Mutamenti: necessità di un nuovo sistema remunerativo per il clero

Come è noto e come si vedrà in dettaglio nei capitoli successivi, la Chiesa, con il Concilio Vaticano II, ha maturato la scelta di riformare a fondo l’istituto beneficiale per restituirlo alla sua ratio originaria, basata sulla priorità dell’elemento spirituale rispetto al patrimonio di cui è dotato l’officium. Adombrando però l’eventualità che una tale riforma fosse giudicata strutturalmente impossibile o non avesse potuto consentire il recupero di tale equilibrio, il Concilio prefigurò anche l’ipotesi del definitivo abbandono del sistema in favore di nuove forme di sostentamento del clero.

Senza voler giustificare retrospettivamente, ad ogni costo, l’orientamento espresso dal Concilio, ci pare utile, in questa sede, anticiparne le ragioni, attraverso una rassegna delle incongruenze che – ancor prima della codificazione del 1917 – si erano manifestate nell’applicazione del sistema beneficiale.

Tutti gli studi in argomento rilevano infatti quale punto nodale della crisi del beneficio quello che potremmo definire il suo «snaturamento». Per una sorta di eterogenesi dei fini, a comune giudizio degli storici e dei canonisti, è avvenuto nella prassi che l’aspetto patrimoniale della dote fosse per molte ragioni preminente e condizionasse in concreto l’esercizio dell’officium, pur essendo stato concepito in origine come secondario e assolutamente strumentale rispetto all’ufficio medesimo56.

Nell’indagare le cause di tale «deriva» si sono prospettate motivazioni d’ordine storico, economico e giuridico, ma spesso, a nostro avviso, è mancata la consapevolezza che i cosiddetti difetti del beneficium fossero in realtà elementi strutturali di fattispecie, ai quali non si potesse rinunciare, se non a patto di abbandonare in toto quella figura giuridica, come del resto poi è stato fatto. Così, ad esempio, ad alcuni è parso che la configurazione dello ius percipiendi, come diritto soggettivo esclusivamente spettante al titolare dell’ufficio, impedisse una redistribuzione dei redditi del patrimonio ecclesiastico, parcellizzato in infiniti enti autonomi tra loro non comunicanti.

Ci si avvede che questo primo rilievo investe nel complesso la logica del sistema beneficiale e conduce inesorabilmente al suo ripudio, senza lasciar spazio ad illusorie ipotesi di aggiustamento o di riforma. É infatti assai difficile perseguire, a parità di condizioni, l’obiettivo della eguale retribuzione per i presbiteri facendo ricorso ad una serie di masse patrimoniali territorialmente distribuite e difformi. Ciascun beneficio produceva redditi assai diversi per misura e tipologia e, solo con grandi forzature, era immaginabile una parificazione che lasciasse inalterati i principi cardine del sistema.

In più, essendo la costituzione della dote assolutamente indipendente dalle esigenze di ordine pastorale, perché stabilmente assegnata ad una autonoma persona giuridica, poteva accadere che si verificassero delle inique sperequazioni tra chi non avendo gravi necessità disponeva comunque di un cospicuo patrimonio e chi dovendo far fronte ad ampi bisogni era sprovvisto dell’indispensabile, proprio a motivo della disparità tra i benefici o tra i titoli di ordinazione57. Ciò era ragione di scandalo tra i fedeli e di discredito per la Chiesa, che aveva ministri in condizione di agiatezza ed altri costretti al limite della sopravvivenza. Si consideri inoltre che per i Vescovi era molto difficoltoso determinare in concreto l’entità dei mezzi a disposizione di ogni singolo presbitero (redditi beneficiali, congrua, offerte dei fedeli, iura stolae, altre remunerazioni per lavoro subordinato, ecc…).

Sempre dal punto di vista pastorale, la Conferenza Episcopale Italiana, in epoca successiva al Concilio, nella Lettera informativa inviata a tutti i sacerdoti italiani il 6 gennaio 1987, ha spiegato che il sistema benefici-congrue «aveva favorito tra il clero una concezione «autarchica» del ministero pastorale parrocchiale, perché la struttura e la concezione frazionata ed autonoma del patrimonio beneficiale faceva perdere di vista la sua fondamentale unità e il riferimento al Vescovo e alla chiesa diocesana»58.

Esistevano – è pur vero – vincoli gerarchici, ma, non di rado, soprattutto in epoche più remote, alcuni parroci disponevano di veri e propri feudi e non a caso è avvenuto che la dottrina canonistica abbia equiparato i diritti del beneficiario a quelli del vassallo.

Quando poi – come nella maggior parte dei casi – il reddito del beneficio fosse stato insufficiente e inadeguato ad honestam sustentationem del titolare, il clero si trovava ad essere meno indipendente e più facilmente esposto all’influenza di vari potentati.

In Italia, ad esempio, l’istituto del supplemento di congrua erogato in forma integrativa dallo Stato, quale forma di riparazione per la confisca del patrimonio ecclesiastico, era venuto a trasformarsi in una specie di stipendio statale. Assai opportunamente Colombo ha parlato in proposito di «tendenziale assimilazione del ministero presbiterale al pubblico impiego»59.

Si aggiunga che la dipendenza dall’autorità civile era ulteriormente accentuata dai controlli e dalle autorizzazioni previste dalla legislazione di numerosi Stati nei confronti dell’amministrazione dei beni beneficiali. Molti hanno osservato come ciò abbia ostacolato una gestione duttile e dinamica delle risorse patrimoniali, per ottenere un loro adeguamento ai mutamenti economici ed assicurarne efficacemente la redditività.

La titolarità dei compiti di amministrazione, attribuiti al beneficiario dal canone 1476 del Codice del 1917, gravava il sacerdote di preoccupazioni, che spesso risultavano in conflitto con il suo ministero e che comunque – anche in termini di tempo – andavano a scapito della cura animarum.

Al di là delle norme giuridiche sulla responsabilità personale dell’amministratore e sul controllo che i superiori ecclesiastici dovevano effettuare sulla gestione (cfr. canone 1478), non era detto poi che il titolare dell’ufficio fosse anche un buon amministratore. Per tali ragioni, nella fase antepreparatoria del Concilio Vaticano II, da parte della Pontificia Università Lateranense, tra i rimedi alla crisi del sistema, si propose di togliere l’amministrazione dei beni ai singoli beneficiari per istituire un organo di amministrazione diocesano, in modo che tutti i beni beneficiali fossero seguiti da persone dotate della competenza e della specializzazione necessarie ad evitare pregiudizi di ordine economico60.

La mancanza di strumenti di compensazione efficaci di fronte ai potenziali squilibri del sistema appare, in estrema sintesi, il limite principale della codificazione del 1917, che pur disponeva come termine di confronto di una plurisecolare tradizione applicativa dell’istituto beneficiale, nel corso della quale tutti i problemi sopra accennati erano di certo già emersi.

Si consideri come la rigidità del sistema non poteva essere attenuata dalle fattispecie di innovazione regolate ai canoni 1419-1430 (De unione, translatione, divisione, dismembratione, conversione et suppressione beneficiorum), perché tali norme prevedevano procedure fortemente centralizzate e concepivano la trasformazione dei benefici non come necessari adeguamenti alla evoluzione dei tempi, bensì quali eccezionali innovazioni nella struttura di un ente che doveva restare stabile, essendo la perpetuità la sua fondamentale caratteristica.

Anche il canone 1473, del resto, rimettendo alla discrezionalità dei singoli titolari del beneficio la valutazione del superfluo da erogare ai poveri o a cause pie, non offriva correttivi efficaci agli inconvenienti sopraddetti. In altre parole, un beneficiario che avesse voluto agire con avidità aveva una certa possibilità di manovra.

É indicativa a tale proposito la discussione dottrinale circa la natura dell’obbligo previsto dal canone 1473: se si trattava cioè di un dovere di coscienza ovvero di un obbligo di giustizia61.

Intervenendo in materia, Wernz e Vidal, certamente consapevoli delle potenzialità della norma, sottolineavano con singolare vigore come l’obbligazione di trattenere per sé soltanto la parte necessaria dei redditi beneficiali fosse gravis et absoluta, inderogabile in quanto prevista dalla legge prima ancora che dall’equità o dalla carità. Si potrebbe invero tacciare questa posizione di un eccessivo legalismo, ma essa resta comunque emblematica per la preoccupazione che le è sottesa.

A dimostrazione che non se ne è equivocato il pensiero, vogliamo ricordare che gli Autori sopra citati concludono la loro argomentazione con questo significativo inciso: «certe rigidiores sententiae antiquiorum canonistarum facile intelliguntur; illi enim ob oculos habuerunt pinguissimas praebendas suae aetatis»62.

Non pare però che questa autorevole opinione dottrinale abbia assicurato una interpretazione del canone 1473 così estensiva da trasformare l’obbligazione da esso prevista in uno strumento adatto a temperare gli squilibri del sistema63.

Ci pare utile richiamare anche l’opinione di Dalla Torre che osserva innanzitutto come, vigente il Codice del 1917, la canonistica non affrontò mai la questione del sostentamento del clero dal punto di vista dei diritti del chierico, cioè nella prospettiva unificante di un’equa e congrua remunerazione spettante a tutti i ministri di culto.

«In altre parole» – nota significativamente l’Autore – «nel Codice Pio-Benedettino l’attenzione dell’ordinamento era rivolta all’istituzione, sia pure nella sua funzione di orientazione alla salus animarum»64 e soltanto indirettamente si affrontava la problematica del sostentamento della persona ordinata, trattandone in sede di disciplina dei requisiti soggettivi della lecita ordinazione (titulus ordinationis) nonché di disciplina dell’istituto beneficiale. Il mutare della riflessione ecclesiologica non poteva non avere ricadute sulle sorti del sistema di sostentamento fondato sul titulus beneficii.

Non meno importante per la vita della Chiesa, all’epoca del Concilio Vaticano II, era rimettere in discussione il ruolo riservato ai fedeli nel concorso alle necessità del clero e delle comunità ecclesiali di appartenenza; se infatti è vero che l’istituto beneficiale sorse storicamente per effetto delle donazioni dei fedeli, è altrettanto certo che la progressiva autonomia patrimoniale ed economica dei benefici aveva ridotto il significato della partecipazione dei fedeli nella corresponsabilità.

Ancora, se, confiscati in parte i beni beneficiali, lo Stato provvedeva quasi esclusivamente e per intero al sostentamento dei sacerdoti mediante gli assegni di congrua, le comunità perdevano l’abitudine a farsi carico dei bisogni del clero; ciò contribuiva a far venir meno un cruciale elemento di comunione unitamente alla percezione della dignità e dell’importanza del ministero sacerdotale per una determinata comunità territoriale.

Queste sono anche solo alcune delle ragioni principali per cui, alla vigilia del Concilio Vaticano II, era divenuto urgente ed improrogabile affrontare la questione del sostentamento del clero.

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