Il sostentamento del clero nel Codice di Diritto Canonico del 1917

1. La codificazione ed il sostentamento del clero: considerazioni introduttive
La codificazione del 1917 fu un’operazione legislativa di particolare estensione e significato per la vita di tutta la Chiesa e per l’ordinamento canonico che era ormai così irreparabilmente gravato dalla stratificazione storica delle fonti da indurre non poche voci dell’episcopato a chiedere una reformatio iuris già all’epoca del Concilio Vaticano I.

L’applicazione della disciplina giuridica in materie tanto delicate come quella del sostentamento del clero, oggetto del presente lavoro, esigeva norme che, per ragioni di equità, fossero il più possibile tra loro uniformi oltre che facilmente individuabili. Invece, non di rado, agli interpreti accadeva di dover constatare l’oggettiva condizione di incertezza del diritto, a causa della dispersione e della pluralità delle fonti.

Si pensi, ad esempio, al marcato particolarismo giuridico esistente in quasi tutte le diocesi ove, oltre al diritto prodotto dalla Santa Sede, si doveva tener conto di un’infinità di regole e di eccezioni sancite dal diritto locale e dalle consuetudini, tanto che poteva essere assai arduo stabilire quale fosse la norma applicabile al caso concreto. Nel corso dei secoli inoltre molte disposizioni, pur essendo ancora formalmente valide, erano divenute anacronistiche o poco rispondenti alla ratio originaria1.

La soluzione della codificazione fu certo una scelta molto innovativa e discussa, che, per ampiezza ed organicità, si distaccava nettamente da ogni altro precedente intervento normativo della Sede Apostolica. In passato infatti, al di là dell’emanazione di atti normativi su singole materie, ai canonisti erano state commissionate, come rimedio, raccolte di leggi e di giurisprudenza, alle quali non fu mai dato però l’avallo ufficiale del legislatore.

All’epoca del Vaticano I, la crisi del diritto canonico era assurta a dimensioni e problematicità comparabili a quelle evidenziate in ambito laico da quei giuristi che si erano interrogati sulle sorti dello ius commune sino ad elaborare l’idea del suo superamento mediante la codificazione. Al Concilio vi fu così chi chiese la redazione di una nova collectio, che riproducesse la disciplina vigente e vi fu invece chi si pronunciò esplicitamente per la formazione di un codice2.

La stessa Prefazione al Codice del 1917, senza celarne il carattere legislativo, pare volerlo collocare in linea di continuità con le opere del passato, attribuendogli quella funzione di riordino e consolidamento delle fonti che era appartenuta alle precedenti raccolte private.

In tal senso, secondo i dettami del motu proprio di Pio X Arduum sane munus, andrebbe interpretato il lavoro della Commissione cardinalizia incaricata di approntare la codificazione, provvedendo: «ut universae Ecclesiae leges, ad haec usque tempora editae, lucido ordine digestae, in unum colligerentur, amotis inde quae abrogatae essent aut obsoletae, aliis, ubi opus fuerit, ad nostrorum temporum conditionem propius aptatis; quod idem plures in Vaticano Concilio Antistites postularunt»3.

Invero se il Codex trovava un elemento di radicale innovazione che non poteva essere messo in secondo piano, proprio nel suo carattere legislativo, bisogna parimenti riconoscere che dal punto di vista sostanziale esso mantenne i contenuti fondamentali della plurisecolare tradizione giuridica della Chiesa. La sua promulgazione da parte del Pontefice ne fece però una collezione autentica, vincolante ed unica, che andava a sostituirsi a tutte le norme in precedenza emanate, fatte salve le eccezioni previste dal Codice stesso4.

Largamente apprezzata per i motivi sopra indicati, l’opera della Commissione presieduta dal card. Gasparri non andò però esente da perplessità e da critiche, perché la si riteneva una ««imitazione» da parte della Chiesa di forme legislative proprie degli Stati ed estranee alla sua tradizione»5.

A detta di alcuni studiosi, in nome della certezza del diritto, essa accentuava, inopportunamente, la dimensione normativa e gli aspetti istituzionali della vita ecclesiale. Ciò a scapito della elasticità che da sempre aveva contraddistinto il diritto canonico, il quale, in virtù del proprio legame con la morale religiosa, non poteva essere stretto nella rigida assolutezza formale di un codice moderno, che fosse in tutto e per tutto simile a quelli adottati dagli Stati.

Nell’opinione di Ruffini il progetto era addirittura irrealizzabile, dal momento che appariva impossibile conciliare i caratteri propri della scienza canonistica con il concetto ed il metodo della codificazione6.

Altri invece, preoccupati di difendere con il Codice Pio-Benedettino anche l’autonomia della Chiesa rispetto al potere civile, ricordarono che, per la sua natura intrinsecamente sociale, il fenomeno religioso non può prescindere dal diritto. Anzi, poiché la Chiesa stessa, quale societas iuridice perfecta, costituiva un ordinamento giuridico primario, il ricorso allo strumento legislativo apparterrebbe a pieno titolo alla sua natura nonché alla sua tradizione7.

In quest’ordine di idee, l’emanazione di un codice fu innanzitutto un atto che discendeva dall’autonoma ed incondizionata sovranità normativa della Chiesa, a patto di ricordare che – parafrasando D’Avack – la potestà legislativa era legittimamente ed opportunamente esercitata nella misura in cui la forma della societas iuridica era subordinata alla sostanza della societas religiosa8.

Al di là delle complesse questioni appena richiamate, ciò che ci premeva di sottolineare era che la certezza del diritto restava uno degli obiettivi fondamentali della codificazione ed era un profilo che trovava originale espressione proprio nelle materie economiche, di cui il nostro lavoro si occupa.

Infatti, benché l’esigenza d’aver norme certe sia comune ad ogni esperienza giuridica, si converrà che essa emerge con maggiore e peculiare necessità nell’ordinamento canonico, ove le regole sul sostentamento del clero e sull’uso dei beni da parte dei chierici servono il fine di un’autentica testimonianza del Vangelo.

L’istituto beneficiale
Nel Libro terzo De rebus, il Codice dedicava specificamente alla disciplina di questi aspetti il titolo XXV De beneficiis (canoni 1409-1488), ponendo l’istituto del beneficio ecclesiastico al vertice del sistema di sostentamento. Prima però di passare al commento analitico della normativa codiciale, in sede introduttiva ci si consenta ancora qualche considerazione.

Secondo De Paolis, la conferma da parte del Codex del sistema beneficiale, come «cardine per la soluzione del problema del sostentamento del clero», era un forte richiamo alla tradizione da parte del legislatore, che in materia non ha voluto introdurre innovazioni sostanziali nonostante si sapesse bene che il beneficio «è una realtà ormai sorpassata; sopravvive solo in pochi paesi e in misura molto ridotta e comunque insufficiente alle esigenze»9.

Venuta meno gran parte della dotazione patrimoniale della Chiesa a causa delle ripetute confische e della legislazione eversiva degli Stati, il modello beneficiale veniva comunque conservato e le novità che in parte si introdussero nel Codice erano sintomaticamente considerate soltanto come deroghe ed eccezioni rispetto alla regola ordinaria (così ad es. il cosiddetto beneficio improprio di cui al canone 1410).

Proprio a questo proposito R. Naz, a partire dalla difficile situazione francese dove «le titre du bénéfice est rarement utilisé de nos jours», sottolineava più in generale come per il sostentamento del clero il Codice del 1917 avesse formalmente recepito anche altri istituti conosciuti dalla tradizione canonica quali il titulus servitii dioecesis, senza però dare ad essi il rilievo e la centralità attribuiti al titulus beneficii, che restò il principale titolo canonico per l’ordinazione dei chierici10.

E’ allora una congettura legittima immaginare che, se in un momento storico tanto sfavorevole non si rinunciò a tipizzare e proporre come prioritario il modello di articolazione territoriale fondato sull’autonomia giuridica dei benefici, forse era perché esso da sempre aveva permesso alla Chiesa di affermare la propria indipendenza ed i propri diritti nei confronti dell’autorità civile.

Ci si avvede immediatamente che – per quanto l’espressione possa risultare enfatica – il discorso sul sostentamento del clero si tramuta, per ciascuna epoca considerata, in una specie di verifica delle condizioni effettive della libertas Ecclesiae. In tale prospettiva può ben dirsi che la normativa codiciale del 1917 intendeva andar oltre la conferma e la riorganizzazione del sistema beneficiale per collocarsi consapevolmente e dialetticamente nel contesto europeo della politica antiecclesiastica di gran parte degli Stati nazionali.

Comments are closed.