Gli sviluppi storici

1. Vivere dell’altare: l’affermazione del concetto di remunerazione dei ministri del culto

L’indagine storica circa l’origine della remunerazione dei ministri del culto non è l’oggetto principale del presente lavoro. Tuttavia qualche accenno in merito, pur se schematico, costituisce il doveroso punto di avvio di un discorso che, nei successivi capitoli, sarà incentrato sugli aspetti giuridici e sulle implicazioni ecclesiologiche del passaggio dal sistema beneficiale al modello di sostentamento introdotto nel 1983 dal vigente Codex Iuris Canonici.

Per tale motivo è parso metodologicamente corretto evidenziare qui quantomeno gli snodi fondamentali di un argomento al quale sono stati dedicati numerosi studi e ben più approfondite trattazioni.

I fondamenti biblici

L’affermazione del diritto del clero a ricevere il sostentamento in ragione del proprio status sacerdotale può farsi risalire già all’Antico Testamento. Nel libro di Giosuè si racconta che, quando gli Ebrei giunsero in Palestina, alla tribù di Levi non fu assegnata alcuna terra: «infatti non vi è parte per i leviti in mezzo a voi, perché il sacerdozio del Signore è la loro eredità» (Gs 18,7)1.

Il Deuteronomio enuncia che i leviti sono stati scelti da Dio per diventare suoi sacerdoti e ciò che serve al loro sostentamento deve pertanto essere tratto dalle vittime immolate in sacrificio e dalle offerte del popolo di Israele al Signore2.

Precisamente il testo sacro sancisce che «questo sarà il diritto dei sacerdoti sul popolo, su quelli che offriranno come sacrificio un capo di bestiame grosso o minuto: essi daranno al sacerdote la spalla, le due mascelle e lo stomaco» (Dt 18,3).

Il versetto successivo aggiunge: «gli darai le primizie del tuo frumento, del tuo mosto e del tuo olio e le primizie della tosatura delle tue pecore» (Dt 18,4).

Questi principi trovano dei riscontri anche nelle religioni delle più antiche civiltà e, da un punto di vista meramente antropologico, attestano l’avvenuto riconoscimento della specificità del ruolo rivestito dai sacerdoti nell’esercizio del culto. Erodoto e la stessa Genesi infatti recano notizie circa i privilegi di cui stabilmente godeva la casta sacerdotale presso gli Egizi3.

E’ peculiare però il fatto che presso il popolo ebraico tale dettame assuma il carattere di legge divina rivelata. Nel merito il capitolo 12 del Deuteronomio ricorda espressamente ad Israele che «tra le leggi e le norme che avrete cura di mettere in pratica» (Dt 12,1) vi è quella di dividere il cibo con la propria famiglia e con «il levita che sarà entro le tue città» (Dt 12,18) e continua ammonendo: «guardati bene, finché vivrai nel tuo paese, dall’abbandonare il levita» (Dt 12, 19).

Si tratta di norme di grande importanza e, quand’anche le si volesse considerare esclusivamente in chiave storica, queste antiche prescrizioni segnano uno dei tratti caratteristici della religiosità ebraica, come furono le decime e la tassa che veniva annualmente versata per il tempio di Gerusalemme.

L’ebraismo ha manifestato la propria originalità rispetto alle altre religioni anche sul tema dell’uso delle ricchezze. In vari passi, il Deuteronomio indica la necessità di destinare parte delle risorse personali e comunitarie al soccorso dei poveri e delle vedove, degli orfani e dei forestieri4.

L’elemosina viene intesa come un dovere dell’uomo che Dio ha benedetto con l’abbondanza dei beni materiali; inequivocabilmente Dt 15,11 dispone: «poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese, perciò io ti do questo comando e ti dico: apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese». A maggior ragione tali indicazioni valgono per i sacerdoti ed i leviti, anche se va detto che essi non avevano l’incarico specifico ed esclusivo di fare l’elemosina.

La denuncia dei profeti si leva con solennità a censurare chi dimentica la legge del Signore. Geremia icasticamente scrive: «come una gabbia piena di uccelli, così le loro case sono piene di inganni, perciò diventano grandi e ricchi. Sono grassi e pingui, oltrepassano i limiti del male; non difendono la giustizia, non si curano della causa dell’orfano, non fanno giustizia ai poveri»5.

Ezechiele richiama i sacerdoti di Gerusalemme perché violano la legge, «profanano le cose sante»6 e nella città «si ricevono doni per spargere il sangue, tu presti a interesse e a usura, spogli con la violenza il tuo prossimo e di me ti dimentichi»7.

Nell’Antico Testamento quindi non si mette al bando la ricchezza, perché la prosperità è dono di Dio, ma si stigmatizzano i rischi di un uso erroneo dei beni materiali8.

Questa disposizione spirituale verso la povertà di vita da parte dei fedeli e dei ministri del culto viene molto accentuata durante l’esilio e sarà ripresa anche nella predicazione di Gesù, ove – a ben intendere – non si propone mai un radicale pauperismo né il disprezzo dei beni in sé e per sé considerati, ma viene condannato il loro accumulo egoistico ed indiscriminato che allontana l’uomo dal Regno di Dio e dalla sua giustizia9.

Circa il tema specifico del sostentamento di chi serve il Vangelo, lo stesso Signore Gesù ribadisce che i suoi discepoli non si debbono preoccupare: «non procuratevi né oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento»10.

Vi è in queste parole tanto un richiamo a condurre una vita semplice, accontentandosi di poco ed affidandosi alla provvidenza di Dio, quanto l’istituzione dell’obbligo dei fedeli di provvedere alle necessità della Chiesa, come ancor meglio risulta da s. Luca: «restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede»11.

Il card. Palazzini chiosa questo passo come segue: «al tempo di Gesù e durante la prima generazione cristiana, gli Apostoli ed i discepoli rispondono ad una vocazione d’amore con il dono di sé, senza troppe preoccupazioni di carattere materiale» e soprattutto senza avere ancora bisogno di un’organizzazione istituzionale12.

L’evangelista Giovanni narra peraltro che esisteva un fondo comune, fatto di donativi e di elemosine, che doveva servire per le necessità più impellenti della comunità apostolica e di cui Giuda era l’amministratore disonesto13.

Per quanto attiene alla primitiva comunità cristiana di Gerusalemme, descritta da s. Luca negli Atti degli Apostoli, dinanzi al sorgere dei primi ministeri, come il diaconato, non risulta che la questione del sostentamento sia stata affrontata in termini diversi ed ulteriori.

I beni dei primi credenti vengono messi a disposizione dei fratelli ed in tale esperienza di comunione si risolvono anche le esigenze degli Apostoli e dei loro collaboratori; il passo di At 2,45 ci informa che «chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno».

Con grande spirito di condivisione i fedeli vendevano i propri beni spontaneamente e li deponevano ai piedi degli Apostoli, i quali li distribuivano tra i membri della comunità di Gerusalemme in base alle necessità14.

La comunione dei beni era quindi la forma organizzativa individuata dalla comunità per sovvenire ai bisogni materiali dei suoi appartenenti e per soccorrere i poveri.

Negli scritti di s. Paolo il diritto dei ministri del culto a ricevere dalla comunità quanto occorre al proprio sostentamento viene più volte richiamato, anche se, l’Apostolo, per quanto riguarda se stesso, dice agli anziani di Efeso: «voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani»15.

Similmente rivolgendosi ai Tessalonicesi li esorta all’operosità «poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi» e significativamente aggiunge: «non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare»16.

Contro coloro che contestano la sua condotta, Paolo ribadisce la validità della scelta di lavorare per procurarsi il necessario sostentamento, ma, sempre nello stesso passo, illustrando quale sia la regola e quale l’eccezione, afferma che l’apostolo ha diritto di vivere del suo ministero17.

In un testo divenuto assai celebre egli ricorda l’insegnamento del Maestro: «non sapete che coloro che celebrano il culto traggono il vitto dal culto e coloro che attendono all’altare hanno parte dell’altare? Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo»18.

 

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