggiunto un § 5 così articolato: «Pro iisdem institutis servetur forma iure quoque civili valitura». Un altro Consultore approvò la richiesta, ma chiese che la redazione avvenisse nel modo seguente: «Quod si haec instituta personalitate donentur, ita pro posse constituenda sunt ut iure civili, etiam internationali, recognosci possint».

Un terzo Consultore, tuttavia, sostenne che quel § 5 non fosse necessario, ma che piuttosto le parole «attentis legibus ecclesiasticis et civilibus», di cui al § 2, fossero da trasferirsi al § 4, il quale avrebbe dunque avuto la forma: «Fines de quibus in §§ 2 et 3 aptius obtineri possunt, attentis semper legibus ecclesiasticis et civilibus per instituta […]».

Altri due Consultori, tra i quali il redattore della formulazione originale del § 4, concordarono con l’espunzione delle parole «attentis […] civilibus» dal § 2, ma sostennero la necessità di un § 5, poiché si trattava dell’affermazione di un principio generale che aveva valore per tutti gli istituti o masse comuni.

Il redattore della formulazione originale del § 4 propose dunque che – eliminate tali parole nel § 2 – si redigesse il § 5 così: «Haec instituta ita pro posse constituenda sunt ut iure civili quoque efficaciam habeant».

Tale proposta piacque a tutti, salvo ad un Consultore, che chiese di mettere agli atti la propria riserva.

Un Consultore pensava che gli istituti o le masse comuni di cui si parlava nel canone avessero lo scopo di introdurre una maggiore giustizia in ambito diocesano e interdiocesano; domandava pertanto se fosse opportuno istituire un organo presso la Santa Sede destinato ad occuparsi di tale problematica tramite una cassa di compensazione.

Due Consultori risposero che la domanda aveva la sua rilevanza, ma a causa della delicatezza e della gravità dell’argomento, era questione da lasciare alla Santa Sede.

A causa della mancanza di tempo, le quaestiones III e IV furono prese in considerazione in maniera molto veloce; tuttavia i Consultori furono d’accordo circa le seguenti conclusioni:

 

Non videtur opportunum aliquem indicem redigere ad indicandas institutiones quae assignatione bonorum patrimonialium stabilium egent ut recte constitui possint; nihil vetat quod in posterum quaedam officia ecclesiastica bona temporalia tamquam dotem retinere valeant, dummodo non amplius existet ille nexus per quem titularis officii fructus dotis suos faciat. Talis dos, si quae alicui officio assignata sit, bonis frugiferis consistere debet, non autem aliis fontibus de quibus in can. 1410 C.J.C..

 

Il testo del canone approvato, dunque, risultava il seguente:

 

§ 1. Advigilent Episcoporum Conferentiae, iuxta normas ab ipsis condendas, ut in singulis dioecesibus habeatur speciale institutum quod bona vel oblationes colligat eum in finem ut honestae necnon fundamentaliter aequali substentationi omnium clericorum, qui in populi Dei servitium munere funguntur, apte provideatur.

§ 2. In nationibus ubi praevidentia socialis in favorem cleri nondum apte ordinata est, curent Conferentiae Episcoporum pro suo cuiusque territorio ut habeantur instituta quibus, sub vigilantia Hierarchiae, securitati sociali clericorum satis provideatur.

§ 3. In singulis dioecesibus vel regionibus, modis ab Episcoporum Conferentiis definiendis, laicorum etiam opera adhibita, constituatur quantum fieri possit massa communis qua valeant Episcopi obligationibus erga alias personas Ecclesiae deservientes satisfacere variisque dioecesis necessitatibus occurrere, quaque etiam valeant dioeceses divitiores adiuvare pauperiores.

§ 4. Pro diversis locorum adiunctis, fines de quibus in §§ 2 et 3 aptius obtineri possunt per instituta dioecesana inter se foederata, vel per cooperationem aut etiam per convenientem consociationem pro variis dioecesibus, imo et pro toto territorio constitutam. Foveantur insuper relationes, quoties id expedire videatur inter huiusmodi instituta diversarum nationum ad eorum maiorem efficacitatem promovendam ac tuendam.

§ 5. Haec instituta ita pro posse constituenda sunt ut iure civili quoque efficaciam obtineant.

 

Nell’ultima seduta della Sessione venne infine ripresa brevemente la quaestio I («an bona quae ad personas iuridicas seu canonicas privatas pertinent inter bona ecclesiastica computanda sint»), giungendo alla conclusione di metter ai voti i «dubia», poiché la problematica era già stata discussa ampiamente dai Consultori e non si voleva introdurre una nuova discussione.

Si misero dunque ai voti le seguenti domande:

 

Utrum bona temporalia quae ad personas iuridicas seu canonicas privatas pertinent inter bona ecclesiastica sint computanda.

Quatenus affermative ad I, utrum eadem bona subicienda sint regimini communi bonorum ecclesiasticorum.

Quatenus negative ad II, utrum haberi debeat regimen speciale et proprium circa ea bona in iure canonico.

Quatenus affermative ad III, illud regimen speciale sit disponendum per modum exceptionum in legibus communibus, an potius per leges novas condendas in iure canonico.

 

L’esito del voto fu un «placet» unanime sulla prima questione, un «non placet» unanime sulla seconda, un «placet» unanime sulla terza. Riguardo alla quarta questione, sei Consultori espressero un «placet», due un «non placet», un Consultore si astenne.

La Sessione venne chiusa al termine della votazione.

Durante la successiva Sessione VIII fu discusso anche il problema dell’ordinazione interna della materia relativa al diritto patrimoniale ecclesiastico. Se da un lato, infatti, alcuni Consultori desideravano che si discutesse dell’ordinazione sistematica solo dopo che tutti i canoni del diritto patrimoniale avessero avuto la loro recognitio c’era tuttavia chi pensava che fosse meglio discutere in fretta di tale argomento, perché sicuramente avrebbe generato nuove questioni alle quali dare risposta. Tale ultima proposta non piacque.

Quattro mesi dopo, nella Sessione IX, fu dunque essenzialmente discussa la disposizione sistematica interna dei canoni attinenti al diritto patrimoniale, secondo la seguente struttura:

 

Tit. I: Canones praeliminares (cann. 1-9)

Tit. II: De subiecto dominii (cann. 10-14)

Tit. III: De administratione bonorum (cann. 15-31)

Tit. IV: De acquisitione, de alienatione et speciatim de contractibus (cann. 32-42)

Tit. V: De piis voluntatibus in genere et de piis fundationibus (cann. 43-54).

 

Non vi sono ulteriori accenni alla nostra problematica in sede di discussione del gruppo di studio, anche se, negli scritti dei Consultori, annessi alla Sessione, non mancarono utili osservazioni dalle quali emergeva la necessità di trattare anche dei benefici alla luce delle indicazioni conciliari.

Quanto stabilito nelle Sessioni non venne più ritoccato: ne abbiamo la riprova nello Schema canonum Libri V de iure patrimoniali Ecclesiae, inviato alla consultazione il 15 novembre 1977. In esso venne conservato il medesimo ordine sistematico stabilito nella Sessio IX, con gli stessi titoli, ma – a causa dell’aggiunta di tre nuovi canoni – vi fu uno slittamento di alcuni: il canone relativo alle masse comuni, per esempio, passò dal numero 14 al 16.

Questo canone, che è quello che a noi interessa, presenta solo alcune piccole varianti rispetto a quanto approvato nella Sessione VII.

Sotto lo stesso titolo, de subiecto dominii, appariva un canone 17, definito novus, che così recitava:

 

In regionibus ubi beneficia proprie dicta adhuc existunt, Episcoporum Conferentiarum est, opportunis normis cum Apostolica Sede concordatis et ab ea approbatis, huiusmodi beneficiorum regimen moderari, ea  tamen lege ut ratio officii omnino praevaleat et reditus immo ipsa dos beneficiorum ad institutum de quo in can. 16 § 1 (paulatim) conferantur.

 

 

 

 

 

Lo Schema del 1980

 

Dopo che lo Schema del libro V venne inviato alle Conferenze dei Vescovi, ai Dicasteri della Curia Romana e alle Università Ecclesiastiche, il gruppo di studio sui beni temporali della Chiesa prese in esame le osservazioni pervenute in due Sessioni, la prima tra il 17 e il 23 giugno 1979 e la seconda tra il 12 e il 16 novembre 1979.

Tra le osservazioni generali allo schema si segnalava come: «apta solutio adumbrata est circa quaestio beneficiorum et circa constitutionem “massae communis” bonorum» e «regimen bonorum rationem habet socialis bonorum Ecclesiae, contra indolem individualistica systematis beneficialis propriam». Il che, tuttavia, non impediva di notare come «in Schemate nimis sermo fit de his quae attinent ad sustentationem clericorum, quod quidem incongruum videtur si attendatur ad ea quae omissa sunt circa communionem bonorum ecclesiasticorum, destinationem bonorum pauperibus, spiritum paupertatis».

Il 22 e il 23 giugno 1979 il gruppo di studio si soffermò sui due canoni oggetto della nostra attenzione: il canone 16 e il canone 17 dello Schema/77.

Una prima discussione sorse su dove collocare il canone 16, se sotto il titolo dedicato all’amministrazione dei beni oppure sotto quello dedicato alla loro acquisizione. La decisione presa fu quella di porlo dopo il canone 18, dedicato al Romano Pontefice come supremo amministratore dei beni ecclesiastici, al titolo relativo all’amministrazione dei beni.

Sul § 1 vennero suggeriti otto punti di discussione:

L’unificazione dell’istituto di cui al § 1 con la massa comune di cui al § 3. La proposta venne respinta

 

quia mens Concilii Vat. II videtur esse ut duo illa instituta distincta maneant. Quod opportunum quidem est, nam in quibusdam dioecesibus iam provisum est per aliquod institutum vel alio modo sustentationi clericorum, et ideo constitui ibi debet tantum alia massa de qua in § 3.

 

Si propose una norma che specificasse alcuni criteri generali circa la giusta remunerazione di coloro i quali erano a servizio della Chiesa, ad esempio sulla natura di tale servizio, le condizioni dei tempi e dei luoghi. Si rispose che il problema era già risolto con una norma specifica nel libro dedicato al popolo di Dio.

Sulla facoltà data alle Conferenze episcopali di vigilare sulle singole diocesi, i Consultori concordarono che si trattava di una limitazione della giusta autonomia dei singoli Vescovi.

«Nonnulli proposuerunt ut praecepto de quo in § 1 addatur clausula “nisi aliter sustentationi clericorum provisum sit”». Propositio omnibus placet».

Visto che alcuni Consultori non ritenevano opportuna l’espressione «necnon fundamentaliter aequali substentationi omnium clericorum», poiché poteva sembrare non tener conto delle differenze dei luoghi e dei tempi, si decise di sopprimere l’espressione sostituendola con un richiamo ad un apposito canone del libro sul popolo di Dio.

Sulla questione di specificare meglio quali chierici avessero il diritto di essere sostentati, «aliqui proposuerunt ut mentio fiat non tantum clericorum qui “servitium munere funguntur” sed etiam “eorum qui servitium munere functi sunt”. Consultores autem respondent talibus clericis, qui servitium munere “functi sunt”, provideri per pensionem de qua in § 2».

Alcuni consultori chiesero che dal diritto ad essere sostentati fossero esclusi i religiosi; altri che vi fossero inclusi non solo i chierici incardinati, ma anche quelli che prestavano un servizio alla diocesi «vi conventionis». La decisione fu quella di lasciare agli statuti degli istituti diocesani queste questioni.

Alcuni proposero che da tale diritto fossero esclusi i diaconi permanenti, ma i consultori: «respondent de hac quaestione normas haberi in can. 141 § 2 De Populo Dei».

Si giunse così a formulare il § 1

 

Habeatur in singulis dioecesibus speciale institutum quod bona vel oblationes colligat eum in finem ut substentationi clericorum, qui in favorem dioecesis servitium praestant, ad normam can. 1441 (De populo Dei) provideatur, nisi aliter eisdem provisum sit.

 

Sul § 2 si decise, da una parte, di sopprimere l’espressione «sub vigilantia Hierarchiae», poiché «illi ipsi qui institutum constituunt, ius habent vigilandi ut normae ab ipsis datae serventur». D’altra parte, tutti concordarono che si dicesse: «[…] curet Episcoporum Conferentia ut habeatur institutum quo securitati sociali clericorum satis provideatur».

Circa il § 3 furono fatte tre osservazioni:

qualcuno propose di sopprimere l’espressione «modis ab Episcoporum Conferentiis definiendis», perché limitativa delle facoltà dei singoli Vescovi; mentre altri proposero di sopprimere l’espressione «vel regionibus».

Tutti i Consultori furono d’accordo nel sopprimere l’espressione «laicorum etiam opera adhibita», perché superflua.

Unus Consultor animadvertit verba “quantum fieri possit” esse inepta, quia in canone sermo fit de “obligationibus” satisfaciendis et ideo constitutio huius massae necessaria apparet”. Alter Consultor proponit ut dicatur “quatenus opus sit” loco “ quantum fieri possit”. Quae propositio omnibus placet.

Al § 4 si osservò:

 

– Unum Organum consultationis proposuit ut haec norma supprimatur, quia talis foederatio institutorum imaginem praebet Ecclesiae nimis divitis. Propositio non placet Consultoribus, quia, attenta realitate rerum, foederatio illa fovenda videtur ut variis obligationibus aptius obveniri possit.

Suggestum est ut admittatur possibilitas avertendi pecuniam ab una massa in favorem alterius massae communis. Unus Consultor censet hoc possibile esse, servatis de iure servandis, quin expresse in lege dicatur. Alii Consultores idem sentiunt.

 

Il 23 giugno 1979 veniva messo a discussione il canone 17, quello dedicato alla questione dei benefici ecclesiastici.

I Membri del gruppo osservarono due cose:

 

Nonnulla Organa consultationis quaestiones ponunt de natura et ambitu reformationis systemati beneficialis quae habetur in formula canonis, quae non videtur plene congruere cum mente Concilii Vat. II […]. Vi huius canonis enim non assequitur suppressio, neque illa radicalis reformatio systematis beneficialis fructus; vel saltem non clare ex formula canonis eruitur talem esse mentem Supremi Legislatoris.

 

I Consultori sottolinearono come ogni decisione non poteva non tener conto del parere delle Conferenze episcopali, le quali, tenendo presenti le singole situazioni locali e la normativa civile, secondo le norme concordate con la S. Sede, avrebbero potuto provvedere nei modi più opportuni. Sull’esito finale della normativa in materia di benefici, i Consultori erano sostanzialmente concordi che: «etsi per gradus assequendum […] opportunum esse ut tandem ad suppressionem beneficiorum deveniatur».

Lo Schema del 1980 predisponeva la materia in modo diverso ponendo il canone sui benefici ecclesiastici sotto il titolo I, de acquisitione bonorum, alla fine, formulandolo così:

 

Canon 1223. In regionibus ubi beneficia proprie dicta adhuc existunt, Episcoporum  Conferentiarum est,  opportunis  normis cum  Apostolica Sede concordatis et ab ea approbatis, huiusmodi beneficiorum suppressionem moderari, ita ut reditus immo ipsa dos beneficiorum ad institutum de quo in can. 1225 § 1 paulatim deferantur.

 

Sotto il titolo II, de administratione bonorum, dopo un primo canone, il 1224, dedicato al Romano Pontefice come supremo amministratore di tutti i beni ecclesiastici, vi era il canone 1225:

 

§ 1. Habeatur in singulis dioecesibus speciale institutum quod bona vel oblationes colligat eum in finem ut substentationi clericorum, qui in favorem dioecesis servitium praestant, ad normam can. 255 provideatur, nisi aliter eisdem provisum sit.

§ 2. In nationibus ubi praevidentia socialis in favorem cleri nondum apte ordinata est, curet Episcoporum Conferentia ut habeatur institutum quo securitati sociali clericorum satis provideatur.

§ 3. In singulis dioecesibus constituatur, quatenus opus sit, massa communis qua valeant Episcopi obligationibus erga alias personas Ecclesiae deservientes satisfacere variisque dioecesis necessitatibus occurrere quaque etiam possint dioeceses divitiores pauperioribus subvenire.

§ 4. Pro diversis locorum adiunctis, fines de quibus in §§ 2 et 3 aptius obtineri possunt per instituta dioecesana inter se foederata, vel per cooperationem aut etiam per convenientem consociationem pro variis dioecesibus, imo et pro toto territorio constitutam; foveantur insuper relationes, quoties id expedire videatur, inter huiusmodi instituta diversarum nationum ad eorum maiorem efficacitatem promovendam ac tuendam.

§ 5. Haec instituta ita, si fieri possit, constituenda sunt ut efficaciam quoque in iure civili obtineant.

 

Evidente, rispetto alla redazione del 1977, la soppressione, nel primo paragrafo, della vigilanza della Conferenza Episcopale sugli istituti diocesani per il sostentamento del clero. Scompare anche l’affermazione «ut honestae necnon fundamentaliter aequali substentationi omnium clericorum» a favore di una formulazione più semplice: «ut substentationi clericorum». Anche se la nuova redazione aggiungeva un rimando al canone 255, sempre dello Schema del 1980, che chiariva cosa si dovesse intendere per una giusta «remuneratio». Con maggiore precisione si preferiva parlare di quei chierici che prestavano servizio a favore della diocesi, piuttosto che la generica formulazione dello schema del 1977: «qui in populi Dei servitium munere funguntur».

Il canone 1225 era subito seguito dal canone 1226:

 

Massa bonorum ex diversis dioecesibus provenientium administratur secundum normas ab Episcopis quorum interest legite concordatas.

 

 

 Dallo Schema del 1980 alla redazione finale

 

In sede di esame delle osservazioni allo Schema del 1980 emersero importanti interventi come quello di due Padri orientati a chiedere l’eliminazione del canone 1223, quello cioè dedicato alla soppressione dei benefici ecclesiastici, per le seguenti ragioni:

 

Statuitio inutilis et iniusta, cuius applicatio quibusdam in locis plures inveniet difficultates. Pastoralis tendentia huic normae subiacens periculosa est et ad erroneas ducit conclusiones. Rationem enim non habet historiae, neque Ecclesiae structurae, quae ab immoderata et inutili centralisatione abhorret.

In mutatione tandem documentum proprietatis (eo quod beneficium  paroeciale  titulare  est  proprietatis in Austria)  superingens  pecuniae summa inutiliter disperiret. Burocratia augeretur et periculis non paucis ob monetariam crisim aliamve ob causam patrimonium Ecclesiae exponeretur.

Se dunque l’uno sottolineava i pericoli della centralizzazione e l’altro le possibili deleterie conseguenze economiche, la risposta della Segreteria ribadì la necessità di rimanere fedeli alle indicazioni conciliari pur temperando il tenore del canone proposto nel 1982:

 

Canon supprimi nequit, quia substantialiter praescripto Concilii Vaticani II (PO, 20) respondet. Hoc canone nullo modo supprimitur proprietas bonorum quam singulae personae iuridicae ecclesiasticae habent neque omnia bona in dioecesi centralisantur in Instituto de quo in can. 1225. Videantur cann. 1206, 1207 et 1230, in quibus liquido patet principium proprietatis non centralisatae bonorum. Notetur insuper quod canon loquitur de “beneficia proprie dicta”, non de quibuscumque bonis ex quibus reditus ad onus aliquod solvendum promanant. Ut tamen non videatur indiscriminatim imponi suppressio beneficiorum, canon ita temperatur: “In regionibus ubi beneficia proprie dicta adhuc existunt, Episcoporum Conferentiae est, opportunis normis cum Apostolica Sede concordatis et ab ea approbatis, huismodi beneficiorum regimen moderari, ita ut reditus quatenus possibile sit ipsa dos beneficiorum ad institutum de quo in can. 1225, § 1 paulatim deferatur”.

 

Circa invece il canone 1225, al § 1, dedicato all’istituto diocesano per il sostentamento del clero, un Padre osservava:

 

Praescribere oportet quod oblationes occasione administrationis sacramentorum et sacramentalium Instituto de quo in hoc canone devolvantur et statuatur praeterea quod tantum clericis saecularibus hoc Institutum reservetur.

 

Ma la Segreteria esprimeva la sua perplessità sul fatto che una legge universale dovesse determinare tali questioni, ma soprattutto ribadiva come l’istituto avrebbe dovuto provvedere a tutti i sacerdoti dediti al servizio della diocesi:

 

Lege universali imponi non potest. Attentis autem adiunctis determinari potest lege particulari. Clerici quibus per Institutum  providebitur  sunt omnes qui in favorem dioecesis servitium praestant (cfr. PO 20; ES I, 8) nulla distinctione facta. Res est iustitiae.

 

Ad un Padre che chiedeva:

Suppressus est interventus Conferentiae Episcoporum qui aderat in praecedente Schemate: “Advigilent Episcoporum Conferentiae …” et in Ecclesiae Sanctae, n. 8. Hiusmodi interventus valde utilis immo aliquatenus necessarius iudicatur. Petitur insuper ut iterum inseratur clausula: “fundamentaliter aequali sustentationi clericorum”.

 

La Segreteria rispondeva segnalando l’importanza di non circoscrivere eccessivamente i diritti del Vescovo diocesano; mentre per i criteri circa l’equo sostentamento del clero ci si poteva rifare ad altri canoni del Codice o al diritto particolare:

 

De interventu Episcoporum Conferentiae prae oculis habeatur quod, rogantibus per multis organis consultationibus, assumptum est criterium generale, iuxta quod ubi non est necessarium non demandatur Conferentiae potestas decreta generalia ferendi. Ut vitetur immoderatus centralismus (quod fere semper in manus recidit Secretariae permanentis) et Episcopis non adimatur ius nativum propriam dioecesim regendi. Hoc in casu melius est ita libertati favere, ut singulae dioeceses, attentis diversis adiunctis locorum et personarum, provideant. Quod non impedit quominus Episcopi, si unanimiter hoc volunt, de re in Conferentia Episcoporum tractent ipsamque gerant.

Ad clausulam postulatam quod attinet censetur sufficere remissionem ad can. 255 ubi criteria dantur pro retributione. In legibus particularibus res potest ulterius determinari.

 

Mentre, circa il § 4, sempre del canone 1225, la Segreteria accoglieva la proposta di un Padre:

 

Supprimantur verba «foveantur insuper relationes, quoties id expedire videatur, inter huiusmodi instituta diversarum nationum ad eorum maiorem efficacitatem promovendam ac tuendam», quia superflua et non semper utilia.

 

All’osservazione di un Padre, circa la soppressione della menzione della Conferenza Episcopale nel canone 1226, la Segreteria ribadiva quanto già affermato a proposito del canone 1225 § 1.

Nello Schema del 1982 del Codice, nel libro V, de bonis Ecclesiae temporalibus, sotto il titolo I, de acquisitione bonorum, al canone 1272, circa i benefici ecclesiastici si proponeva:

 

In regionibus ubi beneficia proprie dicta adhuc exsistunt, Episcoporum Conferentiae est, opportunis normis cum Apostolica Sede concordatis et ab ea approbatis, huismodi beneficiorum regimen moderari, ita ut reditus, immo quatenus huius possibile sit ipsa dos beneficiorum ad institutum de quo in can. 1274, § 1 paulatim deferatur.

 

Sotto il titolo II, de administratione bonorum, si delineano gli altri due canoni:

 

c. 1274

§ 1. Habeatur in singulis dioecesibus speciale institutum quod bona vel oblationes colligat eum in finem ut sustentationi clericorum, qui in favorem dioecesis servitium praestant, ad normam can. 284 provideatur, nisi aliter eisdem provisum sit.

§ 2. Ubi praevidentia socialis in favorem cleri nondum apte ordinata est, curet Episcoporum conferentia ut habeatur institutum, quo securitati sociali clericorum satis provideatur.

§ 3. In singulis dioecesibus constituatur, quatenus opus sit, massa communis qua valeant Episcopi obligationibus erga alias personas Ecclesiae deservientes satisfacere variisque dioecesis necessitatibus occurrere, quaque etiam possint dioeceses divitiores pauperioribus subvenire.

§ 4. Pro diversis locorum adiunctis, fines de quibus in §§ 2 et 3 aptius obtineri possunt per instituta dioecesana inter se foederata, vel per cooperationem aut etiam per convenientem consociationem pro variis dioecesibus, immo et pro toto territorio ipsius Episcoporum conferentiae constitutam.

§ 5. Haec instituta, si fieri possit, ita constituenda sunt, ut efficaciam quoque in iure civili obtineant.

 

 

 

c.1275

Massa bonorum ex diversis dioecesibus provenientium administratur secundum normas ab Episcopis, quorum interest, opportune concordatas.

 

La vigente codificazione ripropone il canone 1272 nella versione dello Schema/82 e nella stessa posizione, con l’unica variante costituita dalla sostituzione dell’espressione «immo quatenus possibile sit ipsa» con la più semplice «immo quatenus possibile sit», lo stesso dicasi per i canoni 1274 §§ 1-5 e 1275.

Prima di passare al loro commento è opportuno segnalare quali siano le fonti di questi canoni.

Per il canone 1272 esse vengono indicate in: alcune risposte a dei dubbi presentati alla Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica dei canoni del Codice del 24 novembre 1920; i Decreti conciliari Christus Dominus al n. 28 e Presbyterorum Ordinis ai nn. 20 e 21; le norme per l’applicazione di alcuni Decreti del Concilio Vaticano II, Ecclesiae Sanctae, I, 8, 18, 21; il m.p. di Paolo VI, Ad hoc usque tempus, al punto III e, infine, la risposta del 3 luglio 1969 della Pontificia Commissio Decretis Concilii Vaticani II interpretandis.

Per il canone 1274 § 1 vengono indicate quali fonti: una lettera circolare della S. Congregazione del Concilio del 25 febbraio 1950; una Dichiarazione della medesima Congregazione del 17 dicembre 1951. Inoltre i seguenti testi conciliari: Lumen Gentium 13, 23; Christus Dominus 6, 21, 31; Perfectae Caritatis 13; Ad Gentes Divinitus 17, 38; Presbyterorum Ordinis 8, 20, 21. Ulteriori rimandi sono alle norme per l’applicazione dei Decreti del Concilio Vaticano II: Ecclesiae Sanctae I, 8, 11, 20 e III, 8, 19; il m.p. Sacrum Diaconatus Ordinem di Paolo VI, al punto IV, 19-21 e, infine, il Direttorio per i Vescovi Ecclesiae Imago ai nn. 134- 138.

Per il § 2 vengono indicate: una lettera circolare della Sacra Congregazione del Concilio del 1° luglio 1941, con la quale si informavano i Vescovi italiani circa la decisione della Congregazione di costituire una Cassa di Sovvenzioni per il clero bisognoso – invalido d’Italia, e – della medesima Congregazione – il Regolamento della stessa Cassa del 15 giugno 1943.

Nulla si dice per i §§ 3-5.

Circa il canone 1275 viene indicato come unica fonte il Direttorio Ecclesiae Imago al numero 138.

Comments are closed.