Il sistema di sostentamento del clero in Italia

Il nuovo sistema di sostentamento del clero, introdotto nell’ordinamento italiano con l’attuazione della legge di revisione degli accordi concordatari tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana (legge 20 maggio 1985, n. 222: Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi, è entrato in vigore il I gennaio 19891. A partire da quella data si è infatti compiuto il laborioso processo2 che ha portato, come vuole il canone 1272, al superamento del regime beneficiale ed all’abolizione dei supplementi di congrua che venivano erogati dallo Stato direttamente ai sacerdoti cattolici. Un istituto, quello del supplemento di congrua, ormai giudicato da molti inopportuno o quantomeno anacronistico, perché «sempre più caratterizzato come sussidio generalizzato o stipendio statale per i preti cattolici»3.

Dal peculiare punto di vista della presente ricerca, non v’è dubbio che il caso italiano sia un interessante oggetto di studio, poiché la conclusione dei negoziati tra la Santa Sede e lo Stato è immediatamente successiva alla promulgazione del Codex Iuris Canonici e può dirsi forse la prima applicazione concreta in un ambito nazionale dei principi dettati dal legislatore per la Chiesa universale.

Si tratta dunque di una significativa fase di approdo della riflessione teologica e giuridica sviluppatasi sul tema del sostentamento del clero nel periodo conciliare e poi sfociata nella codificazione del 1983.

Di certo però la vicenda della trasformazione del sistema beneficiale, nel quadro della revisione complessiva del Concordato del 1929, è emblematica non solo per l’ordinamento canonico, ma anche per la politica ecclesiastica dello Stato italiano, dal momento che la riforma di questa materia – ponendosi ben oltre la questione del supplemento di congrua ai ministri del culto cattolico – ha significato l’occasione per ridisegnare le forme di finanziamento pubblico e di sovvenzione nei confronti di tutte le confessioni religiose in attuazione dei principi costituzionali.

Non è un caso infatti che, a seguito degli accordi con la Santa Sede, lo Stato italiano abbia poi concluso una serie di intese con le più importanti confessioni religiose presenti nel Paese e proprio sulla scorta del modello concordato con la Chiesa cattolica4.

É altresì interessante osservare che il meccanismo di finanziamento, contenuto nella legislazione negoziata intervenuta dal 1984 tra lo Stato e le confessioni religiose, è stato utilizzato anche in un’altra legge della Repubblica Italiana per una materia altrettanto delicata: la legge 2 gennaio 1997 n. 2 per il sostegno dei partiti politici, che è però stata in parte abrogata nel 19995.

In sede introduttiva e senza pretendere di dilungarci in digressioni storiche, va detto che la modifica del sistema beneficiale si è definita attraverso un lungo negoziato, la cui necessità si riconduce peraltro all’articolo 7 della carta costituzionale italiana ove è stabilito che i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica siano regolati dai Patti Lateranensi.

Per effetto di questo espresso richiamo, ad avviso della dottrina dominante, non si deve ritenere che le norme concordatarie abbiano assunto rango costituzionale, in quanto la loro modifica può essere disposta con legge ordinaria e non richiede il ricorso al procedimento di revisione costituzionale.

É tuttavia necessario un accordo, non potendo unilateralmente lo Stato – come del resto la Santa Sede – procedere alla revisione delle norme pattizie. Ancor prima della Costituzione repubblicana, lo stesso articolo 30 del Concordato del 1929 precisava che la disciplina del sistema delle congrue sarebbe rimasta in vigore «finché con nuovi accordi non sarà stabilito diversamente».

Il procedimento di revisione del Concordato prese le mosse nel 1967 con l’approvazione di un ordine del giorno parlamentare relativo alla mozione presentata nel 1965 dall’onorevole Lelio Basso. Soltanto nel 1976, dopo anni di trattative, venne presentata dal Governo Andreotti, alla Camera dei Deputati, la prima bozza di accordo elaborata da una Commissione italo-vaticana, alla quale ne seguirono numerose altre.

Infine, il 18 febbraio 1984, venne stipulato l’«Accordo di modificazione del Concordato lateranense», dal quale però – come in tutti i precedenti schemi d’intesa – non è regolata, se non nei principi fondamentali, la materia degli enti e del patrimonio della Chiesa. Tocco’ quindi ad una commissione paritetica, a ciò istituita in forza dell’articolo 7 numero 6 dell’Accordo, predisporre il Protocollo addizionale per disciplinare tali aspetti, che verrà siglato il successivo 15 novembre 19846.

In merito alla specifica questione del sostentamento – come ricorda Giachi – la commissione era partita con una prima ipotesi di semplice modifica del sistema beneficiale, vista la disponibilità manifestata da parte dello Stato all’elevazione della quota base congruabile (già maggiorata nel 1974 da un’Indennità Integrativa Speciale)7.

Solo in un secondo tempo, invece, si è raggiunta l’intesa per l’introduzione di un nuovo sistema più rispondente alle indicazioni del Concilio Vaticano II, col quale si potesse ottenere la perequazione delle condizioni economiche del clero italiano8.

Molto opportunamente qualcuno9 ha rilevato come questa scelta sia stata frutto di un’autonoma riflessione della Chiesa cattolica, che l’Episcopato italiano ha ribadito in modo netto spiegando le ragioni della soppressione del sistema beneficiale-congruale «ormai contrastante con tanti valori ecclesiali e pastorali, diventato spesso controproducente in ordine ad una moderna amministrazione degli stessi beni donati dai fedeli alla Chiesa, appesantito da non poche pastoie burocratiche e poco consonante ad una corretta impostazione delle relazioni tra Chiesa e Stato»10.

A sostegno di quella scelta, suffragata da positivi riscontri pratici, nel 1995, dieci anni dopo la riforma concordataria, il Vicepresidente della C.E.I. mons. Dionigi Tettamanzi scriveva:

è nato invece un sistema nuovo e coraggioso, basato sulla logica della piena libertà della Chiesa e dello Stato nella rispettiva totale autonomia e della cordiale e convinta collaborazione a servizio del bene comune della società. Chiesa e Stato oggi non sono più due realtà che si ignorano o si guardano con diffidenza o, peggio, si ostacolano, ma due soggetti vivi che nella loro sovranità e indipendenza cooperano o dovrebbero cooperare sempre più per la promozione del bene dell’uomo e del Paese11.

Da tutto ciò emerge con ulteriore evidenza la delicatezza del tema del sostentamento, a riguardo del quale giocano un ruolo rilevante le tradizioni e le vicende storiche di ogni paese ma anche e soprattutto la discrezionalità politica dello Stato, che esso si trovi o meno – come quello italiano – ad essere vincolato da precise garanzie costituzionali della libertà religiosa12.

Per tale ragione in questo capitolo ad una lettura analitica delle norme sopra richiamate, si affiancherà una valutazione comparativa e necessariamente sommaria dei modelli di finanziamento pubblico delle confessioni religiose in vigore negli altri Paesi europei, con particolare attenzione all’aspetto del sostentamento dei ministri di culto.

Ciò permetterà da un lato di non incorrere nel rischio di considerare il modello italiano come il migliore dei sistemi possibili o addirittura come l’unico praticabile; mentre, per altro verso ed in maniera più affine alla prospettiva universale dello studio canonistico, si cercherà di vedere come le Chiese di altri paesi abbiano affrontato il problema dell’applicazione dei principi scaturiti dal Concilio Vaticano II e dalla successiva codificazione.

1 Cfr. M. Morgante, «Nuovo sistema», 81-82.

2 La legge 222/85 ha previsto un iter graduale di applicazione delle norme introdotte nell’ordinamento italiano a seguito degli Accordi tra lo Stato e la Santa Sede. Innanzitutto, affinché si verificasse l’estinzione dei benefici ecclesiastici ex art. 28, entro il 30.9.1986 ogni diocesi ha dovuto provvedere all’erezione di un Istituto diocesano per il sostentamento del clero (I.D.S.C.). Entro lo stesso termine, la C.E.I. ha fondato l’Istituto centrale per il sostentamento del clero (I.C.S.C.). Quanto alla remunerazione dei sacerdoti invece, in un primo biennio (1985-1986) lo Stato ha continuato ad erogare gli assegni di congrua; mentre, dal I gennaio 1987 e per il successivo triennio, lo Stato ha corrisposto direttamente alla C.E.I. il totale degli importi prima destinati al Fondo per il Culto. La definitiva entrata in vigore del nuovo sistema di sostentamento era stabilita dalla legge n. 222 a decorrere dal I gennaio 1990, ma il Presidente della C.E.I., esercitando una facoltà prevista negli Accordi, con decreto n. 879 del 30.12.1988, ha anticipato di un anno la scadenza. Quanto poi l’esito di questo processo di revisione non sia stato indolore lo dimostrano le molte polemiche sorte; basterebbe segnalare, tra tutti, la posizione di A. Vitale che non esita a parlare di legge in contrasto con i principi costituzionali (art. 7, c. I della Costituzione italiana); di aspetti discutibili in riferimento al meccanismo legato al gettito IRPEF poiché si infrangerebbe il principio «basilare per cui non è ammissibile che i cittadini interferiscano direttamente sull’impiego delle entrate iscritte nel bilancio dello Stato, giacché tali fondi sono funzionali alle scelte politiche del Governo, per loro natura discrezionali». Sotto accusa è pure il sistema delle offerte deducibili, perché: «in questo modo il contribuente sostenitore risparmia una quota delle tasse che deve allo Stato e, grazie al criterio della progressività, più è ricco e più viene a risparmiare, perché più dovrebbe in ragione della sua più alta aliquota marginale». Criticata è pura la supposta inadeguata identificazione dei beni trattenuti dagli I.D.S.C., come pure lo scarso rispetto per la volontà dei donatori e testatori a motivo del trasferimento dei benefici dalla parrocchia all’I.D.S.C. (Cfr. A. Vitale, «Dai benefici ecclesiastici», 145-152).

3 Cfr. S. Berlingò, «Gli enti», 309.

4 In proposito F. Finocchiaro nota come l’Intesa negoziata dal Governo italiano con la Tavola valdese sia stata sottoscritta solo il 21 febbraio 1984, tre giorni dopo l’Accordo con la Santa Sede, benché la commissione mista governativa-valdese avesse concluso i propri lavori sin dal 1978, perché «per rispettare una ulteriore tradizione italiana, lo Stato si occupa delle minoranze religiose solo dopo essersi occupato della Chiesa cattolica» (F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, 44).

5 A. Guarino segnala le analogie tra i partiti e le confessioni religiose, in quanto organizzazioni di tendenza la cui esistenza pone allo Stato democratico problematiche assai affini. «L’art. 1 della l. 2/97 prevedeva che ciascun contribuente potesse destinare una quota pari allo 0,4% dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) al finanziamento dei movimenti e dei partiti politici». Nell’ambito di una discussa riforma dell’intera materia, l’art. 10 della legge 3 giugno 1999 n. 157 ha abrogato la norma in questione (A. Guarino, «La legge 2/97», 370-372).

6 Cfr. M. Colombo, «L’Istituto», 91-92. Il Protocollo addizionale del 15.11.1984 è stato recepito nell’ordinamento canonico con decreto del Cardinale Segretario di Stato del 3.6.1985; è stato ratificato dalla Repubblica italiana con la legge 20.5.1985 n. 206 ed ha ricevuto esecuzione con la già citata legge 20.5.1985 n. 222. Sulla complessa controversia ermeneutica circa il rapporto tra le leggi 206 e 222 si veda S. Berlingò, Enti e beni religiosi, 40-61.

7 Cfr. G. Giachi, «Il nuovo regime», 289.

8La testimonianza di mons. Nicora, che è stato il Presidente della delegazione vaticana, può rendere meglio il significato dell’accordo: «è la prima volta che in Italia una così radicale riforma su una materia così combattuta e complessa avviene non per la via del colpo di mano, dello stato di fatto generato da una violenza più o meno “legale” o dall’accordo con un regime autoritario subito per salvare il salvabile, ma attraverso un comune sforzo di ricerca e una leale intesa tra lo Stato e la Chiesa; s’intende tra la Chiesa che porta a sviluppo i grandi valori conciliari e uno Stato democratico che, in profonda consonanza con la sua Costituzione, rinnova le forme del proprio rapporto con le confessioni religiose in chiave di rispetto e promozione dei valori religiosi, indisgiungibili da quelli di libertà e pluralismo» (A. Nicora, «Enti e beni ecclesiastici», 12).

9 Cfr. E. Cappellini, «Beni ecclesiastici», 21.

10 C.E.I., Sovvenire alle necessità della Chiesa, ECEI IV (1986-1990) 668.

11 D. Tettamanzi, «Prefazione», 5.

12 Cfr. G. Dalla Torre, «Stato e clero», 104-109.

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