La riforma tridentina
Il Concilio di Trento, all’interno della più generale volontà di riforma della vita del clero e del popolo cristiano, ribadì alcuni elementi essenziali, quali: il nesso tra l’ufficio e il beneficio e il dovere della residenza per tutti i chierici, di fronte al moltiplicarsi di situazioni nelle quali i beneficiari usavano dei redditi dei benefici non svolgendo alcun ministero.
Un’ulteriore ed importante presa di posizione di tale Concilio fu il divieto delle “ordinazioni assolute”, ossia le ordinazioni senza un titolo, per cui non potevano essere ammessi ai sacri ministeri candidati che non disponessero di adeguato sostentamento, sia di carattere beneficiale, sia per altro titolo riconosciuto e approvato.
Infine il Concilio tridentino affrontò la materia relativa alle chiese private e al diritto di patronato, limitandone fortemente la portata: ai patroni era vietato interferire nella riscossione dei frutti, dei proventi e delle entrate di qualsiasi beneficio e, per di più, al vescovo era lasciata la facoltà di respingere i candidati presentati dal patrono mancanti dei necessari requisiti di idoneità.
Dal punto di vista del pensiero canonistico si giunse a considerare il beneficio ecclesiastico come ente giuridico autonomo e sui generis, dotato di piena capacità e quindi titolare del patrimonio annesso all’ufficio. Tale fu il punto di arrivo di un lungo percorso iniziato con l’elaborazione del concetto di persona giuridica, che, assente dal pensiero giuridico romano, fu elaborato grazie all’apporto di canonisti del calibro di Sinibaldo de’Fieschi, eletto Papa col nome di Innocenzo IV.
Il riconoscimento della personalità giuridica del beneficio implicò anche una più precisa definizione della situazione soggettiva del beneficiario: se, infatti, la proprietà dei beni costituenti la dote spettava all’ente giuridico autonomo, su tali beni il beneficiario non poteva che essere titolare di diritti in re aliena.
L’usufrutto, quale diritto reale di godimento su cosa altrui, fu quindi il riferimento concettuale adottato dai canonisti dell’epoca per qualificare analogicamente l’istituto beneficiale.