La lotta per le investiture e il Concilio Lateranense IV.

Concilio Lateranense

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La lotta per le investiture e il Concilio Lateranense IV

Ma una situazione ancor più grave ed intollerabile si verificò quando il principio che stava a fondamento della «chiesa privata» fu applicato dai monarchi ai più alti uffici ecclesiastici. In buona sostanza, secondo gli schemi del vassallaggio feudale, mediante la cerimonia dell’investitura il re riceveva dal candidato alla dignità episcopale un giuramento di fedeltà giustificato dal fatto che egli disponeva del potere di conferire gli uffici ecclesiastici e le prebende ad essi collegate.

L’ingerenza laica nella Chiesa raggiunse il massimo durante il dominio della casata imperiale di Sassonia (dal 962 fino al 1002). Già ai sovrani carolingi era stato riconosciuto il diritto di partecipare alle elezioni dei vescovi, diritto che non era mai stato revocato e che servì ad Ottone I per inserirsi nella vita ecclesiale.

La facoltà di nominare la gerarchia ecclesiastica rappresentava un grande vantaggio per l’Impero e garantiva di conservare il pieno controllo dei feudi all’imperatore, che istituiva vescovi ed abati come propri conti e vassalli, sottraendo le terre al regime ereditario ed evitando il rischio che l’aristocrazia feudale si rafforzasse sino a mettersi in concorrenza con la corona stessa.

La ben conosciuta storia della lotta della Chiesa contro le ingerenze del potere secolare ha trovato grande eco presso gli storici per la celebre questione delle investiture riguardante gli uffici ecclesiastici maggiori, ma val bene ricordare come essa abbia intersecato e, in un certo qual modo, amplificato la non meno importante problematica delle chiese proprie e del sostentamento del clero. Senza ripercorrerne analiticamente gli episodi, ci pare opportuno almeno mettere in luce come la formazione dell’istituto beneficiale scaturisca da complesse e travagliate vicende in cui era in gioco il valore fondamentale della libertas Ecclesiae.

Nello stato di fatto sopra descritto è palese quanto profonda fosse l’esigenza di una riforma della Chiesa e dei suoi rapporti con l’autorità civile. La soluzione per le investiture vescovili venne trovata con il concordato di Worms, stipulato nel 1122, mediante il quale iniziò l’abolizione di ogni forma di investitura laicale e si restituì alla Chiesa il diritto di conferire gli uffici episcopali senza intromissioni da parte del potere regio.

In merito al regime delle «chiese proprie», a partire da quest’epoca sono numerosi anche gli interventi dei concili volti a precisare e delimitare le prerogative del patrono, sino a far perdere allo ius patronatus quelle caratteristiche di diritto reale che tanto negativamente nei secoli precedenti avevano influito sulla vita della Chiesa.

Quasi contemporaneamente al concordato di Worms, infatti, il Concilio Lateranense I del 1123 riafferma l’inderogabilità della competenza episcopale in materia di conferimento degli uffici ecclesiastici in genere, senza distinguere tra chiese proprie e chiese di fondazione vescovile: «in paroecialibus ecclesiis presbyteri per episcopos constituantur»; la ratio della norma è chiarita nella subordinata relativa successiva a tale enunciazione, ove si precisa che i vescovi sono chiamati a nominare dei presbiteri «qui eis respondeant de animarum cura et de iis quae ad episcopum pertinent». Il clero non deve quindi riconoscere altra autorità se non quella del suo vescovo. Circa la problematica delle chiese proprie, lo stesso canone 18 del Concilio Lateranense I aggiunge poi inequivocabilmente che i chierici: «decimas et ecclesias a laicis non suscipiant absque consensu et voluntate episcoporum et si aliter praesumptum fuerit, canonicae ultioni subiaceant».

Pochi anni dopo, nel 1139, il Concilio Lateranense II conferma con altrettanta nettezza le regole sopra indicate sancendo l’invalidità e l’inefficacia di ogni conferimento laicale di un ufficio ecclesiastico: «si quis praeposituras, praebendas vel alia ecclesiastica beneficia de manu laici acceperit, indigne suscepto careat beneficio». La mancanza di legittimazione da parte dei laici sta a fondamento della norma e viene categoricamente esplicitata: «iuxta namque decreta sanctorum patrum, laici, quamvis religiosi sint, nullam tamen habent disponendi de ecclesiasticis facultatibus potestatem».

A breve distanza di tempo ancora, il Concilio Lateranense III nel 1179 affronta un caso particolare, così denunciando gli abusi dei patroni che cercano di eleggere più di un rettore per una chiesa: «quoniam in quibusdam locis ecclesiarum fundatores aut heredes eorum, potestate in qua eos ecclesia hucusque sustinuit, abutuntur». In caso di voto discorde tra i benefattori, il vescovo può intervenire con poteri dirimenti e lo stesso è disposto per quando non sia stato definito il legittimo patrono per una chiesa («si de iure patronatus quaestio emerserit inter aliquos et cui competat infra tres menses non fuerit definitum»). Come le precedenti norme, seppur in aspetti assai specifici, anche questi canoni limitano il diritto di patronato ed attribuiscono all’autorità ecclesiastica la preminenza che nelle questioni spirituali ad essa compete.

Nel Concilio Lateranense IV la riforma della Chiesa e l’affermazione della sua indipendenza rispetto al potere imperiale trovano definitivo compimento; l’emanazione di una serie di norme disciplinari anche nella materia che ci interessa è un’ulteriore conferma dello sforzo di rinnovamento riconosciuto da tutti gli studiosi che si sono occupati dell’argomento.

Con l’indicazione di precise sanzioni, la costituzione 25 recita ad esempio che: «quisquis electioni de se factae per saecularis potestatis abusum consentire praesumpserit contra canonicam libertatem, et electionis commodo careat et inelegibilis fiat».

L’intento di porre ordine nel campo del sostentamento è presente anche nella costituzione 29 che vieta ad un chierico di avere due benefici con cura d’anime; la norma contiene una premessa significativa che vuol ricordare come il divieto fosse già stato sancito dal Concilio Lateranense III (canone 13) ma non avesse ricevuto applicazione; per tale ragione esso viene ribadito al fine di ricondurre alla funzione loro propria i beni patrimoniali annessi ad una chiesa.

Di particolare interesse è anche la costituzione 32, la quale impone di estirpare la consuetudine, ancora radicata fra quanti hanno diritti di patronato su una chiesa, di riservare a sé le rendite della chiesa stessa, assegnando ai sacerdoti una quota così esigua di esse da essere insufficiente al sostentamento.

In questa costituzione, dopo aver richiamato i fondamenti biblici del diritto dei ministri del culto ad essere sostentati, il Concilio enuncia un’importante norma generale secondo cui ai chierici deve essere assegnata una porzione adeguata e sufficiente al decoroso sostentamento: «cum igitur os bovis alligari non debeat triturantis, sed qui altari servit vivere debeat de altari, statuimus ut, consuetudine qualibet episcopi vel patroni seu cuiuscumque alterius non obstante, portio presbyteris ipsis sufficiens assignetur».

Il principio così sancito dal Concilio Lateranense IV introduce la delicata questione della natura del diritto del beneficiario sui beni costituenti la dote del beneficio; nel prossimo paragrafo, affrontando il tema della elaborazione dottrinale del concetto di beneficio ecclesiastico, cercheremo di proporre alcune riflessioni in proposito, ma è bene annotare sin da ora che la quantificazione della portio spettante ai chierici per l’honesta sustentatio non ricevette mai una definizione da parte del legislatore canonico.

Dal XIII secolo in poi, con la limitazione del diritto di patronato ed il rafforzamento dell’autorità ecclesiastica nei confronti dei chierici, si innescò una nuova dinamica che modificò sostanzialmente anche il regime delle chiese private; molto spesso i proprietari di esse scelsero di alienarle agli episcopati ed ai monasteri ovvero di concederle in affitto ai sacerdoti, i quali in questi casi, non essendo i titolari veri e propri del beneficio, furono chiamati vicari.

La medesima situazione, con i problemi che comportava, si veniva a verificare quando il titolare del beneficio, pur avendone la possibilità e lo status, non esercitava direttamente il ministero richiesto dall’officium, bensì affidava il servizio ad altri chierici che erano ugualmente detti vicarii (perpetui) e che traevano il proprio sostentamento non dal beneficio, ma dalla remunerazione ad essi corrisposta dal beneficiario.

All’inizio di tutto ciò vi erano essenzialmente tre ragioni che, a lungo andare, divennero sempre più diffuse e determinanti: la non residenza del beneficiario nelle terre annesse all’officium di cui era titolare, l’incorporazione dei benefici parrocchiali all’interno dei patrimoni di altri enti ecclesiastici non direttamente legati all’autorità del vescovo, come le abbazie ed i monasteri, ed infine la prassi del cumulo di più benefici a favore di un solo individuo. Tali aspetti problematici segnarono tutta la storia del sistema beneficiale e comparvero periodicamente, mettendone in luce limiti e difetti dei quali parleremo anche oltre.

In conclusione, con qualche generalizzazione non del tutto arbitraria, possiamo dire che nei canoni del Concilio Lateranense IV sopra richiamati si sia consolidato il sistema che trovò una sua definizione giuridica nel concetto di beneficio ecclesiastico, nel senso che queste norme attestano l’avvenuta formazione di masse patrimoniali autonome, sottoposte alle norme canoniche ed all’autorità del vescovo, giuridicamente libere da ingerenze civili e destinate stabilmente a sovvenire alle necessità del clero, del culto e della fabbrica di una determinata chiesa.

«Nel decimo secolo molte diocesi in Francia erano diventate beni ereditari delle famiglie di principi secolari, i quali comparivano essi stessi come vescovi laici. La stessa sede papale venne trattata dai partiti della nobiltà romana dei secoli X e XI quasi come una loro chiesa propria» (K. Bihlmeyer-H. Tuechle, Storia della Chiesa, II, 135).

Conc. Lateranense I, a. 1123, Canones, c. 18, in COD, 194. Lo stesso Concilio al c. 4, reca un’importante norma che, ribadendo la competenza del vescovo, riduce il diritto di patronato al semplice diritto di presentazione: «nullus omnino archidiaconus aut archipresbyter sive praepositus vel decanus animarum curam vel praebendas ecclesiae sine iudicio vel consensu episcopi alicui tribuat. Immo sicut sanctis canonibus constitutum est animarum cura et rerum ecclesiasticarum dispensatio in episcopi iudicio et potestate permaneat» (Conc. Lateranense I, a. 1139, Canones, c. 25, in COD, 190).

Conc. Lateranense II, a. 1139, Canones, c. 25, in COD, 202.

Cfr. Conc. Lateranense III, a. 1179, Canones, c. 17, in COD, 220.

Conc. Lateranense IV, a. 1215, Constitutiones, cost. 25, in COD, 247.

«Statuimus, ut quicumque receperit aliquod beneficium habens curam animarum annexam, si prius tale beneficium obtinebat, eo sit iure ipso privatus, et si forte illud retinere contenderit, alio etiam spolietur» (Conc. Lateranense IV, a. 1215, Constitutiones, cost. 29, in COD, 248).

«Exstirpandae consuetudinis vitium in quibusdam partibus inolevit, quod scilicet patroni ecclesiarum parochialium et aliae quaedam personae, proventus ipsarum sibi penitus vendicantes, presbyteris earundem servitiis deputatis relinquunt adeo exiguam portionem, ut ex ea congrue nequeant sustentari» (Conc. Lateranense IV, a. 1215, Constitutiones, cost. 32, in COD, 249-250).

«Spinte all’estremo, queste pratiche portavano all’affitto delle chiese. Contratti d’affitto passati davanti a un notaio davano delle parrocchie in affitto a dei vicari, in alcuni casi a dei laici, che assumevano un sacerdote. Questo «clero mercenario» doveva in teoria essere approvato dal vescovo. Questa esigenza, però, fu osservata poco» (J. Gaudemet, Storia del Diritto Canonico, 509).

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