Dal VII al X secolo: le chiese private

Dal VII al X secolo: le chiese private

Nei secoli successivi, queste concessioni, che potremmo già definire, latu sensu, beneficiali, andarono crescendo sempre più. Si consideri inoltre che in molti casi esse furono un prezioso strumento per difendere il ricco patrimonio ecclesiastico dalle usurpazioni dell’autorità civile e preservare, nei rapporti con il clero, l’autorità del vescovo sulle chiese che si venivano a fondare nelle aree rurali.

English: Carolus Magnus

English: Carolus Magnus (Photo credit: Wikipedia)

Indicative sono le vicende dell’asse ecclesiastico in età carolingia63. A partire da Carlo Martello (714-741), i carolingi praticarono diffusamente una politica di sottrazione dei beni della Chiesa. Senza che vi fossero provvedimenti legislativi di secolarizzazione, accadeva che il sovrano disponesse delle proprietà ecclesiastiche distribuendole tra i nobili ed i grandi del regno; non pochi vassalli, pur essendo laici, si trovavano così titolari di sedi episcopali o abbaziali, le cui terre rappresentavano per essi la remunerazione di servigi militari resi alla corona. La concessione era compiuta invero a vario titolo (precaria verbo regis, in commendam, usufrutto) ed era sempre sottoposta alla condizione che alla morte del beneficiario i beni dovessero essere restituiti alla Chiesa; ma nulla impediva al sovrano di rinnovarla a favore di qualcun altro.

 

 

Carlo Magno

Carlo Magno (Photo credit: Wikipedia)

Lo stesso Carlo Magno continuò a concedere in precario le proprietà ecclesiastiche, benché avesse sostenuto in vario modo le ragioni della Chiesa ed avesse reso obbligatorie le decime perché servissero al sostentamento del clero, sanzionandone il mancato pagamento e ponendo dei limiti geografici alle parrocchie per facilitarne la riscossione64.

L’indubitabile ambiguità dell’atteggiamento di Carlo Magno fu dettata forse dalle condizioni contingenti. Nel capitulare Liptinense, infatti, ove sono disposte restituzioni e reintegrazioni in denaro a favore della Chiesa, si prevede anche che queste possano essere revocate: «et iterum, si necessitas cogat, ut princeps iubeat, precarium renovetur et rescribatur novum» (il precarium in questione riguarda i beni ecclesiastici da restituirsi).

Nello stesso documento, però, si aggiunge un principio assai importante del quale si valsero le autorità ecclesiastiche per tutelarsi «et omnino observetur, ut ecclesiae vel monasteria penuriam et paupertatem non patiantur, quorum pecunia in precario prestita sit; sed, si paupertas cogat, ecclesiae et domui Dei reddatur integra possessio»65.

Proprio per reagire a quelle che erano vere e proprie spoliazioni da parte dell’autorità secolare, nel IX secolo, in ambito ecclesiastico si diede nuovo impulso alla distribuzione delle masse patrimoniali tra i chierici.

Qualificando queste concessioni come elargizioni pro stipendio, era infatti possibile contrapporre un valido ostacolo alle pretese del potere laico perché – come attesta anche il capitulare sopra citato – era regola riconosciuta il lasciare alle chiese l’indispensabile per il culto ed il mantenimento dei sacerdoti.

I vescovi creavano così delle parrocchie direttamente sottoposte alla loro autorità e non a quella di un signore privato, titolare dei diritti sui beni annessi alla chiesa. Per queste parrocchie venivano poi ordinati sacerdoti che avevano l’obbligo della residenza e della cura delle anime; essi vivevano delle rendite delle terre avute in assegnazione pro officio66.

Sempre sul versante del contributo recato dalle istituzioni religiose alla formazione del sistema beneficiale, occorre menzionare lo scioglimento della vita communis del clero, un istituto di origine agostiniana che segnò profondamente il carattere della Chiesa dei primi tempi e che terminò quasi del tutto nel secolo IX.

Al clero residente in comunità nella cattedrale, nelle chiese episcopali ed in quelle monastiche, i vescovi assegnavano generalmente dei beni immobili, che dovevano essere amministrati in comune; dalle rendite si attingeva per la mensa capitolare, il rimanente veniva ripartito tra i sacerdoti per le loro necessità.

Queste assegnazioni erano chiamate prebende ed erano in pratica un’altra forma di beneficio: infatti anche in questo caso il vincolo esistente tra chiesa e patrimonio, tra ufficio e sostentamento originava quel minimo di sicurezza economica, che la Chiesa auspicava per il suo clero. Quando poi la vita comunitaria cadde in desuetudine, le masse patrimoniali che costituivano le prebende furono suddivise in porzioni più piccole ed assegnate individualmente ai chierici67.

Il concetto di remunerazione dei ministri di culto fu dunque ben presente anche alla Chiesa di quest’epoca; né è prova il fatto che già nel 451, con il Concilio di Calcedonia, proprio per dare al chierico l’autonomia economica e morale necessaria a svolgere il suo compito spirituale, si vietarono le ordinazioni sine titulo, sprovviste cioè della garanzia di un reddito vitalizio sufficiente per il decoroso sostentamento dell’ordinando68.

Accanto alle parrocchie di fondazione vescovile e quindi interamente dipendenti dall’autorità ecclesiastica, l’organizzazione della Chiesa nel periodo che stiamo considerando conobbe anche un altro importante fenomeno, che condizionò la formazione del sistema beneficiale.

Si tratta della fondazione di chiese da parte di privati con atti che, parallelamente alle concessioni vescovili, assieme all’edificio per il culto dotavano le istituende chiese dei beni occorrenti a far fronte a tutte le necessità materiali, compreso il sostentamento del clero ad esse preposto. In merito uno dei primi casi attestati dalle fonti è probabilmente la donazione disposta nel V secolo da Flavio Valila, goto di fede cattolica, in favore della chiesa di Santa Maria di Cornuta in territorio di Tivoli69.

In tale atto una parte del cospicuo patrimonio in terreni fu devoluta direttamente alla chiesa per la fabbrica, per il culto e per il mantenimento del clero. Un’altra parte dei poderi, già donata alla chiesa, rimase in usufrutto al donatore, il quale stabilì anche che la fondazione fosse autonoma dall’amministrazione vescovile e che la donazione fosse revocata in favore dei propri eredi, qualora il vescovo o i chierici preposti avessero usato per altri scopi la dotazione della chiesa.

Il ricorrente utilizzo dello schema costituito da un atto di liberalità sottoposto a condizione, che trovò espresso e specifico riconoscimento di validità anche da parte del legislatore civile70, offrì uno strumento adeguato a costituire larghe porzioni di patrimonio ecclesiastico, dotate di autonomia giuridica e patrimoniale rispetto alla sede vescovile. Il diffondersi di questa prassi accentuò il particolarismo giuridico in materia, diversificando fortemente le condizioni degli enti ecclesiastici e del clero.

Si noti che ciò, se da un lato consentì di incrementare grandemente la presenza territoriale della Chiesa, dall’altro causò anche considerevoli inconvenienti, poiché non sempre le scelte dei fondatori privati tennero conto delle effettive necessità del culto e di quei profili più propriamente ecclesiali, che meglio potevano essere valutati dalla sede vescovile nella costituzione delle parrocchie e nella loro dotazione patrimoniale. In seguito poi si pretese addirittura di svincolare queste chiese dal controllo dell’autorità ecclesiastica, assorbendole nel sistema dei rapporti feudali con grave pregiudizio per il clero71.

Le concessioni beneficiali da parte dell’autorità ecclesiastica e le donazioni dei nobili e dei feudatari rappresentano dunque le due cause concorrenti che contribuiscono a far sorgere il sistema beneficiale, perché, per effetto di esse, la sede vescovile cessa di essere l’unico luogo presso cui si raccolgono, si amministrano e si ripartiscono tra i chierici i beni, le decime, le rendite e le offerte dei fedeli.

Con utile sintesi Schiappoli ha spiegato che in entrambi i casi il chierico preposto percepiva direttamente il reddito del patrimonio collegato alla chiesa così istituita e ne era l’amministratore diretto, in maniera autonoma rispetto al vescovo, pur restando ad esso subordinato72. Fu questo il risultato di un lungo processo, nel quale – ai fini dell’impostazione del presente lavoro – l’esito è forse più interessante dell’iter, benché il confronto e talvolta il conflitto fra i due elementi sopraccitati (l’autorità religiosa ed il potere temporale) abbia profondamente segnato l’epoca in cui il beneficio assunse quella specifica configurazione di cui daremo conto più oltre.

Qualche annotazione in più è però indispensabile, soprattutto se si considera che nell’alto medioevo il modello prevalente di organizzazione ecclesiastica fu espresso proprio dall’iniziativa dei signori feudali in concorrenza con i pastori della chiesa.

L’affermazione del cosiddetto sistema delle chiese proprie o chiese private avvenne con particolare intensità nei paesi di matrice germanica, ma si verificò poi anche nel regno dei Franchi e, con qualche mitigazione, in Spagna e in Italia73.

E’ ancora Schiappoli a spiegarci in maniera concisa i tratti di questo modello, che alla fine dell’Ottocento fu accuratamente studiato dallo Stutz: «le chiese di fondazione privata non si staccavano dal patrimonio del fondatore: onde i concetti di eigenkirche ecclesia propria e della dos ecclesiae. Al proprietario del fondo su cui era stata costruita la chiesa si riconobbe non solo la proprietà della medesima ma anche la facoltà di preporvi l’ecclesiastico»74.

In cambio della destinazione di alcuni beni alle necessità della Chiesa, un laico acquisiva il privilegio di conferire la titolarità di un ufficio ecclesiastico e la relativa prebenda; in epoca successiva questo privilegio, per i benefici minori, fu qualificato dai giuristi come ius patronatus, ma si risolse nel più limitato diritto di presentare al vescovo un candidato, dotato di tutti i requisiti richiesti per l’ufficio vacante, ferma restando la competenza dell’ordinario.

Nel VI secolo la legislazione giustinianea disciplinò il fenomeno stabilendo che i fondatori avessero il diritto di nominare il clero necessario alla chiesa in questione, fatta salva però l’approvazione del vescovo (Nov. 57, c. 2). Venne inoltre riconosciuto al fondatore ed ai suoi eredi anche il diritto di amministrare i beni della chiesa fondata (C., I, 3, 54).

In Occidente il Concilio Toledano IV dell’anno 633 (c. 31, c. XVI, q. 7) concesse ai laici fondatori il diritto di presentare al vescovo il candidato per l’ufficio annesso alla chiesa.

Con lo svilupparsi delle istituzioni feudali, soprattutto per l’influenza del diritto germanico, le pretese del patrono sulle chiese si estesero alla nomina ed alla deposizione del clero preposto alle stesse, prescindendo dall’approvazione dell’autorità ecclesiastica. Ciò era ritenuto una diretta conseguenza del più generico potere di investitura relativo alle terre annesse all’ufficio. Il sacerdote dunque che veniva nominato quale rettore di una chiesa privata era considerato un vassallo del dominus e non di rado su di lui gravavano anche delle corvées75.

Ponendosi in una prospettiva critica, appare evidente come questo privilegio fosse in aperto contrasto con la natura stessa dell’officium esercitato dal chierico e come, mediante il vincolo vassallatico di fedeltà, la Chiesa venisse esposta all’arbitrio dei privati fondatori nonché alla ingerenza sempre più massiccia del potere secolare nelle sue istituzioni. In questo modo la dipendenza economica del clero verso i potentati locali era fortemente accentuata76.

Di certo, anche dal punto di vista giuridico, non era facile conciliare le prerogative della proprietà laica con il rispetto dei diritti della Chiesa, anche perché in molti casi il signore – in quanto proprietario pleno iure – vantava dei diritti riconosciuti sulle entrate della chiesa, ivi comprese le offerte dei fedeli. Si registrano infatti nelle fonti delle dispute tra gli eredi di un fondatore per la spartizione delle decime, delle oblazioni e delle varie offerte pervenute alla chiesa, né mancano esempi in cui il signore percepiva direttamente le rendite della chiesa, restando libero di assegnare in misura discrezionale uno stipendium al chierico. Quest’ultimo comportamento era ancora presente all’epoca del Concilio Lateranense IV, che – come vedremo – intervenne per stigmatizzarlo.

Il rischio di conflittualità, quanto meno in campo economico, era assai minore quando le chiese erano di proprietà di un chierico o di un monastero; considerato però che il sistema della chiesa privata sottraeva i chierici così sostentati all’autorità del vescovo, anche in questi casi potevano verificarsi seri disordini nel campo disciplinare e spirituale77.

Abbiamo detto che, in questa configurazione giuridica, il proprietario della chiesa ed i suoi eredi conservavano la facoltà di disporre dei beni inizialmente annessi alla chiesa stessa. A lungo andare, per effetto di ciò, l’appropriazione dei cespiti ecclesiastici da parte dei laici e la possibilità di modificare la consistenza di tali patrimoni mediante legittime alienazioni produssero situazioni di grave precarietà per la vita dei chierici.

Dal canto loro i documenti conciliari intervennero energicamente ed in ripetute occasioni condannando il comportamento di coloro che fondavano una chiesa per ricavarne profitto, senza esitare a far vivere miseramente i chierici ad essa preposti78.

In Spagna, il Concilio Toledano III dell’anno 589 cercò invano di porre argine a questa prassi che, tra l’altro, sminuiva il ruolo e la funzione episcopale: «Multi contra canonum costituta sic ecclesias, quas aedificaverint, postulant consecrari, ut dotem quam ei ecclesiae contulerint, censeant ad episcopi ordinationem non pertinere, quod factum et in praeteritum displicet et in futuro prohibetur»79.

Sul versante civile, anche Ludovico il Pio si preoccupò di tutelare gli ecclesiastici disponendo che le chiese private, al momento della fondazione, fossero dotate di beni immobili sufficienti per sostentare il clero, che vi era stato chiamato dal signore per il servizio divino80.

In realtà, come abbiamo visto, non di rado i proprietari preferirono eludere le leggi ecclesiastiche e secolari ed invece di accontentarsi del censo del rettore della parrocchia lasciando tutte le altre entrate al clero per il proprio sostentamento, per la fabbrica, per i poveri ed il culto, assegnarono uno stipendio al sacerdote, tenendosi tutto il resto, comprese le decime e i diritti di stola.

Queste assegnazioni soggette al capriccio di un signore, spesso insufficienti per vivere, non presentavano alcun margine di sicurezza e nella maggioranza dei casi furono i fedeli a sostenere il proprio clero attraverso le oblazioni sacramentali o diritti di stola. La Chiesa si batté per tutto l’XI secolo perché questi diritti restassero ai sacerdoti e questi potessero godere di effettiva indipendenza.

63 Fondamentale in argomento resta l’opera di E. LesneHistoire de la proprieté.

64 «La prima traccia di legislazione [sulle decime] si trova nei concili di Tours del 567 e di Mâcon (Mansi, IX, 804-805, 932) del 583 […]. I concili dell’età di mezzo ripetono frequentemente il precetto del pagamento della decima, segno evidente che incontrava molte difficoltà di applicazione. Sotto questo aspetto è meritoria l’opera di Carlomagno che, oltre a ripetere in molti suoi capitolari quest’obbligo e ad assoggettarvi i beni stessi del sovrano, fece intervenire contro i recalcitranti l’autorità civile con multe, sequestro di beni, prigione, esilio e confisca […] e rese praticamente generale l’obbligo giuridico di pagare la decima» (P. Palazzini, «Decima», 1270).

65 «Statuimus quoque cum consilio servorum Dei et populi christiani propter inminentia bella et persecutiones ceterarum gentium, quae in circuitu nostro sunt, ut sub precario et censu aliquam partem ecclesialis pecuniae in adiutorium exercitus nostri cum indulgentia Dei aliquanto tempore retineamus, ea conditione ut annis singulis de unaquaque casata solidus, id est duodecim denarii, ad ecclesiam vel monasterium reddatur, eo modo ut, si moriatur ille, cui pecunia comodata fuit, ecclesia cum propia pecunia rivestita sit» (Karlmannus, Capitulare Liptinense, a. 742-743, cap. 2, in MGH, Epistolae Selectae, I, 102).

66 «Ut unaquaeque ecclesia suum presbyterum habeat, ubi id fieri facultas providente episcopo permiserit» (Ludovico il Pio, Capitulare Ecclesiasticum, a. 818, cap. 11, in MGH, Legum Sectio II Capitularia Regum Francorum, I, 277).

67 «La decentralizzazione delle diocesi, trascinando con sé il frazionamento del patrimonio e delle risorse, contribuisce all’autonomia delle chiese sia nella città vescovile che nelle campagne. Il clero non vive più alla tavola del Vescovo, ma direttamente a carico dei fedeli o della dotazione fondiaria della Chiesa. Da questa dotazione nascerà più tardi il beneficio. Lo stesso capitolo cattedrale dividerà il suo patrimonio in prebende, quando i membri abbandoneranno la comunità claustrale» (P. Palazzini, «La aequa remuneratio», 10).

68 La problematica del titolo canonico e del divieto di ordinazioni assolute verrà affrontata nel capitolo secondo del presente lavoro.

69 Cfr. L. Bruzza, «Fondazione e dotazione della Chiesa di S.a Maria de Cornuta fatta in Tivoli da Valila Goto, anno 471», Regesto, 15-17; L. Duchesne, Le Liber pontificalis, I, 146-147.

70 «L’imperatore Zenone (474-491) con una celebre costituzione accolta nel Codice Giustinianeo (L. 15, de sacrosanctis ecclesiis, C. I, 2) dichiara valide le donazioni fatte alle chiese, stabilendo il principio che dovessero adempiersi le condizioni e le modalità imposta dal donatore» (A. Galante, «Il Beneficio ecclesiastico», 30).

71 «Si andò creando uno stato di cose, secondo il nostro modo di vedere, confuso ed arbitrario; grazie infatti a queste iniziative personali, la fondazione di enti ecclesiastici non era sempre in relazione con i bisogni dei luoghi, ma piuttosto in relazione con i desideri dei fondatori di provvedere a maggior numero di chierici ed a maggior splendore di culto; mentre molte volte la ricchezza delle rendite non corrispondeva all’importanza dell’ufficio, ma dipendeva dalla generosità del fondatore» (P. Paschini, «Beneficio ecclesiastico», 1308).

72 Cfr. D. Schiappoli, «Benefici ecclesiastici», 271.

73 «Nell’ottavo secolo il sistema delle chiese proprie appare introdotto su larga scala – il numero delle chiese proprie era di gran lunga superiore a quello delle chiese dipendenti dai vescovi – e diede valido incremento allo sviluppo della chiesa nazionale franca. Nell’epoca missionaria esso contribuì assai a provvedere di chiese i territori rurali» (K. Bihlmeyer-H. Tuechle, Storia della Chiesa, II, 131).

7«La chiesa veniva riguardata come parte del patrimonio del fondatore e dei suoi eredi e poteva formare oggetto di negozi giuridici di diritto privato con l’unica limitazione che gli atti di disposizione fossero conformi allo scopo di essa» (D. Schiappoli, «Benefici ecclesiastici», 271).

75 «Abusi derivavano anche dal mundio e cioè dalla soggezione degli abitanti del fondo al dominus dello stesso, che considerandosi advocatus dei suoi soggetti s’immischiava anche nella provvista degli uffici minori» (G. Pacelli, «Diritto di patronato», 978).

76 «Alcuni concili del VI secolo e alcune lettere di vescovi la menzionano [«la chiesa privata»] in Gallia e denunciano gli abusi ai quali essa dà luogo […] Agobardo si ribella alle vendite di chiese, cui questo regime dà luogo. Egli deplora la condizione di dipendenza nella quale si trovano i sacerdoti delle chiese nei confronti del padrone del territorio. Hincmar, nel suo trattato De ecclesiis et capellis, scritto verso l’858-860, cerca di conciliare privatizzazione delle chiese e salvaguarda del controllo episcopale. Alcuni capitolari ed il concilio di Valence nell’855 (c. 9) condannano, senza successo, «la chiesa privata»» (J. Gaudemet, Storia del Diritto Canonico, 277).

77 «Gli istituti monastici con questo loro progressivo sviluppo vennero perciò quasi ad incastrarsi nelle circoscrizioni diocesane, occupando talora territori in diocesi diverse, turbandone così in qualche modo l’uniforme distribuzione, e creando delle condizioni di fatto diverse secondo l’indole e lo sviluppo dei singoli monasteri» (P. Paschini, «Beneficio ecclesiastico», 1306).

78 «Si quis basilicam non pro devotione fidei, sed pro quaestu cupiditatis aedificat, ut quidquid ibidem de oblatione populi colligitur, medium cum clericis dividat: eo quod basilicam in terra sua ipse condiderit; quod in aliquibus locis usque modo dicitur fieri. Hoc ergo de cetero observari debet, ut nullus episcoporum tam abominabili voto consentiat, ut basilicam, quae non pro sanctorum patrocinio, sed magis [sub] tributaria conditione est condita, audeat consecrare» (Conc. Bracarense III, a. 578, cap. 6, in Mansi, IX, 840).

79 Conc. Toletanum III, a. 589, c. 19, in Mansi, IX, 998.

80 Cfr. Ludovico il Pio, Capitulare Ecclesiasticum, a. 818, cap. 10, in MGH, Legum Sectio II Capitularia Regum Francorum, I, 277, dove si afferma che la proprietà terriera deve essere di almeno un «manso», misura terriera che equivaleva a 12 iugeri (3,024 ettari=centiare).

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