O Chiave di Davide 20 dicembre
Canto Gregoriano “O Clavis David”
1) Nella quarta invocazione in preparazione al Natale, la Chiesa apre la sua preghiera al Messia con l’appellativo di «Chiave di Davide»: O Chiave di Davide, o scettro della casa d’Israele: quando tu apri, nessuno può chiudere; quando tu chiudi, nessuno può aprire: vieni a liberare dal carcere il prigioniero, immerso nelle tenebre e nell’ombra di morte.
Il testo è intessuto di reminescenze bibliche, provenienti dal profeta Isaia (22, 20-22; 42, 7) a sua volta citato da san Giovanni nell’Apocalisse (3, 7) e da san Luca nel vangelo (1, 78).
L’immagine che domina e orienta l’andamento generale della preghiera è quella della chiave.
La chiave presso tutti i popoli è simbolo di apertura e di chiusura d’un ambiente, di permesso o divieto d’entrata in esso, di autorità e possesso. Le città vinte portavano le chiavi al vincitore; lo stesso facevano le città che si offrivano spontaneamente a un signore, o che gli volevano rendere omaggio. L’uso rimane ancora oggi, in non poche circostanze, ed è ancora carico dello stesso significato. Non ultimo fra di essi c’è quello della responsabilità: si dice che questa pesa sulle spalle, a ricordare che, una volta, le chiavi, specie di una città, erano tanto grosse e pesanti, che dovevano essere portate sulle spalle di chi le aveva ricevute in consegna.
2) Tale concetto viene presentato con termini simili dalla scrittura, quando parla del Messia come di chiave che discende da Davide, e che diverrà padrone dei destini dell’umanità. Il testo è riscontrabile in Isaia, quando narra di Eliakim, un uomo timorato di Dio che diviene maestro di palazzo del re Ezechia (sec. VIII a.C.): «In quel giorno, dice il Signore, chiamerò il mio servo Eliakim…; metterò il tuo potere nelle sue mani… gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide; se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire» (Is 22, 20-22).
Nei commenti dei padri, questo passo di Isaia è stato così presentato: la casa di Davide è immagine della Chiesa, nel «servo» fedele Eliakim è da vedere il prototipo di Cristo. Lui, vera chiave di Davide, potrà aprire all’uomo le porte che immettono al paradiso chiuse da millenni, e potrà chiudere le porte dell’inferno. Solo Cristo può aprire l’accesso alla vita e alla salvezza. Lo ha fatto con l’Incarnazione e con la Redenzione. Durante i giorni della passione, colui che le turbe avevano acclamato come «Figlio di Davide», ha portato sulle sue spalle la croce, chiave di Davide, con cui ha aperto le porte del cielo e chiuso quelle dell’ade. Una interpretazione in questo senso è giustificata dalle parole, che il Cristo dell’Apocalisse rivolge ai fedeli della Chiesa di Filadelfia: «Così parla il Santo, il Verace, colui che ha la chiave di Davide, quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre. Conosco le tue opere. Ho aperto davanti a te una porta, che nessuno può chiudere» (Ap 3, 7-8). In termini simbolici, si ricorda che chi è cittadino della casa di Dio, vivrà nell’incontro con il Signore, sarà membro del corpo di Cristo, ne porterà sempre il nome.
3) L’antifona si conclude citando un altro testo di Isaia, là dove il profeta ricorda che il servo di Dio è stabilito come luce delle nazioni: «perché tu faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42, 7). Quando apparirà il Cristo, dirà Zaccaria, padre di Giovanni il Battista, sarà come « un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte (Lc 1, 78). Cristo è venuto solo per liberare. Nel giorno della sua nascita, l’angelo annunzia ai pastori «una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2, 10-11). Nel giorno della sua morte, egli «discese agli inferi» e, come sottolinea trionfalmente la liturgia del sabato santo, illustrata mirabilmente dalla iconografia orientale, «oggi il nostro Salvatore ha abbattuto le porte e le sbarre della morte, ha distrutto la prigione dell’inferno, ha rovesciato la potenza del diavolo».
La Chiesa, da Adamo all’ultimo dei giusti dell’Antico Testamento, sedenti nelle tenebre e nell’ombra di morte, è stata introdotta dal Cristo risorto nello splendore del Regno.
4) L’invocazione racchiusa in questa antifona ha, come ogni preghiera, la sua attualità. Prigionieri lo si è tutti, di tante cose. Molte ombre ci avviluppa¬no in vita e in morte, perché il mondo è fusione di tutte le notti. Il mondo stringe d’assedio ciò che è bene, e sembra ridiventato come al tempo della nascita di Cristo, «mezzo patibolo e mezzo ammazzatoio» (Taine). L’anima deve cercare in continuità un varco verso il sereno: è Cristo. Per lui il mondo fu fatto, lui dà valore a tutta la creazione, lui è la chiave di spiegazione di tutto.
Con la liturgia di oggi si può pregare in vita, lo si potrà fare in morte. Mabillon racconta che Alcuino muore nell’804 nella sua cella del monastero di San Martino di Tours, ripetendo questa antifona e alternandola ai versetti del Magnificat: morte da Medio Evo, o meglio da cristiano che crede.
Un monaco del Monte Athos, Dionysios di Simon Petra, prospetta le cose in altri termini. «Per me il monastero (ognuno vi sostituisca il proprio ambiente di vita) è come un ascensore. Io non mi fermo nell’ascensore per dormire. Sono quaggiù per andare in cielo, mi ricordo di colui che mi attende alla porta…».
Una bella maniera per rasserenare le cose ultime della vita, sarà quella di fare la salita verso l’eternità con Maria, la Scala paradisi. Ad aprircene la porta, si affretterà lei come Ianua caeli …
Virgilio Card. Noè, I grandi annunzi di Natale, Libreria Editrice Vaticana, 2000, 31-35.