La formazione dell’istituto beneficiale

La formazione dell’istituto beneficiale

Dagli inizi al VI secolo: la «parcellizzazione» del patrimonio ecclesiastico

L’origine del sistema beneficiale è legata a quel particolare momento della storia della Chiesa in cui, passato il periodo delle persecuzioni, furono fondati dei centri di culto al di fuori del tessuto urbano. Nei suoi primi secoli di vita, infatti, il cristianesimo aveva conosciuto una grande fioritura nelle città dell’Impero romano; ma ben più lenta fu la penetrazione nelle campagne che richiese un considerevole sforzo missionario, oltre a comportare l’introduzione di significative e forti modifiche nella organizzazione patrimoniale e nella forma della Chiesa stessa.

Tra il IV ed il IX secolo, con l’evangelizzazione delle aree rurali, le comunità cristiane si moltiplicarono gradualmente diffondendosi sul territorio ed apparvero via via le chiese rusticane. Una delle prime conseguenze di ciò fu lo stabile insediamento del clero nelle campagne che – per quanto attiene alla problematica specifica del sostentamento – rese più difficoltosa l’applicazione del sistema fondato sulla ripartizione delle rendite ecclesiastiche, compiuta dal vescovo tra i suoi, tra quanti cioè risiedevano presso la sede episcopale urbana (condizione che nell’antichità abbiamo visto essere propria della maggior parte dei chierici).

L’accrescersi della struttura ecclesiastica rese evidenti tanto l’impraticabilità quanto l’insufficienza del metodo di sostentamento precedentemente in uso, prospettando concretamente alla Chiesa l’esigenza di riconoscere alle «parrocchie» un certo grado di autonomia in materia amministrativa e patrimoniale52.

Volendo tracciare almeno in maniera schematica le tappe di tale processo, che pure è articolato e complesso per la pluralità delle esperienze conosciute dalle Chiese particolari, possiamo dire che inizialmente era il vescovo a provvedere di uno stipendium i sacerdoti da lui stesso inviati al servizio delle chiese rusticane, senza mutare così il principio della distribuzione tra i chierici delle offerte dei fedeli e delle rendite del patrimonio ecclesiastico, il quale – in questa prima fase – restava indiviso ed amministrato esclusivamente dalla sede vescovile.

In seguito le elargizioni destinate al sostentamento dei chierici, che prima erano effettuate nelle forme più varie, presero quasi sempre la forma della concessione in godimento di beni immobili, i quali però, per effetto di tali atti generalmente compiuti a titolo precario, non uscivano dalla sfera giuridica di appartenenza del vescovo.

Attorno al VI secolo si attuò un sostanziale mutamento mediante la distribuzione dei beni di proprietà della Chiesa tra soggetti giuridici diversi dalla sede vescovile, nei confronti dei quali si fecero gravare le obbligazioni relative alle necessità materiali del clero e del culto. Proprio in virtù di queste assegnazioni del vescovo, che spesso coincidevano con l’atto di fondazione della parrocchia, le chiese rusticane poterono disporre di beni propri e su di essi l’ordinario conservava il potere di esercitare una sorveglianza di tipo amministrativo, affinché la destinazione dei proventi fosse compiuta secondo i medesimi canoni che disciplinavano gli altri redditi ecclesiastici53.

Si consolidava così quella dotazione patrimoniale che fu poi qualificata beneficio ecclesiastico e che nel corso dei secoli permise di garantire alle chiese rurali una sufficiente autonomia economica. E’ immediatamente comprensibile che in un’epoca in cui le comunicazioni ed il trasferimento dei beni mobili erano assai ardui, la proprietà fondiaria rappresentava per la Chiesa la più stabile e sicura fonte di reddito, soluzione efficace ai bisogni del clero nonché fattore decisivo per l’organizzazione territoriale della vita pastorale54.

Con l’istituzione delle parrocchie ed il sorgere dei grandi complessi monastici, una pluralità di enti e di figure giuridiche veniva ad affiancarsi alla mensa vescovile, fornendo alla Chiesa nuove ed articolate possibilità per il sostentamento del clero55. Tra gli studiosi non è mancato chi in proposito ha parlato di rottura dell’unità patrimoniale dell’asse ecclesiastico e si tratta di una espressione che, a nostro avviso, ben descrive la situazione a cui abbiamo sinora accennato: al «centralismo» della sede episcopale subentra un sistema patrimoniale «parcellizzato», ma pur sempre sottoposto – almeno in linea di principio – all’autorità del vescovo.

Una Costituzione di Felice IV indirizzata alla chiesa di Ravenna, fra gli anni 526 e 530, pare dimostrare verosimilmente che la transizione da un sistema all’altro fu graduale e non immediata, perché nel documento si attesta la coesistenza della regola della quadripartizione delle rendite con la nuova prassi delle concessioni vescovili di beni immobili ai chierici. Riguardo alle donazioni a suffragio dell’anima, in essa si legge appunto che «circa praedia urbana, vel rustica caeteraque mobilia pro animae suae mercede a fidelibus nominatim diversis basilicis derelicta, vetus consuetudo servetur»56.

Secondo Galante l’espressione «vetus consuetudo» indica la persistenza normativa della quadripartizione che, nonostante la presenza di un nuovo ordine di rapporti giuridici e patrimoniali, sarebbe stata ancora vigente nei casi di disposizioni generiche, nel caso in cui il donatore non avesse imposto particolari oneri o condizioni a carico dei beneficiari57.

Di diverso avviso era lo Stutz, per il quale questa espressione rappresentava soltanto un generico rimando alle consuetudini in uso presso la chiesa destinataria della liberalità e perciò la disposizione di Felice IV si limiterebbe ad ingiungere il ricorso alle norme consuetudinarie, ad integrazione della volontà dei donatori. A parere dello Stutz, infatti, in quest’epoca non era ancora avvenuta quella specializzazione del patrimonio ecclesiastico mediante l’assegnazione di beni ai chierici che consentirebbe di ritenere superata, seppur ancora vigente in via sussidiaria, la regola della quadripartizione58.

La stessa costituzione Feliciana, in un altro passo, accenna invece alle concessioni vescovili e si tratta di una testimonianza molto rilevante, perché viene riferita espressamente l’esistenza nel VI secolo di un qualche possesso di beni urbani o rustici da parte dei chierici addetti al servizio di una determinata chiesa59.

Significative in tal senso sono pure le deliberazioni assunte dal Concilio di Carpentras nell’anno 527, secondo cui alla mensa vescovile doveva essere assegnato soltanto il superfluo residuo delle elargizioni alle chiese rurali, lasciando inalterata la facultatula dei chierici, dove per facultatula dovrebbe intendersi quella determinata quantità di beni destinata stabilmente alle necessità del clero. Per molti si tratterebbe di una forma di dote beneficiale, anche se primitiva e rozza60.

Qualche anno prima, intervenendo sul medesimo tema, il Concilio di Orleans del 511 aveva dettato una significativa norma di tutela del patrimonio ecclesiastico e della sua destinazione, stabilendo che fosse esclusa per i chierici assegnatari dei beni, concessi in godimento dal vescovo humanitatis intuitu, la possibilità di acquisirne la proprietà mediante l’istituto della praescriptio61. Analogamente il Concilio Toledano VI del 638 per tutelare nel tempo i diritti della Chiesa sui beni suddetti, ordina che queste concessioni vengano iscritte come precarium62.

Le disposizioni dei concili particolari sin qui segnalate inducono a riconoscere l’avvenuta affermazione del sistema delle concessioni ab episcopo come una delle forme di sostentamento per il clero, derivata da quel processo di frammentazione del patrimonio vescovile che nel VI secolo era ormai avviato ed irreversibile.

52 «Il sostentamento del clero rurale dipendeva inizialmente dalle elargizioni del vescovo e dalle offerte dei fedeli. Tale sistema era molto aleatorio, per cui, dal V secolo, si nota anche nel campo economico l’inizio di una certa autonomia della parrocchia» (J. Daniélou- H. Marrou, Nuova storia, I, 541).

53 «Tali assegnazioni, fatte prima sotto la forma di precaria o prestaria romana, cioè concessione in godimento sempre revocabile di un immobile ai chierici addetti a quella chiesa e allo scopo di provvedere al loro sostentamento, furono dal VI secolo date in proprietà in modo definitivo ed irrevocabile, sicché la chiesa rusticana o locale divenne soggetto di diritti patrimoniali a sé, con beni propri, le cui rendite erano destinate a vari scopi, fra i quali il principale era quello di provvedere al mantenimento del chierico che ad essa in seguito all’ordinazione veniva addetto» (D. Schiappoli, «Benefici ecclesiastici», 271).

54 Cfr. sul tema G. Forchielli, La pieve rurale, 204 e 206; L. Nanni, «L’evoluzione», 498-499.

55 Circa il sorgere delle grandi fondazioni monastiche sappiamo che: «si formarono in questo modo sino dall’età classica e si organizzarono sempre più durante la prima età barbarica nuovi centri patrimoniali con vita ed interessi propri, ben distinti e divisi da quelli che erano sotto la diretta dipendenza del vescovo» (P. Paschini, «Beneficio ecclesiastico», 1306).

56 Felicis IV, Const. Ap. Laudanda est decessorum, a. 526-530, in PL, 65, 13.

57 Cfr. A. Galante, «Il Beneficio ecclesiastico», 32-34.

58 Cfr. U. Stutz, Die Verwaltungund, 64-65.

59 «Si qui vero de clero praedia urbana, vel rustica ad Ecclesiam pertinentia detinet, eisdem libellis sub justa pensionis aestimatione factis statuimus collocanda» (Felicis IV, Const. Ap. Laudanda est decessorum, a. 526-530, in PL, 65, 13).

60 Cfr. Conc. Carpentoractense, a. 527, c. unicus, in Mansi, VIII, 707. Si consideri anche che il Conc. Aurelianense I, a. 511, cc. 14-15, in Mansi, VIII, 354, stabilì che il vescovo non avesse più l’obbligazione di corrispondere al clero lo stipendium ricavato dalla quadriripartizione quando la chiesa rurale fosse stata in grado di fornire il necessario per il sostentamento.

61 «Si episcopus humanitatis intuitu vineolas, vel terrulas, clericis vel monachis praestiterit excolendas, vel pro tempore tenendas, etiam si longa transisse annorum spatia comprobentur, nullum ecclesia praeiudicium patiatur, nec speculari lege praescriptio quae ecclesiae aliquid impediat opponatur» (Conc. Aurelianense I, a. 511, c. 23, in Mansi, VIII, 355).

62 Cfr. Conc. Toletanum VI, a. 638, c. 5, in Mansi, X, 664-665.

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