Raffronto del sistema in ambito europeo
L’ultimo capitolo della nostra tesi è dedicato all’analisi delle soluzioni concrete proposte ed attuate in ambito europeo, sia in campo ecclesiale, sia per quanto concerne i rapporti, al riguardo, tra Chiesa e Stato.
Evidentemente si tratta di un panorama ampio e complesso, difficilmente riassumibile in pochi tratti.
Pur nella molteplicità delle soluzioni adottate, una panoramica generale consente di affermare che nei Paesi che appartengono all’Unione Europea, salvo alcune eccezioni, il sostegno alle confessioni religiose è ritenuto un dovere dello Stato nei confronti dei propri cittadini. Ciò non significa necessariamente un finanziamento statale diretto alle varie Chiese, per altro esplicitamente proibito in diversi Paesi (Inghilterra, Olanda, Francia, Portogallo, Irlanda), nei quali le Chiese affrontano le proprie esigenze economiche mediante le offerte dei fedeli e con i proventi del patrimonio ecclesiastico che, peraltro, si è consistentemente ridotto a causa delle ben note vicende, legate alla confisca dei beni ecclesiastici, che tra il XVII e il XVIII sec. interessarono molti Paesi europei.
Ciò non significa che la Chiesa non possa pretendere legittimamente delle forme corrette di relazione con lo Stato che, a partire dal riconoscimento del valore etico e sociale della sua presenza, si traducano anche in un sostegno di carattere economico. La mancanza di finanziamenti diretti non esclude che in questi Paesi vi siano per le confessioni religiose agevolazioni di ordine fiscale; il Concordato Portoghese, ad esempio, prevede un’esenzione dal pagamento di tutte le imposte generali e locali per la Chiesa cattolica ed i suoi ecclesiastici.
Dal punto di vista teorico, non poco problematico appare il rapporto tra lo Stato e la Chiesa laddove esistono regolari finanziamenti da parte dello Stato ad una o più confessioni religiose.
In Grecia, tutti gli stipendi e le pensioni dei ministri di culto della Chiesa ortodossa sono a carico dello Stato, ed anche la Chiesa luterana danese riceve consistenti sovvenzioni pubbliche. In Belgio, in Lussemburgo ed in Finlandia il bilancio generale dello Stato prevede specificatamente la destinazione annuale di contributi economici ad una pluralità di confessioni religiose.
Ci si può chiedere se la libertas Ecclesiae sia garantita a sufficienza laddove il clero è stipendiato dallo Stato e soprattutto quando, come in Grecia ed in Danimarca, i finanziamenti siano concessi esclusivamente a favore di una sola confessione religiosa.
Esiste infatti il pericolo che le relazioni tra la sfera del potere civile e quella dell’autorità religiosa si configurino secondo una logica di privilegi e di concessioni, che fa venir meno il reciproco e necessario rispetto della sovranità e dell’indipendenza della Chiesa e dello Stato. Comunque il problema non riguarda direttamente la Chiesa Cattolica.
Inoltre in tal modo, e forse in maniera non sempre rispettosa della libertà religiosa, tutti i cittadini, compresi i non credenti, sono indirettamente tenuti a contribuire al sostentamento delle confessioni religiose, senza poter esprimere una scelta diversa.
Nel caso del modello partecipativo, invece, sono principalmente i fedeli a fornire i mezzi economici per sovvenire alle necessità della Chiesa.
In termini generali si può affermare che, con questa impostazione, il finanziamento si realizza mediante la collaborazione dello Stato, ma in base alla libera volontà dei fedeli.
Occorre però distinguere le situazioni: in alcuni paesi come la Germania, l’Austria e la Svezia, la contribuzione dei fedeli ai bisogni della propria confessione religiosa è volontaria ma obbligatoria, nel senso che lo Stato ha istituito per legge una tassa ecclesiastica configurandola come una sovraimposta proporzionale al reddito.
In forza dell’appartenenza confessionale, ciascun cittadino che non dichiari espressamente una volontà contraria è tenuto a pagare l’imposta e, in caso di mancato pagamento, alle autorità ecclesiastiche è riconosciuto il diritto di fare ricorso agli organi dello Stato per esigere il versamento coattivo.
In ogni caso, il cittadino può sempre revocare la propria appartenenza ecclesiale rendendo un’apposita dichiarazione davanti a un funzionario statale e da quel momento non è più tenuto al pagamento dell’imposta.
In questo modello di autofinanziamento si possono inquadrare anche le soluzioni adottate dall’Italia e dalla Spagna che si contraddistinguono per una certa originalità, visto che, diversamente dal sistema imperniato sulla tassa ecclesiastica, non implicano un esborso supplementare per il cittadino, ma bensì si fondano sulla scelta, che tutti i contribuenti possono effettuare, di devolvere alla Chiesa una quota delle imposte versate allo Stato.
Si sottolinea che, con questo modello di finanziamento, viene dato maggior risalto alla corresponsabilità dei fedeli a cui viene chiesto di sostenere direttamente la propria Chiesa; lo Stato per parte sua non richiede dichiarazioni di appartenenza e favorisce la liberalità di qualsiasi contribuente, anche se non credente.
7. Il sostentamento del clero in Italia
Circa la situazione italiana, in particolare, si devono tener presenti due testi fondamentali: la legge di revisione degli accordi concordatari tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana (legge 20.5.1985, n. 222: Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi, entrata in vigore il I.1.1989 e, il Testo unico delle disposizioni di attuazione delle norme relative al sostentamento del clero che svolge servizio in favore delle diocesi emanato dalla Conferenza Episcopale Italiana (delibera n. 58).
Brevemente possiamo dire che in Italia è stato realizzato un sistema di autofinanziamento della Chiesa agevolato dallo Stato attraverso due canali concreti: la destinazione dell’otto per mille del gettito complessivo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e la deducibilità dal reddito imponibile per le persone fisiche delle offerte devolute a favore dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero.
All’articolo 24 della legge 222/85 si delineano i tratti principali e caratteristici del sistema italiano, dove un ruolo fondamentale spetta all’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero (I.D.S.C.) che «provvede in conformità allo statuto ad assicurare nella misura periodicamente predeterminata dalla Conferenza Episcopale Italiana il congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore della diocesi». Si tratta però di un ruolo solo sussidiario perché, al comma 3, la remunerazione viene poi espressamente definita come un diritto spettante a tutti i sacerdoti che esercitano il ministero in favore della diocesi, erogata in primis dagli enti ove essi esercitano il proprio ministero. La medesima norma infine riconosce la necessaria autonomia della Chiesa, attribuendo alla Conferenza Episcopale Italiana il potere di quantificare l’entità della remunerazione.
La responsabilità primaria del sostentamento dei sacerdoti spetta pertanto alla Chiesa e non allo Stato e, nella Chiesa, è demandata principalmente alle comunità cristiane o agli enti ecclesiastici presso i quali i sacerdoti esercitano il ministero.
I criteri per la determinazione della remunerazione dovuta da tali enti sono stabiliti dall’articolo 4 del citato Testo Unico della C.E.I.
Nel caso della parrocchia, l’ente è tenuto ad assicurare al parroco una somma mensile pari al prodotto di una quota capitaria fissata dalla C.E.I. per il numero degli abitanti della circoscrizione parrocchiale; al vicario parrocchiale tocca una somma pari al 50% ovvero, qualora egli goda di altri redditi computabili, una somma pari al 25% della remunerazione dovuta al parroco.
Se la parrocchia, per restare all’esempio citato, non è in grado di provvedere completamente al sostentamento del sacerdote, secondo i criteri e la misura stabiliti dalla C.E.I., è previsto l’intervento dell’I.D.S.C., che integra la remunerazione con i redditi del proprio patrimonio, costituito principalmente da beni ex-beneficiali.
Infatti ex articolo 28 l. 222/85, con il decreto di erezione di ciascun Istituto diocesano, si sono estinti contestualmente la mensa vescovile ed i benefici capitolari, parrocchiali, vicariali curati o comunque denominati esistenti in diocesi, e ne sono stati trasferiti i patrimoni all’Istituto stesso, il quale è succeduto ai benefici estinti in tutti i rapporti attivi e passivi.
L’I.D.S.C. è tenuto a provvedere soltanto ai sacerdoti che svolgono effettivamente un ministero, mentre per coloro che sono «quiescenti» per anzianità o infermità è stato realizzato un sistema di previdenza.
Se la misura della remunerazione raggiunta con l’integrazione liquidata dall’I.D.S.C. non è ancora sufficiente, l’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero – secondo il suo fine istituzionale prioritario – eroga agli Istituti diocesani le risorse necessarie fino al livello fissato dalla C.E.I., utilizzando le somme ricavate dal proprio patrimonio stabile e dai mezzi di finanziamento provenienti dalle offerte deducibili e dalla quota dell’otto per mille Irpef.
8. Considerazione finale
Il cammino della nostra ricerca ha cercato di perseguire l’intento di tratteggiare un quadro complessivo del diritto al sostentamento riservato al clero, elaborando in merito un’indagine storica e giuridica.
Si può sottolineare come il risultato di tale indagine conduca a constatare che l’obbligo della Chiesa di provvedere al sostentamento del clero, fondato sulla Sacra Scrittura, ha conosciuto, nelle modalità di attuazione, un’ampia evoluzione storica.
La coscienza della sua doverosità, perennemente viva nella Chiesa, si è tradotta in diversi istituti giuridici, in corrispondenza con il variare delle situazioni storiche, socio-economiche ed ecclesiali.
E’ emerso con chiarezza che tale sostentamento è atipico e non possiede una rappresentazione civilistica, ma rientra in un rapporto peculiare del presbitero con la propria comunità ecclesiale.
Riscoprire la radice ecclesiologica di questa tematica che, superficialmente, potrebbe essere interpretata come una mera questione di “diritto del lavoro”, è probabilmente uno dei risultati più importanti della nostra ricerca.
Ci auguriamo che lo sforzo di analisi, la scientificità del percorso ed il materiale probatorio, contribuiscano a far comprendere l’imprescindibile rinnovamento di mentalità che tale radice ecclesiologica esige dall’intera comunità ecclesiale.
La nuova disciplina, infatti, non va considerata come un fatto puramente amministrativo ma come un evento che ha segnato una radicale mutazione di percorso nel cammino del popolo di Dio, affinché non consideri più la Chiesa gerarchica come distributrice di servizi religiosi, ma si senta esso stesso responsabilmente coinvolto nell’impegno di sostentamento del clero e di tutta la Chiesa. Si tratta, ancora e sempre, di corrispondere alle istanze ecclesiologiche proposte dal Concilio Vaticano II.