Il diritto al sostentamento: il titulus ordinationis
Condizione per l’ordinazione era l’esistenza di un titolo per il sostentamento dell’ordinando. Il canone 974, che enumerava i requisiti «ut quis licite ordinari possit», includeva infatti fra di essi il titulus canonicus, «si agatur de ordinibus maioribus» (erano ordini maggiori: il presbiterato, il diaconato ed il suddiaconato).
Con l’espressione «titolo di ordinazione», in diritto canonico, s’intendeva la garanzia di un reddito vitalizio sufficiente per il decoroso sostentamento dell’ordinando, senza la quale il vescovo non poteva procedere all’ordinazione.
L’origine storica di tale norma stava nel divieto delle ordinazioni sine titulo che fu formalmente sancito dal Concilio di Calcedonia nel 451. Nel canone 6 delle disposizioni conciliari veniva dichiarata nulla l’ordinazione e, in pari tempo, si decretava che non potesse essere ordinato un ecclesiastico, allorché non gli fosse stato affidato un ufficio stabile (titulus) in una determinata chiesa45.
Oggetto della prescrizione era la prassi assai frequente di ordinare dei chierici senza accertare che ve ne fosse o meno la necessità per una determinata chiesa, cosicché essi, per provvedere ai loro più elementari bisogni, si vedevano non di rado costretti all’esercizio di attività e professioni non rispettose del sacramento che avevano ricevuto.
Invero, la disposizione del Concilio di Calcedonia non ebbe una larga e costante applicazione ed in numerosi periodi della storia della Chiesa vi furono pronunciamenti contro le ordinazioni assolute (sine titulo) ed i loro perniciosi effetti sulla vita del clero46.
Lo stesso Concilio di Trento, nel confermare il predetto divieto, richiamò come segue la questione dei chierici vagabondi:
cum non deceat, eos, qui divino ministerio adscripti sunt, cum ordinis dedecore mendicare aut sordidum aliquem quaestum exercere […] statuit sancta synodus, ne quis deinceps clericus saecularis, quamvis alias sit idoneus moribus, scientia et aetate, ad sacros ordines promoveatur, nisi prius legitime constet, eum beneficium ecclesiasticum, quod sibi ad victum honeste sufficiat, pacifice possidere47.
Accanto a tale proibizione si collocava con la medesima ratio anche l’obbligatorietà dell’istituto dell’incardinazione, che consisteva nell’iscrizione di un chierico ad una diocesi o ad un ordine religioso al momento dell’ordinazione48.
Sebbene si riconosca che la ragion d’essere dell’incardinazione non si esaurisce nell’ambito del sostentamento, non si può negare che essa fu uno dei principali strumenti attraverso cui il sistema beneficiale e, con esso, il titolo canonico, divennero le basi del modello di organizzazione della Chiesa.
Sin dall’età altomedievale, il titulus beneficii fu considerato infatti il titolo canonico per eccellenza, a cui si doveva fare ordinariamente ricorso per provvedere al sostentamento del clero.
Solo in mancanza di benefici disponibili e pertanto in via sussidiaria, si riconosceva l’ammissibilità di altri tituli ordinationis. In questo senso, codificando una prassi antecedente, si pronunciò per la prima volta nel 1179 il Concilio Lateranense III. Concepito come un’eccezione alla sanzione prevista per la violazione del divieto di ordinazioni assolute da parte del vescovo, con il canone 5, si istituì infatti il titulus patrimonii riconoscendo come valido titolo di sostentamento l’esistenza di un congruo complesso di beni appartenenti all’ordinando stesso ovvero destinati da un terzo al suo mantenimento vita natural durante. Solo se l’ordinato disponeva di un proprio patrimonio, il Vescovo che l’aveva ordinato sine titulo era esentato dall’obbligo di garantirne il sostentamento con i beni della diocesi49.
Per svariate ragioni l’eccezione divenne ben presto la regola ed il Concilio di Trento intervenne proprio con l’intento di «riportare il titulus beneficii alla sua posizione di titolo normale per l’ordinazione ed il titulus patrimonii a quella di titolo sussidiario, da darsi eccezionalmente, allorché mancasse la possibilità di un titulus beneficii»50.
Il Concilio di Trento dettò infatti la completa e definitiva disciplina del titulus patrimonii, statuendo l’inalienabilità del patrimonio sacro; nel medesimo canone recepì anche il titulus pensionis (cioè una rendita fissa costituita a favore dell’ordinando con beni privati dello stesso o di un terzo ovvero con beni ecclesiastici), fissando per entrambi i titoli severe limitazioni. Il Vescovo poteva ordinare coloro che avessero un patrimonio o una pensione solo dopo aver verificato che fossero necessari e utili per le chiese della sua diocesi51.
Non venendo sempre rispettato l’obbligo dell’incardinazione, il ricorso agli altri titoli canonici (patrimonio e pensione), che non consentivano di fissare uno stretto legame territoriale tra l’officium esercitato e la fonte del sostentamento, lasciava al chierico la possibilità di sottrarsi all’autorità del Vescovo, con notevoli inconvenienti per la vita della Chiesa. Di duplice e controverso rilievo, la questione delle ordinazioni sine titulo poneva dunque delicati problemi non solo in merito alle sperequazioni tra il clero in condizioni di agiatezza ed un clero più povero e proveniente dai ceti meno abbienti, ma comportava anche forti squilibri per l’ordine e la stabilità delle diocesi.
Messo davanti da un lato alla complessa disputa sulla residenzialità del titolare dell’ufficio con cura d’anime e dall’altro all’insufficienza dei benefici ed alla impraticabilità oggettiva di una soluzione univoca, il Concilio di Trento non poté abolire del tutto questi titoli sussidiari, che pure erano fonte di gravi disordini.
Anche per tali motivi il canone 979, in accordo con l’orientamento tradizionale, esprimeva una netta preferenza per il titulus beneficii e può dirsi che in questa scelta stia la chiave di volta del sistema di sostentamento voluto dal legislatore del 1917. Disponeva infatti la norma che: pro clericis saecularibus titulus canonicus est titulus beneficii, eoque deficiente, patrimonii aut pensionis52.
Titolo ordinario per il clero secolare, il beneficio veniva qui considerato quasi come un diritto dell’ordinando garantito dal corrispondente obbligo del Vescovo di assicurare al chierico tale forma di sostentamento o, in mancanza di esso, di curare a pena di sanzioni che il patrimonio o la pensione fossero sufficienti allo scopo53.
Al § 2 il canone 979 precisava che, in ogni caso, «hic titulus debet esse et vere securus pro tota ordinati vita et vere sufficiens ad congruam eiusdem sustentationem»; la determinazione di quanto concretamente basti al dignitoso sostentamento del clero avveniva in ogni diocesi a discrezione dei Vescovi «secundum normas ab Ordinariis pro diversis locorum et temporum necessitatibus et adiunctis» (canone 979 § 2).
Il canone 980 introduceva delle norme di garanzia in favore del singolo chierico, il quale però non godeva di un diritto a ricevere dal Vescovo una determinata somma – come potrebbe immaginare chi volesse far ricorso ad ulteriori schemi privatistici, ma poteva legittimamente contare sulla preoccupazione dell’Ordinario per il suo sostentamento e perché questi intervenisse in caso di necessità. Se l’ordinato in sacris perdeva il titolo, doveva procurarsene un altro, a meno che il Vescovo lo ritenesse diversamente provveduto di mezzi per il sostentamento.
Diverso era il caso in cui le norme sul titolo canonico non fossero state osservate, perché allora era il Vescovo che avesse ordinato un sacerdote sfornito di titolo ad esser tenuto a provvedere al suo sostentamento e tale obbligo si trasmetteva anche ai successori del Vescovo, fino a che non si fosse provveduto diversamente (cfr. canone 980 § 2); tale responsabilità per gli alimenti non poteva essere esclusa con un patto tra il Vescovo e l’ordinando, patto per cui il § 3 del canone 980 prevedeva la nullità trattandosi di simonia.
Qualora non fosse stato possibile valersi del titulus beneficii, patrimonii o pensionis – e soltanto in questo caso – il canone 981 prevedeva quali titoli suppletivi: il titulus servitii dioecesis ed il titulus missionis. In entrambe le fattispecie, l’ordinando prestava un giuramento che lo vincolava «perpetuo dioecesis aut missionis servitio, sub Ordinari loci pro tempore auctoritate» (canone 981 § 1).
L’impegno, così assunto, a dedicarsi in perpetuo al servizio della diocesi o della missione (nei territori soggetti alla competenza della Sacra Congregazione De propaganda fide), faceva sorgere nell’ordinando il diritto a ricevere dall’ordinante adeguati mezzi di sostentamento (cfr. canone 981 § 2)54.
Sorti in epoca relativamente recente, entrambi questi titoli erano nati per meglio rispondere alle esigenze dei tempi e sopperire alla mancanza di un adeguato patrimonio ecclesiastico; quest’ultima osservazione è evidente per le terre di missione ove la presenza della Chiesa costituiva una novità non ancora ben radicata55; bisogna però rimarcare come per l’inserimento nel Codice del titulus servitii dioecesis influirono certamente le vicende tutte europee della nazionalizzazione dei beni ecclesiastici.
Il canone 982 disciplinava il titolo d’ordinazione per il clero regolare, che era costituito dalla «sollemnis religiosa professio seu titulus, ut dicitur, paupertatis». Se il voto di povertà era un voto semplice e perpetuo, il titolo assumeva il nome di titulus mensae communis o Congregationis o altri di specie analoga, secondo le costituzioni dell’ordine religioso o della Congregazione di appartenenza.
La necessità dell’esistenza di un titolo canonico per l’ordinazione dei religiosi fu introdotta nel 1568 da Pio V con la costituzione Romanus Pontifex, per evitare che, come avveniva in assenza di tale obbligo, attraverso l’ingresso nel clero regolare ed il successivo abbandono della vita conventuale, fosse eluso il divieto delle ordinazioni assolute. Pertanto, dopo l’ordinazione, per i religiosi può dirsi, in genere, che il sostentamento venisse assicurato dalla stessa appartenenza all’Ordine religioso.