La tematica del sostentamento nel Codice del 1983: inquadramento sistematico
Cercheremo a questo punto di dare un quadro sistematico sul tema del sostentamento dei chierici nel Codice, attraverso tre passaggi successivi:
- l’analisi e lettura composita di alcuni canoni particolarmente significativi circa la nostra materia e cioè i canoni 1272, 1274 e 1275, con riferimento ai canoni 281 § 1; 282 § 2; 384.
- La sottolineatura di alcuni aspetti critici circa le categorie di «remuneratio» e «sustentatio» nel Codice vigente, con riferimenti alla precedente codificazione e alla riflessione conciliare.
- L’esame di una «situazione-patologica-tipo».
Quest’ultimo passaggio potrà, pertanto, diventare l’occasione per far emergere e verificare le conseguenze della lettura da noi proposta delle suddette categorie oggetto del nostro studio.
2.1 Lettura composita dei canoni 1272, 1274 e 1275
Affrontare una lettura composita dei canoni non significa dirne tutto il possibile, ma, più semplicemente, cercare di evidenziare il filo conduttore che lega la riflessione giuridica che soggiace ai canoni stessi.
Un’altra premessa importante è ricordare che il lavoro di redazione del Codice, soprattutto in queste materie, ha avuto come punti di riferimento essenziali: il Concilio e il principio di sussidiarietà. Del Concilio, i Consultori, hanno tenuto presente non solo i documenti finali, ma anche gli atti; così come si deve ricordare che il Concilio non ha inteso trattare tutte le questioni disciplinari che invece il Codice deve affrontare e, viceversa, che il Codice non intende codificare tutto quanto il Concilio ha detto. Altro elemento importante da ricordare è la varietà di situazioni locali, di legislazioni particolari, di norme civili, alle quali ogni Chiesa particolare deve fare riferimento: da qui la precisa volontà di limitare al massimo le prescrizioni universali, per lasciare al diritto particolare i necessari raccordi con la realtà locale1.
Sempre circa la materia del sostentamento del clero accenniamo qui, per poi ritornarvi più avanti, ad una svolta importantissima apportata dal vigente Codice rispetto a quello precedente. Non si parla più del titolo di ordinazione, poiché il sistema del sostentamento del clero si fonda sull’ufficio che si esercita a servizio della Chiesa, per il quale si deve avere un’adeguata remunerazione, anche se non si è incardinati nella Chiesa stessa2.
Un testo fondamentale per la remunerazione dei chierici è il canone 281 § 1, posto nel capitolo III, dedicato ai doveri e diritti dei chierici, del libro II del Codice, il quale afferma: «Ai chierici, in quanto si dedicano al ministero ecclesiastico, spetta una remunerazione adeguata alla loro condizione, tenendo presente sia la natura dell’ufficio, sia le circostanze di luogo e di tempo, perché con essa possano provvedere alle necessità della propria vita e alla giusta retribuzione delle persone del cui servizio hanno bisogno». Il canone non può essere letto al di fuori di PO 20, che ne costituisce la vera e propria fonte ispiratrice3. Esso stabilisce il diritto4 alla remunerazione e all’assistenza sociale dei chierici. Si tratta di un diritto nei confronti del Vescovo, che si radica nella condizione stessa di ministro sacro e che trova la sua origine nella stessa incardinazione5, ma anche nei confronti di tutti i fedeli, in forza della giustizia distributiva naturale e della Scrittura6. Il Vescovo ha dunque l’obbligo di provvedere al sostentamento e all’assistenza sociale dei soli chierici che svolgono il loro ministero nella diocesi7.
Il diritto alla remunerazione del chierico8 non deve essere confuso con quello di un operaio, perché il ministero sacro non può essere considerato come un semplice lavoro di carattere economico9.
Il sacerdote non lavora pastoralmente per essere retribuito, non deve perciò ottenere un corrispettivo per delle prestazioni d’opera, ma un giusto compenso basato su un vero e proprio diritto; quindi, se un chierico riceve una remunerazione, questa è finalizzata ad una vita decorosa e allo svolgimento del proprio ministero10.
Quali criteri per la remunerazione il canone segnala: la natura dell’ufficio svolto e le condizioni dei tempi e dei luoghi. Tale retribuzione dovrà tener presente una giusta perequazione, senza cadere in un egualitarismo assoluto, contrario ai principi di giustizia e di equità, nonché dannoso ai fini pratici. Essa sarà tale, comunque, da essere sufficiente per le necessità della vita propria, per un’equa retribuzione dei dipendenti e per venire incontro alle necessità dei poveri11.
Collegata con la problematica della remunerazione è poi anche la garanzia di un sistema previdenziale con cui far fronte a malattia, vecchiaia e invalidità, di cui al canone 281 § 2: «Così pure occorre fare in modo che usufruiscano della previdenza sociale con cui sia possibile provvedere convenientemente alle loro necessità in caso di malattia, di invalidità o di vecchiaia»12.
Nel Codex Iuris Canonici 1917 il sostentamento del clero era legato direttamente al titolo canonico di ordinazione, inteso come quell’insieme di beni ed emolumenti mediante i quali si sopperiva alle necessità dei chierici. Il titolo ordinario era quello del beneficio, mentre quelli del patrimonio e della pensione erano considerati come sussidiari. Il titolo del servizio alla diocesi aveva carattere suppletorio. L’istituto dell’incardinazione esisteva, ma aveva solo un carattere disciplinare, perché, per quanto riguarda il servizio e il sostentamento, interveniva il titolo di ordinazione.
Con la riflessione conciliare sul ministero sacro ne è conseguita una nuova interpretazione del significato dell’incardinazione, intesa, questa volta, come relazione di servizio ministeriale, che concretizza quella destinazione universale implicita nella ricezione del sacramento dell’ordine13. Ora, dunque, l’incardinazione non rappresenta più il semplice nesso disciplinare di soggezione ad un certo territorio, ma, come categoria complessiva, assume in sé anche le prerogative di quello che, nel passato, era il titolo di ordinazione.
Per quanto concerne il soggetto di questo diritto, possiamo qui affermare che il canone si riferisce direttamente ai chierici dediti al ministero ecclesiastico. Dunque, in via ordinaria, a quei chierici che lavorano, con piena e permanente disponibilità, secondo le direttive del Vescovo diocesano.
Esiste una stretta relazione tra il diritto alla remunerazione e l’esercizio di un ministero ecclesiastico, cosicché il rifiuto della disponibilità richiesta dal canone 274 § 2 potrebbe essere fatto coincidere con la rinuncia al diritto stesso di essere retribuito14.
Anche questioni molto concrete, come quelle relative alla remunerazione e al sostentamento del clero, condurrebbero ad un circolo vizioso di recriminazioni, se non fossero rilette sullo sfondo che è loro proprio, perché connaturali alla Chiesa stessa ed al ministero ecclesiale svolto.
Questo significa che le norme circa il sostentamento del clero vanno interpretate nello spirito evangelico, che il Concilio segnala e che il Codice fa proprio. Da qui il canone 282 che, dopo aver richiamato i chierici alla vita semplice, senza stabilire un obbligo giuridico alla povertà materiale, afferma, al § 2: «I beni di cui vengono in possesso in occasione dell’esercizio di un ufficio ecclesiastico e che avanzano, dopo aver provveduto con essi al proprio onesto sostentamento e all’adempimento di tutti i doveri del proprio stato, siano da loro volontariamente impiegati per il bene della Chiesa e per opere di carità»15. Ancora una volta, il principale riferimento è ai testi conciliari nei quali i chierici sono invitati ad abbracciare la povertà volontaria16, per potersi conformare in modo più chiaro a Cristo e poter svolgere meglio il loro ministero17.
I Vescovi e i presbiteri devono evitare la vanità e tutto ciò che allontani i poveri da loro, rendere la loro abitazione modesta e accessibile a tutti. I beni temporali devono comunque essere usati per i fini ai quali sono destinati, nel rispetto degli insegnamenti del Signore e dell’ordinamento della Chiesa. Inoltre i veri e propri beni ecclesiastici devono essere amministrati secondo le leggi proprie e impiegati per gli scopi per cui la Chiesa li possiede, e cioè il culto divino, il dignitoso sostentamento del clero ed il mantenimento delle opere di apostolato e carità, specialmente per i poveri.
All’interno del quadro più generale dei diritti e dei doveri del Vescovo in relazione alla sua funzione pastorale, un posto importante è occupato dai presbiteri: «I Vescovi, pertanto, grazie al dono dello Spirito Santo che è concesso ai presbiteri nella sacra ordinazione, hanno in essi dei necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nella funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio»18.
Il canone 384 propone una traduzione giuridica delle indicazioni conciliari: «il Vescovo diocesano segua con particolare sollecitudine i presbiteri che deve ascoltare come collaboratori e consiglieri, difenda i diritti e curi che adempiano fedelmente gli obblighi propri del loro stato e che abbiano a disposizione i mezzi e le istituzioni di cui hanno bisogno per alimentare la vita spirituale e intellettuale; così pure faccia in modo che si provveda al loro onesto sostentamento e all’assistenza sociale, a norma del diritto»19.
Dunque tre sono i punti nodali sui quali si deve concentrare l’attenzione del Vescovo nei confronti del suo clero: a) la difesa dei diritti dei chierici, ma anche la vigilanza affinché adempiano alle loro obbligazioni; b) la formazione spirituale e intellettuale; c) le necessità materiali.
Evidentemente questa attenzione trova una specificazione, per quanto riguarda il sostentamento del clero, nel canone 281 e una sua attuazione pratica nelle disposizioni di cui al canone 127420.
Prima di affrontare il canone 1274 è bene ricordare il canone 1272, per verificare quale sia stata la sorte del sistema beneficiale nella nuova codificazione. Ora, è evidente come esso perda il suo significato in vista del sostentamento del clero21; infatti, pur non abolendo immediatamente i benefici, è questo l’effetto pratico del canone 127222. Non si vede, infatti, come sia possibile parlare di una sopravvivenza dell’istituto beneficiale quando il canone 1272 stabilisce che i benefici esistenti vengano regolati da parte delle Conferenze episcopali, mediante una normativa transitoria concordata e approvata dalla S. Sede23. Tale normativa deve comunque abolire il nesso tra ufficio e diritto ai redditi, i quali redditi24 e, per quanto possibile, la stessa dote beneficiale, dovranno essere trasferiti all’istituto di cui al canone 1274 § 125.
Il canone 1274, al § 1, afferma: «Nelle singole diocesi ci sia un istituto speciale che raccolga i beni o le offerte, al preciso scopo che si provveda al sostentamento dei chierici che prestano servizio a favore della diocesi, a norma del canone 281, a meno che non si sia provveduto ai medesimi diversamente». Dunque, rileggendo il canone 1272 insieme al canone 1274 § 1 ne viene che, nelle regioni in cui sussistano ancora benefici, le Conferenze dei Vescovi devono dare norme approvate dalla S. Sede per regolarne l’amministrazione, in modo che i redditi e la dote stessa vengano trasferiti a quella istituzione speciale, che deve esistere in ogni diocesi, per raccogliere i beni e le offerte per il sostentamento del clero, di cui appunto al canone 1274 § 126.
Tali istituti27, strutturati come persone giuridiche pubbliche, come universitas rerum, agendo in nome della Chiesa e con statuti debitamente approvati28, avranno il fine esclusivo di provvedere al sostentamento del clero che svolge un ministero nella diocesi29. La loro istituzione è obbligatoria, salvo che si sia provveduto alle necessità del clero in altro modo30. La clausola «nisi aliter eisdem provisum sit», non pare riguardare l’obbligatorietà dell’istituto stesso, quanto, piuttosto, i singoli chierici, per cui, in taluni casi, si potrebbe provvedere a loro anche senza l’intervento di tale istituto per il sostentamento.
Dunque vi è un obbligo a costituire in ogni singola diocesi un istituto per il sostentamento del clero, a norma del canone 281 § 1, per i chierici che prestano servizio alla diocesi stessa, anche se è possibile che ad alcuni di essi si provveda diversamente.
Rafforza questa tesi il fatto che, in altri due canoni del Codice, si presuppone l’esistenza necessaria di tale istituto: il canone 1272 e il canone 1303 § 2. Nel primo caso si parla della riforma del sistema beneficiale, la quale non sarebbe possibile senza poter devolvere il reddito o la stessa dote dei benefici all’istituto per il sostentamento del clero. Nel secondo caso si tratta dell’obbligo di destinare i beni residui delle fondazioni non autonome all’istituto per il sostentamento del clero31.
L’erezione dell’istituto spetta, evidentemente, al Vescovo diocesano. Infatti, per quanto questo non sia detto esplicitamente dal canone, tuttavia è chiaro che ne ha la potestà (canone 381 § 1), ma anche la responsabilità, visto l’obbligo del prendersi cura delle condizioni anche materiali dei suoi presbiteri (cfr. canone 384)32. Per quanto il canone 1274 § 1 parli di diocesi, si può ritenere che esso si riferisca anche a tutte quelle Chiese particolari che sono equiparate alle diocesi a norma del canone 369 e del canone 372 § 233.
Il § 5 dispone che questi istituti vengano costituiti, nella misura in cui ciò sia possibile, in modo che godano di personalità giuridica civile34. Il loro patrimonio potrà essere costituito con beni e offerte, rendite e doti di benefici («quatenus possibile sit»), beni di fondazioni non autonome estinte (canone 1303 § 2). Inoltre si potranno utilizzare anche i frutti di fondazioni pie costituite per i fini propri di questi istituti, sovvenzioni statali e di enti pubblici o privati, offerte raccolte nelle Chiese, frutti di beni diocesani, tasse, etc.35
L’ordinamento giuridico di tale patrimonio spetterà al diritto particolare, che dovrà regolarne la gestione delle entrate e uscite, nel rispetto delle disposizione del CIC sull’amministrazione e l’alienazione dei beni ecclesiastici36.
Il § 2 del canone 1274 ribadisce le disposizioni di PO 21, 237 circa la creazione di un istituto per la previdenza sociale del clero finalizzato dunque a prendersi cura della previdenza sociale e dell’assistenza sanitaria del clero, con la dovuta attenzione verso i sacerdoti malati, invalidi o anziani.
Ben si comprende l’opportunità di tale istituto, soprattutto per quei paesi dove l’organizzazione statale non garantisce un’adeguata previdenza sociale per il clero38. In ogni caso la norma non è imperativa, nel senso che tale istituto per la previdenza è previsto solo laddove la sicurezza sociale risulti insufficiente39.
La proposta di Ecclesiae Imago al n. 136 di concentrare tutte le oblazioni in un unico fondo, che poteva essere istituito dal diritto particolare, non è stata accolta dal Codice, il quale stabilisce la costituzione di un fondo comune diocesano e separato, che non deve necessariamente godere di personalità giuridica, a) quando bisogna retribuire altre persone che prestano servizio nella Chiesa; b) per soddisfare altre necessità della diocesi (canone 1274 § 3); c) così come per prestare un opportuno aiuto da parte delle Chiese più ricche a quelle più povere40.
Tale massa comune di beni nella diocesi era già proposta da PO 21, da ES I, 8 nonché ribadita da Ecclesiae Imago al n. 138. Essa, inoltre, richiama alla mente il dettato del canone 231 §§ 1-2 allorquando si riferisce alla necessità di provvedere a coloro che prestano un servizio alla Chiesa pur non essendo chierici; così dicasi per il canone 1271 che invita le Chiese particolari a non fare mancare il loro aiuto alla Chiesa universale41.
Costituire tale massa non comporta evidentemente un obbligo, se non nella misura in cui essa risulti necessaria («quatenus opus sit»).
Un’ultima questione assai importante si riferisce alla scelta di centralizzare la gestione economica degli uffici, oppure di decentrarla nelle parrocchie o in altre persone giuridiche42.
Per quanto la questione possa sembrare di carattere semplicemente organizzativo, in realtà essa tocca anche altri temi di rilievo, come la responsabilizzazione delle comunità locali nel sostegno al clero a servizio della comunità stessa. Evidentemente, nelle scelte concrete, si dovranno considerare, oltre ai criteri d’efficienza organizzativa ed alle opportunità offerte dagli ordinamenti statali, anche tutto il quadro complessivo dei valori in gioco.
Il canone 1274 al § 4 suggerisce come i fini di cui ai §§ 2-3 dello stesso canone 1274, considerate le situazioni oggettive dei diversi luoghi, possano essere conseguiti anche mediante la cooperazione tra diverse diocesi. Essa potrebbe assumere tre forme diverse: istituzioni diocesane tra loro confederate e con un organismo centrale di direzione; semplice cooperazione tra le diverse istituzioni diocesane nell’organizzazione e gestione dei servizi e, infine, mediante la costituzione di un’unica istituzione, per convenientem consociationem, tra le varie diocesi o per tutto il territorio della Conferenza episcopale43.
Al canone 1275 viene riservato il compito di indicare come le masse di beni provenienti dalla diverse diocesi vadano regolate secondo le norme emanate dai Vescovi interessati: si tratta di un’espressione del principio conciliare di cooperazione interdiocesana44.
1 Cfr. V. De Paolis, «Il sostentamento», 571-583.
2 Questo non significa che, essendo caduto il titolo di ordinazione, la vigente legislazione ammetta dei chierici acefali (cfr. c. 265), anzi, il c. 266 § 1 ricorda che ogni chierico viene promosso agli ordini per il servizio dell’istituzione in cui è incardinato. Sarà questa stessa istituzione a provvedere al suo sostentamento: il Vescovo diocesano (cfr. c. 269); il Prelato, per chi è incardinato in una prelatura (cfr. c. 295 § 2); per i membri degli istituti di vita consacrata (cfr. c. 600) e per i religiosi in particolare, c’è l’obbligo della vita comune (cfr. c. 668) (cfr. V. De Paolis, «Il sostentamento», 586-587). Per i membri delle società di vita apostolica la questione del sostentamento sarà regolata dalle costituzioni, visto che un membro chierico incorporato o aggregato nelle Società potrebbe anche essere incardinato nella Chiesa diocesana (cfr. J. Bonfils, Les sociétés, 70-77).
3 Tra le fonti del canone sono citate: CD 16; PO 17, 20; ES I, 4, 8; EI 117 e il documento Ultimis temporibus, 914 (cfr. Pccicai, Codex Iuris Canonici. Fontes, 80).
4 Qualcuno parla di «diritto naturale» del chierico che lavora o ha lavorato nel ministero di ricevere una congrua remunerazione ed una sufficiente assistenza sociale nei casi di malattia, invalidità e vecchiaia (cfr. T. Rincón, «Commento al c. 281», 235; J. De Otaduy, «Comentarios a los cc. 281-282», 351). Altri parlano di «ius nativum» (L. Chiappetta, Il Codice, I, 394). In un recente decreto del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi si afferma, in proposito: «The fact that can. 281 is found in the chapter of book II that sets forth the obligations and rights of clergy leads to the logical conclusion that remuneration is a right: a cleric has a right to adequate remuneration» (Pontificium Consilium de Legum Textibus, «Decretum», 163).
5 Cfr. EI 117a; J. De Otaduy, «Comentarios a los cc. 281-282», 351. Nella precedente legislazione questo diritto era legato al titolo canonico di ordinazione, ossia di beneficio, di patrimonio o di servizio alla diocesi e stava a significare una «specie di controprestazione al servizio, secondo la giustizia commutativa» (T. Rincón, «Commento al c. 281», 235).
6 Cfr. cc. 222 § 1; 1261; Mt 10,10; Lc 10,7; 1 Cor 9,7-14; 1 Tim 5,18; G. Ghirlanda, Il diritto, 159. Con T. Rincón, «Commento al c. 281», 235, possiamo dire che, per quanto vi sia un forte legame del diritto alla remunerazione con l’incardinazione: «la sua ultima radice vada ricercata nella semplice condizione di ministro sacro». Il testo del canone, infatti, non parla del chierico incardinato, ma del chierico che esercita un ministero ecclesiastico.
7 Il caso dei chierici trasferiti in altra diocesi a norma del c. 271 § 1 sarà invece regolato dalla convenzione scritta tra i due Vescovi (cfr. G. Ghirlanda, Il diritto, 159; J. De Otaduy, «Comentarios a los cc. 281-282», 354). È da ribadirsi che si tratta della remunerazione di coloro che si dedicano ad un ministero ecclesiastico, mentre per gli altri si dovrà provvedere in altro modo (cfr. D. Mogavero, «I ministri sacri», 122).
8 Cfr. Communicationes 14 (1982) 172. Osserva opportunamente J. De Otaduy, «Comentarios a los cc. 281-282» 352, che, mentre il linguaggio codiciale e quello conciliare, piuttosto che parlare di «ius remunerationis», usano espressioni come «remunerationem merentur», «aequam recipiant remunerationem»; invece, per quanto riguarda i laici, al c. 231 § 1 si parla espressamente di: «ius habent ad honestam remunerationem». La posizione del Codice, espressa anche dal linguaggio usato, non va verso un disconoscimento del diritto al sostentamento, ma significa semplicemente che il lavoro ministeriale è un presupposto per la retribuzione, ma quest’ultima non ne costituisce la corrispondente contropartita. Al diritto ad un degno sostentamento che spetta al chierico incardinato segue un’obbligazione di giustizia da parte dell’autorità competente, mentre l’effettivo esercizio di questo diritto è retto dai principi della giustizia distributiva e non commutativa. Cfr. V. De Paolis, «Il sostentamento», 587-588, in particolare la nota 53, proprio sul fatto se si possa parlare o meno e in che senso si possa parlare di uno «ius».
9 Osserva A. Nicora: «La “remuneratio” assicurata dalla Chiesa al sacerdote che si dedica all’esercizio del ministero secondo i mandati del Vescovo non è misurabile secondo i criteri di controprestazione e di proporzionalità rispetto alle singole prestazioni espresse dal sacerdote. La Chiesa di per sé non assicura una retribuzione al lavoro o ai lavori prestati dal sacerdote, ma garantisce al sacerdote l’onesto sostentamento […] una volta che si vede assicurato l’onesto sostentamento, il sacerdote ha ricevuto ciò che la Chiesa si è impegnata ad assicurargli mediante l’incardinazione […]» (A. Nicora, «Tratti caratteristici», 6-7). Ribadisce il Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi: «The remuneration that the Church must ensure for the cleric who dedicates himself to the exercise of ministry according to the mandate of the Bishop is not measurable according to the criteria of commutative justice, that is, of reciprocity and of proportionality with respect to the particular services rendered by the cleric. The Church, in fact, is not called upon to ensure a “stipend” (can. 281 § 1 uses, in fact, the term “remuneratio”, which expresses a different concept than “stipendio”) […] for the works performed by the cleric» (Pontificium Consilium de Legum Textibus, «Decretum», 164).
10 Cfr. L. Chiappetta, Il Codice, I, 394; D. Mogavero, «I ministri sacri», 122; J. De Otaduy, «Comentarios a los cc. 281-282», 352.
11 Cfr. PO 20a; D. Mogavero, «I ministri sacri», 122.
12 Da leggersi con il c. 1274 § 2. Sulla questione se alle Conferenze episcopali spetti di occuparsi di tutto quanto concerne la sicurezza sociale del clero oppure se questo istituto debba essere inglobato in quello per il sostentamento del clero cfr. Z. Combalía, «Comentarios a los cc. 1274-1275», 113.
13 Cfr. J. De Otaduy, «Comentarios a los cc. 281-282», 353; P. Palazzini, «La aequa remuneratio», 14-15.
14 Cfr. J. De Otaduy, «Comentarios a los cc. 281-282», 354.
15 Quali fonti di questo canone sono citati: il c. 1473 del CIC 17 e PO 17 (cfr. Pccicai, Codex Iuris Canonici. Fontes, 80). Osserva L. Chiappetta «Ai titolari di benefici ecclesiastici il can. 1473 del Codice precedente imponeva un vero obbligo (obligatione tenetur). La nuova norma è più attenuata quanto all’obbligo (impendere velint), ma è più estesa, poiché abbraccia i redditi di qualsiasi ufficio ecclesiastico (occasione exercitii ecclesiastici officii)» (L. Chiappetta, Il Codice, I, 397). Proprio a proposito di questo canone, riletto alla luce dei testi conciliari, si domanda L. Mistò se i beni quasi-patrimoniali, ossia quei beni che, nel passato, venivano al chierico in virtù dell’esercizio del ministero, ossia per titolo spirituale, ma diverso dal beneficio e che oggi sono i beni che vengono al chierico per l’esercizio di un qualche ministero ecclesiale, pur non essendo strettamente dipendenti dall’ufficio a cui il titolare è preposto, configurando comunque un’entrata oggettiva: «se essi non possano addirittura venire inglobati nel sistema di sostentamento: non tanto direttamente, cioè entrando nel computo di quanto il chierico ha diritto di ricevere, quanto piuttosto indirettamente, cioè facendoli confluire all’ente presso il quale il chierico presta servizio» (L. Mistò, «Diritto alla remunerazione», 64-65).
16 Anche la raccomandazione della vita comune tra chierici, di cui al c. 280, deve essere letta nella prospettiva della povertà. Interessante, a questo proposito, constatare come la vita comune dei chierici è stata praticata quando «c’era la mensa comune con la professione del consiglio evangelico di povertà. Ha subito un forte contraccolpo con la retribuzione personale, in particolare con il diffondersi del sistema beneficiale» (V. De Paolis, «Il sostentamento», 588).
17 Cfr. PO 17c, e; c. 1254 § 2; PDV 30; G. Ghirlanda, Il diritto, 158; J. De Otaduy, «Comentarios a los cc. 281-282», 358-359. Forse eccessivamente forte la posizione di D. Mogavero, «I ministri sacri», 119, quando, a proposito di questo canone, afferma: « […] tutto ciò che avanza deve essere devoluto, senza speciose contorsioni dialettiche, in favore della Chiesa e delle opere di carità. Questa norma esclude tassativamente un accumulo di beni per fini personali con quanto si è ricevuto nello svolgimento del proprio ministero. Ogni forma di risparmio e di sana previdenza per far fronte a necessità impreviste o di straordinaria consistenza va, perciò, sostenuta con altri fondi». Noi condividiamo la tesi di chi sostiene che non si possa parlare di un obbligo giuridico: « […] toda vez que la entrega de los bienes sobrantes y la calificación misma de esos bienes como tales queda a la libre estimación del sacerdote. Por otra parte, la administración de los propios recursos económicos cae dentro del ámbito de la autonomía personal […]» (J. De Otaduy, «Comentarios a los cc. 281-282», 358).
18 Cfr. PO 7a, in EV 1, n. 1264.
19 Quali fonti di questo canone sono citati: LG 28; CD 16; PO 20, 21; ES I, Introductio, 7, 8; EI 107-117 (cfr. Pccicai, Codex Iuris Canonici. Fontium, 110). Importante ricordare il testo di EI 117: «a) Il vescovo deve preoccuparsi anche dell’equo trattamento economico dei presbiteri e dell’attuazione della giustizia distributiva. Pertanto egli dà esecuzione ai decreti ed esortazioni del Concilio Vaticano II e alle istruzioni della Sede Apostolica in materia di perequazione economica del clero. Perciò procura che ad ogni chierico sia assicurata, in misura uguale per tutti quelli che si trovano nelle medesime condizioni, una retribuzione che, pur nella prospettiva dello spirito evangelico e di povertà, sia sufficiente al loro decoroso sostentamento e ne salvaguardi l’indispensabile libertà apostolica, ed inoltre consenta loro in qualche modo di aiutare direttamente i poveri. b) All’intera comunità diocesana, non escluse le varie istituzione ecclesiastiche e gli stessi chierici, il Vescovo ricorda il dovere che tutti hanno di sovvenire a questa necessità. c) Infine il Vescovo favorisce nei presbiteri lo spirito di solidarietà fraterna mediante opportune iniziative, quali sono le società di mutua assistenza, le casse di prestito a basso interesse, e soprattutto l’istituzione di un fondo comune con cui provvedere ai diritti e alle necessità del clero e delle persone addette al servizio della Chiesa» (EV IV, n. 2118).
20 Per le fonti e la storia redazione di questo canone vedi la precisa e puntuale ricostruzione di P.G. Marcuzzi, «Il sostentamento», 38-63.
21 Già si è visto come i documenti conciliari (PO 20 e 21; CD 28) e postconciliari (ES 8) abbiano preso posizione sulla materia. Così come, durante i lavori della Commissione per la revisione del Codice la linea generalmente seguita fu quella di sopprimere i benefici, per quanto, in sede di Plenaria, si preferì parlare di «regimen moderari» più che di «suppressionem», ma questo per motivi dichiarati d’opportunità pratica (cfr. Communicationes 12 [1980] 412; Communicationes 15 [1984] 31). In ogni caso basterebbe vedere come il Codex Iuris Canonici 1983 dedichi un solo canone alla materia, appunto il 1272, rispetto agli 80 canoni del Codex Iuris Canonici 1917, per capire quale sia l’orientamento preferito dal Codice.
22 «Aunque el texto no lo dice expresamente, es obvio que no podrán constituirse nuevos beneficios, pues el c. 1272 es la norma que pretende regular transitoriamente la progresiva supresión del sistema beneficial» (D. Tirapu, «Comentario al c. 1272», 103). Dopo aver osservato come la situazione transitoria posta dall’esistenza di numerosi benefici ecclesiastici vada affrontata con prudenza, M. López Alarcón segnala come «questo nuovo regime riguarda soltanto i benefici propriamente detti, che devono essere valutati muovendo dal fatto che la dote, o sostanza patrimoniale del beneficio, era in origine costituita da beni stabili, in conformità al regime feudale della proprietà. Il c. 1410 del CIC 17 estese impropriamente il contenuto della dote beneficiaria a prestazioni certe e dovute da una famiglia o persona morale, offerte certe e volontarie dei fedeli, diritti di stola e distribuzioni corali, volendo mantenere la figura del beneficio ecclesiastico quando già era decaduto come conseguenza dell’espropriazione. Attualmente, si possono considerare benefici propriamente detti quelli che sono costituiti con capitale fisso, immobiliare o mobiliare, sufficiente e stabile per provvedere con le sue rendite al sostentamento dei chierici o per completarlo; e bisogna ritenere che sono benefici impropri tutti gli altri elencati dal c. 1410 del CIC 17, i quali non sono ritenuti benefici, ma entrate economiche disinteressate, che devono incrementare il fondo diocesano di sostentamento, tranne che non si provveda in altro modo per soddisfare le esplicite rimunerazioni, conformemente a quanto disposto dal c. 1274 § 1» (M. López Alarcón, «I beni temporali», 898-899. Sulla stessa linea interpretativa si veda J.-P. Schouppe, Elementi, 127).
23 Il rimando alla S. Sede è legato probabilmente al fatto che tale materia è generalmente oggetto di Concordati stipulati con gli Stati. Dunque la riforma viene affidata alla Conferenza episcopale poiché si tratta di una questione che verte generalmente sull’intero territorio nazionale e dunque non può essere risolta in modo diverso da diocesi a diocesi. D’altra parte è altrettanto vero che non possono essere date disposizioni universali in materia, senza tener presente la peculiarità di ogni situazione nazionale la quale, spesso, è regolata da una lunga tradizione concordataria (cfr. L. Mistò, «I beni temporali», 388; V. De Paolis, I beni temporali, 138).
24 «Sebbene la questione sia problematica […] sembra che il beneficiato non potrà pretendere che si rispetti come diritto acquisito la continuità della sua situazione di beneficiario con beneficio propriamente detto, poiché nell’ambito del diritto pubblico non interviene il principio di irretroattività quando viene soppressa un’istituzione sostituita con un’altra diversa […] Il Concilio Vaticano II introdusse un mutamento essenziale, disponendo l’abbandono del sistema beneficiale, l’attribuzione all’ufficio ecclesiastico dell’incarico principale e lasciando in una situazione subordinata il modo di remunerazione dei titolari alla quale si avrà diritto pro officio e non pro beneficio» (M. López Alarcón, «I beni temporali», 899-900). «Nonetheless, because of the danger of the stress on income and principal becoming dominant and because more equitable remuneration for all clergy was deemed desiderable, the Second Vatican Council directed that the “so – called system of beneficies” be abandoned or reformed so that the right to revenues would be viewed as clearly secondary, and the ecclesiastical office itself would receive primary emphasis» (J.J. Meyers, «The Temporal Goods», 870).
25 Cfr. V. De Paolis, «Il sostentamento», 588-589. «Ad ogni modo, l’inserimento della dote nell’istituto diocesano può essere fatto con permanenza del beneficio, quando l’istituto assume l’adempimento degli obblighi beneficiali e, concretamente, quello della rimunerazione del chierico titolare, sia che l’inserimento venga fatto come amministrazione indipendente, oppure venga integrata senza possibilità di separazione. L’inserimento potrà essere fatto una sola volta, o in modo graduale, purché l’istituto diocesano si assuma gli incarichi in proporzione alla quantità e al genere dei beni trasferiti. L’investitura potrà implicare la modifica del beneficio, sia per estinzione degli obblighi o riduzione degli stessi, sia per adeguamento delle rendite di sostentamento alle necessità del beneficiario» (M. López Alarcón, «I beni temporali», 899).
26 In Italia, in base alle norme sugli enti e beni ecclesiastici del 3 giugno 1985 (artt. 21-24; 27-28), i benefici sono stati estinti ed il patrimonio proveniente da essi è stato trasferito agli istituti diocesani o interdiocesani per il sostentamento del clero (cfr. AAS 77 [1985] 554-555; 556-557; ECEI III, nn. 3145-3148; 3151-3152).
27 Importante è segnalare come: «en relación con el carácter diocesano del mismo, es de destacar que tiene una fundamentación teológica y jurídica más profunda que la de una mera cuestión organizativa: la vinculación ministerial del presbítero con la diócesis y su cooperación en la tarea pastoral del Obispo» (Z. Combalía, «Comentarios a los cc. 1274-1275», 111).
28 «L’istituto è persona giuridica pubblica […] oppure è una «fundatio autonoma» […] trattandosi di un Istituto che fa parte della struttura della Chiesa e, dato che il c. 1274 si esprime in modo impersonale («habeatur»), la personalità giuridica sembra data all’Istituto ex ipso iuris praescripto e non dal Decreto del Vescovo, colla conseguenza che “erigere” sarà un prerequisito, ma non equivarrà a “personalitatem donare”» (P. Palazzini, «La aequa remuneratio», 16). Di diverso parere P.G. Marcuzzi che, dopo aver presentato diverse posizioni sul tema, osserva: «A nostro avviso, nella normativa codiciale non viene esplicitata la personalità giuridica a iure dell’istituto diocesano per il sostentamento del clero. Il fatto che ci siano gli elementi costitutivi materiali non è sufficiente per concludere che esso abbia personalità giuridica per il diritto stesso, se il medesimo diritto non lo stabilisce espressamente. Basti pensare al can. 1303: le pie fondazioni autonome devono essere erette in persona giuridica per essere tali, altrimenti rimangono semplicemente pie fondazioni non autonome. Altrettanto avviene per l’istituto diocesano […] : può essere eretto in persona giuridica e allora diviene tale; ma può anche essere costituito come una pia fondazione non autonoma, unito alla persona giuridica pubblica della diocesi» (P.G. Marcuzzi, «Il sostentamento», 68-70). Per De Paolis: «Esso può o no essere eretto in persona giuridica. Se lo è, riveste la natura di universitas rerum e precisamente di fondazione autonoma» (V. De Paolis, I beni temporali, 173).
29 Cfr. M. López Alarcón, «Commento al c. 1274», 901.
30 Cfr. L. Mistò, «I beni temporali», 392-393; P. Palazzini, «La aequa remuneratio», 16; P.G. Marcuzzi, «Il sostentamento», 64; V. De Paolis, I beni temporali, 139.
31 Cfr. V. De Paolis, «Il sistema beneficiale», 31.
32 Cfr. P.G. Marcuzzi, «Il sostentamento», 64. L’aver affidato al Vescovo l’erezione di questi istituti, così come la loro regolazione, non esclude l’intervento delle Conferenze episcopali in materia. Intervento, tra l’altro, auspicabile per una maggiore «uniformidad y operatividad práctica, así como de evitar las excesivas diferencias económicas en la remuneración de los sacerdotes del mismo territorio. Tan evidente es esta cuestión que las diócesis de Italia y de España, al poner en practica esta institución, han acudido a sus respectivas Conferencias Episcopales» (F.R. Aznar Gil, «El fondo diocesano», 629).
33 «L’estensione del termine “diocesi” a ogni Chiesa particolare potrebbe causare notevoli difficoltà nell’attuazione del disposto, dal momento che ben diversa è la situazione delle Chiese particolari con una struttura economica solida da quella delle Chiese missionarie […] anche in vista di questo fatto il Legislatore ha previsto l’eccezione: “nisi aliter […]”; il sostentamento del clero in questi casi potrebbe provenire da un contributo diretto della S. Sede […] da un eventuale intervento dello Stato […]» (cfr. P.G. Marcuzzi, «Il sostentamento», 64-65).
34 «Si tratta di un suggerimento. L’efficacia di tali istituti di fronte alla legge civile può dare maggiori garanzie di sicurezza e stabilità. Tuttavia non sempre è possibile, sia da un punto di vista strettamente giuridico, sia da un punto di vista di opportunità […]. La norma denota una mentalità positiva nei confronti della legge civile» (V. De Paolis, I beni temporali, 175-176).
35 Aznar Gill così riassume le fonti del patrimonio di tali istituti indicate dal Codice: «las aportaciones de los fieles con esta finalidad sean éstas espontáneas (c. 1261, § 1); sean solicitadas (c. 1262); la fijación de un tributo ordinario o extraordinario (c. 1263); las colectas especificas (c. 1266); las pías voluntades realizadas en favor de este instituto (c. 1301); los bienes de las fundaciones pías no autónomas confiados a una persona pública diocesana una vez pasado el plazo de su constitución (c. 1303, § 2); los bienes beneficiales (c. 1272); los estipendios percibidos por misas binadas (c. 951, § 1); las oblaciones entregadas con ocasión de la administración de los sacramentos y sacramentales (c. 1264, 2°); etc.» (F.R. Aznar Gil, «El fondo diocesano», 630; cfr. P. Palazzini, «La aequa remuneratio», 16; M. López Alarcón, «I beni temporali», 901). Alla richiesta di un Padre di far convogliare anche le offerte date dai fedeli in occasione dei sacramenti e dei sacramentali in questo istituto, la risposta della Segreteria della Commissione fu che la questione doveva essere decisa a livello di diritto particolare (cfr. Communicationes 15 [1984] 31).
36 Cfr. M. López Alarcón, «Commento al c. 1274», 901.
37 Si vedano anche le disposizioni di ES I, 8 e del c. 281 § 2.
38 Riportando alcune posizioni osserva Z. Combalìa: «A juicio de Martín de Agar, la mención de la Conferencia Episcopal come encargada de cuidar de la seguridad social del clero, no implica necesariamente que se le atribuya competencia general sobre la materia […] En todo caso, destaca este autor que la atención a los clérigos en el supuesto de enfermedad, etc., es una prolungación del deber de velar por su congrua remuneración que recae directa e inmediatamente sobre la diócesis, a la cual pueden ellos siempre dirigirse para pedirla». Così, cita sempre il nostro Autore, «aunque en México existe una institución oficial de la Conferencia Episcopal por la seguridad social del clero, se declara expresamente que “lo anterior no cubre toda la responsabilidad que cada Ordinario tiene de cumplimentar la Seguridad social de su clero”» (Z. Combalía, «Comentarios a los cc. 1274-1275», 112-113).
39 Cfr. V. De Paolis, I beni temporali, 174-175.
40 Cfr. M. López Alarcón, «Commento al c. 1274», 901; Z. Combalía: «A diferencia de las dos instituciones anteriores, ésta no se presenta como una persona jurídica de base patrimonial, sino simplemente como fondo» (Z. Combalía, «Comentarios a los cc. 1274-1275», 113). La proposta fatta, in sede di redazione del canone, di unificare l’istituto per il sostentamento del clero di cui al § 1 con questa «massa communis» del § 3, «ita ut unum atque idem institutum provideat sive sustentationi clericorum sive obligationibus erga alias personas Ecclesiae deservientes», venne respinta dai Consultori «quia mens Concilii Vat. II videtur esse ut duo illa instituta distincta maneant. Quod opportunum quidem est, nam in quibusdam dioecesibus iam provisum est per aliquod institutum vel alio modo sustentationi clericorum, et ideo constitui ibi debet tantum alia massa de qua in § 3» (Communicationes, 12 [1980] 408-409). Per Aznar Gil «al c. 1274 no obliga taxativamente a que se erijan las tres instituciones allí previstas, sino que, garantizado el cumplimiento de su fin, deja su acomodación a las circunstancias de cada diócesis. En mi opinión, vistos los antecedentes de la norma […] no se prohíbe, como tampoco se impone obligatoriamente, la constitución de una única masa o fondo común de bienes diocesanos con el que se cumplirían más fácilmente las finalidades allí previstas» (F.R. Aznar Gil, La administración, 320).
41 Cfr. V. De Paolis, I beni temporali, 175.
42 Il c. 531, per esempio, parla di una cassa parrocchiale (cfr. L. Chiappetta, Il Codice, II, 539).
43 Cfr. Z. Combalía, «Comentarios a los cc. 1274-1275», 114; M. López Alarcón, «I beni temporali», 902-903; V. De Paolis, I beni temporali, 175.
44 Cfr. Z. Combalía, «Comentarios a los cc. 1274-1275», 115. Il fatto che nello Schema del 1977 si affermasse che «massa bonorum […] administrantur secundum normas a Conferentia Episcopali legitime statutas» (Communicationes 12 [1980] 413), mentre nella redazione finale del canone si parla di norme emanate dai Vescovi interessati, va letto, probabilmente, nella linea di non sminuire i diritti dei Vescovi di reggere come pastori immediati e ordinari le Chiese a loro affidate. «È logico che l’amministrazione del patrimonio interdiocesano sia retto dalle norme concordate dai Vescovi interessati, ma non sembra che sia necessaria l’approvazione della Conferenza episcopale» (M. López Alarcón, «I beni temporali», 903).