Gli interventi del Concilio di Trento: la centralità dell’officium e l’obbligo di residenza
Nel contesto dell’applicazione dei principi giuridici generali sul sostentamento, l’irriducibile complessità delle vicende storiche che, nelle singole chiese particolari, hanno contribuito a determinare le condizioni della vita materiale del clero costituisce un vasto ed interessante capitolo della storia dell’Europa cristiana. Non è questione di secondaria importanza, ad esempio, comprendere il ruolo giocato dalle problematiche economiche all’interno dei vari movimenti di riforma della Chiesa per il rinnovamento della vita morale e spirituale di tutti i cristiani in genere ed in particolare dei ministri del culto103.
Ai profili più propriamente ecclesiali si uniscono poi, in un intreccio quasi inestricabile, i mutamenti e le evoluzioni delle istituzioni civili, nel loro costante e dialettico rapporto territoriale e politico con il Papato e l’autorità episcopale. Ciò ha dato luogo ad una vasta gamma di norme e di consuetudini locali, un fenomeno che, con espressione tecnica, suole definirsi particolarismo giuridico e che sul piano sostanziale significa l’esistenza di esperienze assai diversificate.
Per queste ragioni il sistema beneficiale ebbe un carattere ben più articolato e composito di quanto abbiamo cercato di prospettare nelle pagine precedenti, sia nelle forme giuridiche che nelle realtà a cui de facto tali forme facevano riferimento. E’ quindi illusorio pensare che vi fosse un unico modello normativo e dottrinale rispetto al quale, agli occhi dello studioso, ogni variante sarebbe da considerarsi un’impropria deviazione.
Piuttosto lo schema interpretativo da adottare pare essere quello in cui i fondamenti di principio sono comuni e le applicazioni concrete conoscono invece una feconda molteplicità. E’ palese che un simile stato di fatto non andò esente dalle contraddizioni e dagli abusi e ciò si verificò ogniqualvolta la dotazione beneficiale veniva dissociata dalla sua finalità pastorale.
Con piena consapevolezza di queste problematiche gli interventi del Concilio di Trento in materia di sostentamento affrontarono numerosi aspetti che cercheremo di passare in rassegna.
5.1 La riforma del clero
Sin dalla prima sessione i Padri conciliari operarono con l’obiettivo dichiarato di procedere «ad reformationem cleri et populi christiani», per ripristinare alcune regole cadute in desuetudine e disciplinare quanto poteva nuocere alla condotta morale dei chierici104.
Una delle preoccupazioni fondamentali che guidò la discussione dei Padri conciliari era la responsabilità dei sacerdoti quali testimoni della fede, esempio vivente del Vangelo davanti agli occhi dei fedeli; così infatti essi si esprimono nella sessione XXII: «nihil est, quod alios magis ad pietatem et Dei cultum assiduo instruat, quam eorum vita et exemplum, qui se divino ministerio dedicarunt»105.
Da questo assunto derivano sia le norme di ordine disciplinare sia le disposizioni in materia economica ed amministrativa, entrambe dettate con la funzione di correggere i singoli casi e, nel contempo, di orientare il sistema normativo a prevenire ulteriori abusi nel campo del sostentamento. Regole giuridiche e raccomandazioni morali si fondono nei testi conciliari al punto tale che, nella loro lettura, sarebbe improprio limitarsi ad una ricerca formale del dato normativo.
Ne è un esempio eloquente l’incipit del capitolo I del Decretum de reformatione generali approvato nel corso della sessione XXV del Concilio: «optandum est, ut ii, qui episcopale ministerium suscipiunt, quae suae sint partes agnoscant ac se non ad propria commoda, non ad divitias aut luxum, sed ad labores et sollicitudines pro Dei gloria vocatos esse intelligant».
Al severo monito iniziale, il capitolo I fa seguire un’elencazione di principi che sono definiti fondamentali (precipua) per il ripristino della vita ecclesiastica: «mores suos omnes componant, ut reliqui ab eis frugalitatis, modestiae, continentiae ac […] sanctae humilitatis exempla petere possint». Pertanto il Concilio ordina «ut episcopi modesta suppellectili et mensa, ac frugali victu contenti sint»; la prescrizione è data, come s’è visto, per i vescovi, ma il capitolo I precisa che essa si estende a tutti i titolari di benefici ecclesiastici, sia secolari che regolari, ed anche ai cardinali106.
5.2 L’ufficio, beneficio e residenza
Tra i motivi di scandalo dei fedeli, a cui il santo Sinodo cercò di porre argine, forse il più ricorrente era rappresentato dal largo divario delle condizioni economiche del clero. Grazie al cumulo di benefici infatti alcuni prelati godevano di consistenti rendite, mentre altri chierici si trovavano alle soglie della povertà. Spesso poi in qualità di vicari per gli aspetti materiali alcuni di essi dipendevano interamente dal titolare del beneficio, il quale, non risiedendo nella sede del suo officium, delegava ad essi la cura pastorale in cambio di un misero ed insufficiente stipendio ovvero regolava tale incarico mediante veri e propri contratti d’affitto che poco avevano a che vedere con la natura e lo scopo del beneficio ecclesiastico.
In proposito all’inizio del canone 17 della sessione XXIV il Concilio intervenne con parole energiche e dirette: «cum ecclesiasticus ordo pervertatur, quando unus plurium officia occupat clericorum: sancte sacris canonibus cautum fuit, neminem oportere in duabus ecclesiis conscribi». Lo stesso canone continua denunciando che, contrariamente ai divieti perennemente ribaditi dalla Chiesa, molti, mossi da un riprovevole desiderio di guadagno, ingannando se stessi (non Dio!), non si vergognano di eludere con diversi intrighi le prescrizioni ecclesiastiche e di tenere contemporaneamente più benefici. Di seguito si statuisce poi «ut in posterum unum tantum beneficium ecclesiasticum singulis conferatur» e la norma – viene precisato – ha da essere osservata da chiunque, qualunque sia il titolo con cui è insignito, foss’anche quello cardinalizio.
Per coloro che abbiano più chiese parrocchiali o comunque più di un beneficio, il medesimo canone 17 della sessione XXIV dispone l’obbligo di lasciare entro sei mesi le altre chiese conservando un solo beneficio. Qualora però il beneficio assegnato non sia sufficiente all’onesto sostentamento del chierico, è prevista la possibilità di conferire un altro beneficio semplice, ma il cumulo è ammesso soltanto se entrambi i benefici non esigono la residenza personale107.
Assai evidente è la volontà di ristabilire il legame tra l’ufficio pastorale ed i beni beneficiali, subordinando alle esigenze del primo la disciplina istituzionale del beneficio, perché sta nell’officium e soltanto in esso la ragion d’essere del beneficio. Il fulcro di tale disegno fu certamente la dibattuta questione dell’obbligo di residenza del beneficiario.
In argomento, nella sessione VI, fu emanato dal Concilio un apposito Decretum de residentia, che inizia con la seguente indicativa premessa: «eadem sacrosancta synodus […] ad restituendam collapsam admodum ecclesiasticam disciplinam, depravatosque in clero et populo christiano mores emendandos se accingere volens». Il decreto spiega che «placuit sacrosanctae synodo, antiquos canones (qui temporum atque hominum iniuria paene in dissuetudinem abierunt) adversus non residentes promulgatos innovare» e sancisce che quei vescovi che restino prolungatamente assenti dalla propria sede perdano parte dei redditi beneficiali e possano essere addirittura allontanati dall’ufficio con conseguente perdita del beneficio108.
Il capitolo 2 dello stesso decreto è dedicato agli altri chierici, quelli cioè con una dignità inferiore rispetto ai vescovi, ed affida agli ordinari il compito di far rispettare il dovere della residenza escludendo l’opponibilità di qualsiasi privilegio che consenta al beneficiario di non risiedere e di percepire i frutti del beneficio durante l’assenza; l’unica eccezione prevista riguarda indulti e dispense temporanee che possono essere concessi dai vescovi, a condizione che siano nominati dei vicari idonei e sia assegnata loro una congrua parte dei frutti109.
La formulazione di quest’ultima norma è assai interessante perché in essa il principio fondamentale della materia, ossia l’esigenza di garantire la cura animarum, viene enunciato quasi incidentalmente, ma in maniera tale che, anche da un punto di vista sintattico, essa regge tutta la costruzione.
Si richiama così quanto nel capitolo I dello stesso Decretum de residentia, attraverso immagini evangeliche e con forma solenne, era detto a proposito dei vescovi: «in omnibus laborent et ministerium suum impleant. Implere autem illud se nequaquam posse sciant, si greges sibi commissos mercenariorum more deserant atque ovium suarum, quarum sanguis de eorum est manibus a supremo iudice requirendus, custodiae minime incumbant, cum certissimus sit, non admitti pastoris excusationem, si lupus oves comedit, et pastor nescit»110.
L’inequivocabile chiarezza delle prescrizioni sopra ricordate pare non sia stata sufficiente a determinare nell’immediato degli apprezzabili effetti pratici. Nella sessione XXIII infatti l’argomento della residenza fu ripreso e diede origine ad una vivace discussione conciliare per stabilire la natura e quindi i limiti di tale obbligo «utrum esset de iure divino an non». Per svariate ragioni che sarebbe lungo rievocare, la questione non trovò risposta e furono ripetute soltanto le regole de reformatione dettate in precedenza111.
5.3 Le ordinazioni ed il sostentamento dei chierici
Un’altra regola di grande importanza autorevolmente ribadita dal Concilio di Trento fu il divieto di ordinazioni sine titulo: oggetto della proibizione era la prassi di ordinare dei chierici senza verificare l’esistenza di un’adeguata garanzia di sostentamento per l’ordinando, di un beneficio o di altro titolo ritenuto congruo dal diritto.
Tale comportamento, stigmatizzato già dal Concilio di Calcedonia nel 451 con un espresso divieto112, aveva prodotto gravi disordini disciplinari nella vita della Chiesa, perché da un lato lasciava i chierici nell’incertezza circa il loro ufficio e per altro verso, non di rado, questi ministri del culto erano costretti a mendicare o a lavorare e vivere in condizioni indecorose.
La questione fu affrontata nella sessione XXI nel canone 2 del Decretum de reformatione, a partire dalla constatazione che in moltissimi luoghi i candidati venivano ammessi agli ordini sacri senza alcuna selezione e senza controllare che fossero dotati di sufficienti mezzi di sostentamento, il Concilio di Trento confermò il divieto di ordinare dei chierici sine titulo, ma nel contempo richiamò i canoni riguardanti gli altri titula ordinationis, che in via sussidiaria potevano sostituire il beneficio ecclesiastico e cioè il titulus patrimonii ed il titulus pensionis113.
Si noti in proposito che, per questi titoli sussidiari diversi dal beneficio, da parte dello stesso canone 2 del Decretum de reformatione della sessione XXI, si richiede al vescovo una verifica ulteriore, ossia che i candidati all’ordine ricevano il sacramento soltanto se saranno giudicati necessari ed utili per le esigenze pastorali; poiché invece il beneficio è direttamente collegato ad un ufficio ecclesiastico, nel caso del titulus beneficii, tale verifica non è prescritta114.
Nella stessa sessione si dettarono altre norme riferite all’istituto beneficiale; il canone 3 del Decretum citato prevede, relativamente alle chiese cattedrali e collegiate, il prelievo di un terzo di tutti i frutti per destinarlo ai sacerdoti che celebrano i divini uffici mediante distribuzioni quotidiane di denaro. La ratio di tale prelievo è enunciata dalla norma stessa: «cum beneficia ad divinum cultum atque ecclesiastica munia obeunda sint constituta»115. Si tratta di un’affermazione di principio che va ben oltre il caso in specie e che potrebbe essere assunta come «cartina tornasole» degli interventi di tutto il Concilio, forse non innovativi dal punto di vista giuridico, ma di certo fondamentali per il ristabilimento delle regole e la loro corretta applicazione.
In questa prospettiva va letto anche il successivo canone 4 del Decretum de reformatione che riguarda il tema dei vicari e dell’erezione di nuove parrocchie. Affinché per ragioni patrimoniali non sia trascurata la cura animarum, il Concilio dispone che i vescovi possano costringere ad associarsi dei vicari quei rettori di chiese parrocchiali, ove la popolazione è talmente numerosa «ut unus rector non possit sufficere ecclesiasticis sacramentis ministrandis et cultui divino peragendo». Ciò originava ovviamente una ripartizione delle rendite del beneficio, che, diversamente, erano a completa ed esclusiva disposizione del rettore; si noti che tale norma sottolinea ulteriormente la natura per così dire «funzionale» del patrimonio beneficiale, tant’è che il criterio per la determinazione del numero dei vicari è meramente spirituale: «tot sacerdotes […] quot sufficiant ad sacramenta exhibenda et cultum divinum celebrandum»116. In altre parole il prius è la celebrazione del culto.
Il canone 6 del medesimo Decretum de reformatione prevede significativamente il ricorso alla nomina di vicari anche quando i rettori delle chiese parrocchiali siano senza cultura, incapaci e poco adatti ai divini uffici; questi rettori così coadiuvati resteranno al loro posto solo se conducono una vita onesta, ma, qualora fossero incorreggibilmente malvagi ed immorali, ai vescovi è riconosciuta la facoltà di privarli dei benefici117. Per l’avvenire – è importante ricordarlo – a complemento di tali severe previsioni, il Concilio detta anche regole per la formazione del clero e la creazione dei seminari, dimostrando ancora una volta una chiara attenzione per l’aspetto spirituale del ministero esercitato dai chierici118.
Nel canone 4 del medesimo Decretum vi sono delle regole anche per l’istituzione di nuove parrocchie; malgrado l’opposizione dei parroci, i vescovi possono procedere dividendo il territorio di quelle chiese i cui parrocchiani, per la distanza dei luoghi o per la difficoltà del percorso, non possono recarsi a ricevere i sacramenti «sine magno incommodo».
Ragioni pastorali giustificano quindi la frammentazione di benefici territorialmente molto estesi ed il canone 4 prevede che ai sacerdoti destinati al servizio in chiese di nuova erezione sia assegnata una porzione dei frutti appartenenti alla chiesa madre e che comunque il vescovo, se sarà necessario, potrà costringere il popolo a fornire quanto basti per il sostentamento di questi sacerdoti119.
Seguono la medesima ratio anche le trasformazioni dei benefici ecclesiastici, in più occasioni disciplinate dal Concilio: in tal senso devono leggersi il canone 5 dello stesso Decretum dedicato all’unione perpetua di chiese parrocchiali, di quelle con il fonte battesimale e di altri benefici con o senza cura d’anime ed il canone 7 inerente al trasferimento dei benefici, ove la trasformazione disposta dal vescovo è dettata dalla necessità di por fine alla rovina e all’abbandono degli edifici consacrati al culto120.
L’autorità del vescovo, sia per gli aspetti amministrativi sia per quelli disciplinari, è confermata anche dalla previsione del canone 8 del Decretum citato che regola la visita dell’ordinario nella sede dei benefici, affinché egli possa verificare direttamente in loco la condotta dei chierici e l’utilizzo dei beni ad essi affidati. Monasteri dati in commenda, abbazie, priorati e benefici saranno visitati ab episcopis, come precisa lo stesso canone: «etiam tamquam apostolicae sedis delegatis»121.
Da quanto sinora detto risulta ancor più chiaramente che il quadro delle norme dettate dal Concilio in materia di beneficio ecclesiastico e di sostentamento del clero non contiene elementi di grande innovazione.
Ciò che si ricava piuttosto dalla lettura dei vari decreti de reformatione è la ripresa e la consolidazione di un corpus normativo millenario, dal momento che, non essendo mutati nella sostanza i mezzi e le forme del sostentamento, non vi era la necessità di introdurre novità dal punto di vista degli istituti giuridici; era invece presente e forte il bisogno di riordinare l’esistente, di ricondurre alla disciplina le realtà ecclesiali e di restituire all’originaria funzione il considerevole complesso di beni appartenente alla Chiesa.
Quest’opera delicata e difficile, nella materia che ci interessa, venne portata avanti senza rinnegare i fondamenti dell’organizzazione ecclesiale in essere, ossia la ripartizione dell’asse ecclesiastico tra una pluralità di enti, in gran parte collegati ad un ufficio e ad un territorio ben determinati, con la conseguente amministrazione decentrata di tali beni.
Numerose norme ribadirono e rafforzarono i poteri di controllo dell’autorità episcopale, ma non fu mai contestata l’autonoma responsabilità del titolare del beneficio nell’amministrazione dello stesso. E’ questo un tratto caratteristico dell’intero sistema che, senza metterlo in discussione, il Concilio di Trento disciplinò e riorganizzò in maniera tale da rendere più effettivo e certo il rapporto tra la sede episcopale e le articolazioni territoriali delle diocesi.
5.4 Le norme sul patronato
Per arginare la minaccia sempre insorgente di un’indebita ingerenza laica nella sfera spirituale, furono riprese anche le norme sul patronato. Il capitolo 9 del Decretum de reformatione generali della sessione XXV del Concilio propone quale criterio regolatore un’equa comparazione di interessi tra le pie volontà dei fedeli e le libertà della Chiesa. Così recita precisamente la norma: «sicuti legitima patronatum iura tollere piasque fidelium voluntates in eorum institutionem violare, aequum non est: sic etiam, ut hoc colore beneficia ecclesiastica in servitutem, quod a multis impudenter fit, redigantur, non est permittendum».
Il capitolo prosegue disciplinando numerosi aspetti dell’istituto: il diritto di patronato deve avere origine da un atto certo, una fondazione o dotazione comprovabili con documenti autentici o, in difetto, da consuetudini che superino la memoria d’uomo o da presentazioni di candidati ripetute ab immemorabili. I diritti di patronato per i quali non sussistano tali prove sono dichiarati dal Concilio totalmente abrogati e nulli; di conseguenza per i benefici interessati tornano in vigore le regole ordinarie circa la provvista canonica: «beneficiaque huiusmodi tamquam libera a suis collatoribus conferantur, ac provisiones huiusmodi plenum effectum consequantur»122.
Ai patroni, nel medesimo capitolo 9, viene comunque fatto divieto di interferire nella riscossione dei frutti, dei proventi e delle entrate di qualsiasi beneficio ed il loro stesso diritto di presentare all’autorità ecclesiastica competente un candidato per il conferimento dell’officium è, contro ogni abuso, dichiarato inalienabile ed intrasmissibile. Nonostante la presentazione del patrono, quando questo diritto sia legittimamente comprovato, resta sempre ferma per i vescovi la facoltà di respingere i candidati che manchino dei necessari requisiti di idoneità123.
5.5 Conclusioni
La storia dei secoli che seguirono al Concilio di Trento è ricca di episodi in cui la Chiesa ha visto fortemente ridotta la propria autonomia ricevendo dal potere temporale non poche limitazioni. In età moderna il culmine è certamente rappresentato dai provvedimenti di confisca del patrimonio ecclesiastico, che furono ideologicamente chiamati atti di nazionalizzazione e che dalla Rivoluzione francese in poi divennero prassi abituale nella politica di molti Stati. Non bisogna però dimenticare che usurpazioni ed abusi hanno accompagnato da sempre la destinazione dei beni riservati al sostentamento del clero.
E’ indicativo notare che, forse per le sue caratteristiche intrinseche, il sistema beneficiale venne mantenuto dall’ordinamento canonico anche quando le legislazioni statali ne sopprimevano via via i presupposti di fatto, mediante la secolarizzazione dei beni e l’attribuzione ai ministri del culto di pensioni statali diversamente denominate. Tale questione, che fece da sfondo alla codificazione del 1917, verrà ripresa nel prossimo capitolo, che è interamente dedicato alla normativa del Codice Pio-Benedettino.
1 Cfr. anche Gs 13,14; 13,33; 14,3-4. Trattando del rito per le oblazioni Lv 2,3 prevede che, una volta effettuato il sacrificio a Dio, «il resto dell’offerta di oblazione sarà per Aronne e per i suoi figli, cosa santissima, proveniente dai sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore». 2 Cfr. Dt 18,1-8. Si veda anche Ez 44,29-30: «Saranno loro cibo le oblazioni, i sacrifici espiatori, i sacrifici di riparazione […] la parte migliore di tutte le vostre primizie e ogni specie di offerta apparterranno ai sacerdoti: così darete al sacerdote le primizie dei vostri macinati, per far posare la benedizione sulla vostra casa». 3 «I sacerdoti […] godono anche di vantaggi non piccoli: delle cose proprie non consumano né spendono nulla, ma vengono cotti per loro cibi sacri; per ciascuno c’è ogni giorno grande abbondanza di carne di bue e d’oca, inoltre ricevono anche vino d’uva» (ERODOTUS, Le storie, 37,3-4). Analogamente Gn 47,20-22 attesta che Giuseppe, durante una carestia, acquistando per il faraone tutto il terreno dell’Egitto, non poté acquistare il terreno dei sacerdoti «perché i sacerdoti avevano un’assegnazione fissa da parte del faraone e si nutrivano dell’assegnazione che il faraone passava loro». 4 «[Il Signore] rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto» (Dt 10,18-19); cfr. anche Dt 15,1-12. 5 Ger 5,27-28. 6 Ez 22,26. 7 Ez 22,12. 8 Cfr. V. DE PAOLIS, I beni temporali, 241-244. L’Autore nota come nell’A.T.: «i beni temporali sono intimamente legati alla vita dell’uomo; portano pertanto il segno della sua grandezza e della sua debolezza: essi sono stati donati da Dio all’uomo, per il suo servizio, perché possa realizzarsi: nella fedeltà a Dio e nella comunione con i fratelli» (V. DE PAOLIS, I beni temporali, 241). 9 «Anche i testi evangelici, anche i più esigenti sulla rinuncia a tutto ciò che si possiede (Mc 10,17-31), non intendono esaltare la povertà in quanto tale, quanto, piuttosto, la sequela, cioè la prontezza a staccarsi da ogni cosa, anche dagli affetti più cari, quando la salvezza lo richieda» (A. PERLASCA, Il concetto, 15). 10 Mt 10,9-10. 11 Lc 10,7. 12 «Nello spirito di Gesù che pure afferma la gratuità del culto (Gv 2,14; Lc 21,3), l’accoglienza fatta ai suoi discepoli non è un’elemosina, ma un obbligo morale di provvedere al loro sostentamento» (P. PALAZZINI, «La aequa remuneratio», 7). 13 Cfr. Gv 12,6. Cfr. anche Gv 13,27-29 ove si ribadisce esplicitamente che esisteva un fondo per le necessità comuni e che era affidato a Giuda. 14 Cfr. At 4,34-35. Cfr. anche: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo ed un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune» (At 4,32). 15 At 20,34. 16 2Ts 3,7-9. 17 Cfr. 1Cor 9,1-18. 18 1Cor 9,13-14. Può essere interessante notare come tale formulazione sia ripresa quasi testualmente, a più di mille anni di distanza, da Innocenzo III: «Cum, secundum Apostolum, qui altario servit, vivere debet de altari, et qui ad onus eligitur, repelli non debeat a mercede: patet a simili, ut clerici vivere debeant de patrimonio Jesu Christi, cuius obsequio deputantur, ut ipsa nominis ratio persuadet» (Decret. 1, III, V, 16), citato da R. NAZ, «Titre d’ordination», 1279. 19 «Et vos igitur hodie, episcopi, populo vestro estis sacerdotes et levitae, ministrantes tabernaculo Dei, sanctae catholicae ecclesiae, et adstantes semper coram Domino Deo nostro» (Didascalia, 2, 25, 7). 20 AMBROSIUS, De officiis, II, 28, in PL 16, 148. 21 «Nei primi tempi non si riteneva affatto che il patrimonio ecclesiastico dovesse servire per i chierici, tantoché Giustino (Apolog., I, 67) e Tertulliano (Apologeticum, c. 39, in PL I) determinando gli scopi a cui dovevano servire le ricchezze della chiesa non fanno punto menzione dei chierici» (A. GALANTE, «Il Beneficio ecclesiastico», 13-14). 22 Cfr. Canones Apostolorum, c. 39, in PL, 67, 146; e Didascalia, 2, 25, 3. 23 C. 16, q. 1, c. 68. 24 Cfr. A. GALANTE, «Il Beneficio ecclesiastico», 15. 25 Cfr. CONC. AURELIANENSE I, a. 511, c. 23, in MANSI, VIII, 355. 26 Cfr. Didascalia, 2, 27, 3. 27 At 6,2. 28 «La proprietà ecclesiastica si costituì intorno alla chiesa cattedrale; il vescovo quale capo del clero era l’amministratore diretto di quanto doveva servire alla beneficenza, al mantenimento del clero, ai bisogni della comunità, agli edifici di culto e di abitazione. Lo assistevano in questo compito i diaconi e gli ufficiali (notarii, defensores) che, secondo l’importanza della sede, erano necessari per gli atti pubblici e privati» (P. PASCHINI, «Beneficio ecclesiastico», 1305). 29 E. COLAGIOVANNI, «L’aspetto storico-sociologico», 404. 30 CONC. ELIBERITANUM, a. 305-306, in MANSI, II, 9. 31 «I chierici vengono annoverati tra i poveri della Chiesa, se non hanno propri mezzi di sostentamento, e se ne devono servire solo per il sostentamento, non per arricchirsi e mettere in disparte. La suppellettile deve essere povera […]. Chi si appropria del denaro per i poveri si fa «necator pauperum». I sacerdoti che annunciano il vangelo devono vivere dell’altare, i monaci del frutto del proprio lavoro, del quale parte dovrà essere destinata ai poveri. Ai sacerdoti non è proibito il lavoro ma il commercio» (V. DE PAOLIS, I beni temporali, 258-259). 32 Didascalia, II, 25, 8; cfr. anche Constitutiones Apostolorum, 8, 47, 4. 33 «Que en los primeros siglos de la Iglesia existe un centralismo episcopal en materia de patrimonio y administración, nos parece que no puede seriamente negarse, no sólo por el examen de las fuentes […], sino por la lógica consecuencia del centralismo apostólico» (J. M. PINÉRO CARRION, La sustentación, 47). 34 Cfr. G. STOCCHIERO, Il beneficio ecclesiastico, 15; cfr. anche G. SCHÖLLGEN, «Sportulae», 1-20. 35 Cfr. P. PALAZZINI, «La aequa remuneratio», 8. L’Autore aggiunge poi che «a Cartagine come a Roma i ministri dell’altare percepivano una specie di mensile, divisio mensurna, analoga al soldo militare» (P. PALAZZINI, «La aequa remuneratio del clero», 10). 36 G. STOCCHIERO, Il beneficio ecclesiastico, 16. 37 Cfr. Didascalia, 2, 25, 19-21. 38 Cfr. ORIGENES, Commentaria in Evangelium, 16,20-23, in PG 13, 1442-1445. Cfr. CONC. ELIBERITANUM, a. 305-306, c. 48, in MANSI, II, 13-14: «emendari placuit, ut qui baptizantur, (ut fieri solebat) nummos in concham non immittant; ne sacerdos, quod gratis accepit, pretio distrahere videatur». 39 «L’inizio del III secolo segna un’importante evoluzione. Cominciamo a raccogliere accenni a edifici consacrati al culto. Questo cambiamento coincide con il periodo relativamente tranquillo rappresentato dai pontificati di Zefirino e Callisto. Sappiamo che in quest’epoca la Chiesa poteva possedere dei cimiteri propri, perché infatti Zefirino incarica Callisto, quando ancora non era che un diacono, di amministrare un cimitero di questo tipo. Deve essere stato anche così per gli edifici cultuali» (J. DANIÉLOU-H. MARROU, Nuova storia, I, 210-211). 40 «Fin dal principio le comunità cristiane avevano avuto possedimenti: la prima forma con cui esse si organizzarono fu quella di collegia licita, soprattutto collegia funeraticia, potendo per tal modo essere tollerate, poiché erano nell’ottica delle istituzioni permesse» (A. GALANTE, «Il beneficio ecclesiastico», 9). Sul tema si veda anche J. LEBRETON – J. ZEILLER, L’Église primitive, 418-419; M. ROBERTI, «Le associazioni funerarie», 89, 110-111. 41 In argomento B. MAGGIONI osserva: «in che misura queste descrizioni riflettono la situazione reale ed in che misura invece tradiscono la teologia di Luca? Non è facile rispondere. Basterà dire che i tratti «arcaici» – ben visibili – sono numerosi, credibili, sufficienti a garantirci una sostanziale oggettività. D’altra parte l’evidente idealizzazione è pure ricca di significato» (B. MAGGIONI, La vita, 11 nota 3). 42 «Videntes ergo sacerdotes summi et alii, atque Levitae, et reliqui fideles, plus utilitatis posse afferre, si haereditates et agros, quos vendebant, ecclesiis, quibus praesidebant episcopi, traderent, eo quod ex sumptibus eorum, tam praesentibus quam futuris temporibus, plurima et elegantiora possent ministrare fidelibus communem fidem ducentibus, quam ex pretio eorum; coeperunt praedia et agros, quos vendere solebant, matricibus ecclesiis tradere, et ex sumptibus eorum vivere» (URBANO I, Decet omnes christianos, in MANSI, I, 749, e in PG, 10, 136-137). 43 Cfr. CONC. TURONENSE II, a. 567, in MGH, Legum Sectio III Concilia, I, 136-138. 44 «Sint autem manifesta quae ad ecclesiam pertinent cum cognitione presbyterorum et diaconorum, qui sunt circa eum, ut sciant et non ignorent quae sunt propriae ecclesiae, ut nihil ipsos lateat: ut si contingat episcopum e vita migrare, iis manifestis existentibus quae ad ecclesiam pertinent, ne ea intercidant et pereant» (CONC. ANTIOCHENUM I, a. 341, c. 24, in MANSI, II, 1318). 45 «Quoniam quibusdam ecclesiis, ut rumore conperimus, praeter oeconomos episcopi facultates ecclesiasticas tractant, placuit omnem Ecclesiam habentem episcopum habere et oeconomum de clero proprio, qui dispenset res ecclesiasticas secundum sententiam episcopi proprii, ita ut ecclesiae dispensatio praeter testimonium non sit, et ex hoc dispergantur ecclesiasticae facultates, et derogatio maledictionis sacerdotio provocetur. Quod si hoc minime fecerit, divinis constitutionibus subiacebit» (CONC. CHALCEDONENSE, a. 451, c. 26, in COD, 99). 46 «Simul etiam de redditibus Ecclesiae vel oblatione fidelium, quid deceat nescienti, nihil licere permittat, sed sola ei ex his quarta portio remittatur. Duae ecclesiasticis fabricis, et erogationi peregrinorum et pauperum profuturae, ab Onagro presbytero sub periculo sui ordinis ministrentur; ultima inter se clerici pro singulorum meritis dividatur» (SIMPLICIO, Epistula III, in PL, 58, 37). 47 «Quod in unaquaque ecclesia cui episcopus praeest, tam de redditibus quam de fidelium oblationibus quatuor debeant fieri portiones: ut una sit episcopi, alia clericorum, tertia pauperum, quarta ecclesiae fabricis applicetur» (GELASIO, Epistula IX, XXVII, in PL, 59, 48). 48 Cfr. J.B. JIMÉNEZ, Función teologico-social, 6. 49 «Item placuit, ut de rebus ecclesiasticis tres aequae fiant portiones; id est, episcopi una, alia clericorum, tertia in recuperationem vel in luminariis ecclesiae: de qua parte sive archipresbyter sive archidiaconus illam administrans, episcopo faciat rationem» (CONC. BRACARENSE II, a. 563, c. 7, in MANSI, IX, 778). 50 Cfr. CONC. BRACARENSE III, a. 578, c. 2, in MANSI, IX, 839. 51 Di questi beni personali, il chierico ha piena libertà e disposizione, può testare a favore di chi meglio ritiene opportuno, e li può donare in vita (cfr. CONC. ANTIOCHENUM, a. 341, c. 24, in MANSI, II, 1318; CONC. CARTHAGINENSE III, a. 397, c. 49, in MANSI, III, 892). 52 «Il sostentamento del clero rurale dipendeva inizialmente dalle elargizioni del vescovo e dalle offerte dei fedeli. Tale sistema era molto aleatorio, per cui, dal V secolo, si nota anche nel campo economico l’inizio di una certa autonomia della parrocchia» (J. DANIÉLOU- H. MARROU, Nuova storia, I, 541). 53 «Tali assegnazioni, fatte prima sotto la forma di precaria o prestaria romana, cioè concessione in godimento sempre revocabile di un immobile ai chierici addetti a quella chiesa e allo scopo di provvedere al loro sostentamento, furono dal VI secolo date in proprietà in modo definitivo ed irrevocabile, sicché la chiesa rusticana o locale divenne soggetto di diritti patrimoniali a sé, con beni propri, le cui rendite erano destinate a vari scopi, fra i quali il principale era quello di provvedere al mantenimento del chierico che ad essa in seguito all’ordinazione veniva addetto» (D. SCHIAPPOLI, «Benefici ecclesiastici», 271). 54 Cfr. sul tema G. FORCHIELLI, La pieve rurale, 204 e 206; L. NANNI, «L’evoluzione», 498-499. 55 Circa il sorgere delle grandi fondazioni monastiche sappiamo che: «si formarono in questo modo sino dall’età classica e si organizzarono sempre più durante la prima età barbarica nuovi centri patrimoniali con vita ed interessi propri, ben distinti e divisi da quelli che erano sotto la diretta dipendenza del vescovo» (P. PASCHINI, «Beneficio ecclesiastico», 1306). 56 FELICIS IV, Const. Ap. Laudanda est decessorum, a. 526-530, in PL, 65, 13. 57 Cfr. A. GALANTE, «Il Beneficio ecclesiastico», 32-34. 58 Cfr. U. STUTZ, Die Verwaltungund, 64-65. 59 «Si qui vero de clero praedia urbana, vel rustica ad Ecclesiam pertinentia detinet, eisdem libellis sub justa pensionis aestimatione factis statuimus collocanda» (FELICIS IV, Const. Ap. Laudanda est decessorum, a. 526-530, in PL, 65, 13). 60 Cfr. CONC. CARPENTORACTENSE, a. 527, c. unicus, in MANSI, VIII, 707. Si consideri anche che il CONC. AURELIANENSE I, a. 511, cc. 14-15, in MANSI, VIII, 354, stabilì che il vescovo non avesse più l’obbligazione di corrispondere al clero lo stipendium ricavato dalla quadriripartizione quando la chiesa rurale fosse stata in grado di fornire il necessario per il sostentamento. 61 «Si episcopus humanitatis intuitu vineolas, vel terrulas, clericis vel monachis praestiterit excolendas, vel pro tempore tenendas, etiam si longa transisse annorum spatia comprobentur, nullum ecclesia praeiudicium patiatur, nec speculari lege praescriptio quae ecclesiae aliquid impediat opponatur» (CONC. AURELIANENSE I, a. 511, c. 23, in MANSI, VIII, 355). 62 Cfr. CONC. TOLETANUM VI, a. 638, c. 5, in MANSI, X, 664-665. 63 Fondamentale in argomento resta l’opera di E. LESNE, Histoire de la proprieté. 64 «La prima traccia di legislazione [sulle decime] si trova nei concili di Tours del 567 e di Mâcon (MANSI, IX, 804-805, 932) del 583 […]. I concili dell’età di mezzo ripetono frequentemente il precetto del pagamento della decima, segno evidente che incontrava molte difficoltà di applicazione. Sotto questo aspetto è meritoria l’opera di Carlomagno che, oltre a ripetere in molti suoi capitolari quest’obbligo e ad assoggettarvi i beni stessi del sovrano, fece intervenire contro i recalcitranti l’autorità civile con multe, sequestro di beni, prigione, esilio e confisca […] e rese praticamente generale l’obbligo giuridico di pagare la decima» (P. PALAZZINI, «Decima», 1270). 65 «Statuimus quoque cum consilio servorum Dei et populi christiani propter inminentia bella et persecutiones ceterarum gentium, quae in circuitu nostro sunt, ut sub precario et censu aliquam partem ecclesialis pecuniae in adiutorium exercitus nostri cum indulgentia Dei aliquanto tempore retineamus, ea conditione ut annis singulis de unaquaque casata solidus, id est duodecim denarii, ad ecclesiam vel monasterium reddatur, eo modo ut, si moriatur ille, cui pecunia comodata fuit, ecclesia cum propia pecunia rivestita sit» (KARLMANNUS, Capitulare Liptinense, a. 742-743, cap. 2, in MGH, Epistolae Selectae, I, 102). 66 «Ut unaquaeque ecclesia suum presbyterum habeat, ubi id fieri facultas providente episcopo permiserit» (LUDOVICO IL PIO, Capitulare Ecclesiasticum, a. 818, cap. 11, in MGH, Legum Sectio II Capitularia Regum Francorum, I, 277). 67 «La decentralizzazione delle diocesi, trascinando con sé il frazionamento del patrimonio e delle risorse, contribuisce all’autonomia delle chiese sia nella città vescovile che nelle campagne. Il clero non vive più alla tavola del Vescovo, ma direttamente a carico dei fedeli o della dotazione fondiaria della Chiesa. Da questa dotazione nascerà più tardi il beneficio. Lo stesso capitolo cattedrale dividerà il suo patrimonio in prebende, quando i membri abbandoneranno la comunità claustrale» (P. PALAZZINI, «La aequa remuneratio», 10). 68 La problematica del titolo canonico e del divieto di ordinazioni assolute verrà affrontata nel capitolo secondo del presente lavoro. 69 Cfr. L. BRUZZA, «Fondazione e dotazione della Chiesa di S.a Maria de Cornuta fatta in Tivoli da Valila Goto, anno 471», Regesto, 15-17; L. DUCHESNE, Le Liber pontificalis, I, 146-147. 70 «L’imperatore Zenone (474-491) con una celebre costituzione accolta nel Codice Giustinianeo (L. 15, de sacrosanctis ecclesiis, C. I, 2) dichiara valide le donazioni fatte alle chiese, stabilendo il principio che dovessero adempiersi le condizioni e le modalità imposta dal donatore» (A. GALANTE, «Il Beneficio ecclesiastico», 30). 71 «Si andò creando uno stato di cose, secondo il nostro modo di vedere, confuso ed arbitrario; grazie infatti a queste iniziative personali, la fondazione di enti ecclesiastici non era sempre in relazione con i bisogni dei luoghi, ma piuttosto in relazione con i desideri dei fondatori di provvedere a maggior numero di chierici ed a maggior splendore di culto; mentre molte volte la ricchezza delle rendite non corrispondeva all’importanza dell’ufficio, ma dipendeva dalla generosità del fondatore» (P. PASCHINI, «Beneficio ecclesiastico», 1308). 72 Cfr. D. SCHIAPPOLI, «Benefici ecclesiastici», 271. 73 «Nell’ottavo secolo il sistema delle chiese proprie appare introdotto su larga scala – il numero delle chiese proprie era di gran lunga superiore a quello delle chiese dipendenti dai vescovi – e diede valido incremento allo sviluppo della chiesa nazionale franca. Nell’epoca missionaria esso contribuì assai a provvedere di chiese i territori rurali» (K. BIHLMEYER-H. TUECHLE, Storia della Chiesa, II, 131). 74 «La chiesa veniva riguardata come parte del patrimonio del fondatore e dei suoi eredi e poteva formare oggetto di negozi giuridici di diritto privato con l’unica limitazione che gli atti di disposizione fossero conformi allo scopo di essa» (D. SCHIAPPOLI, «Benefici ecclesiastici», 271). 75 «Abusi derivavano anche dal mundio e cioè dalla soggezione degli abitanti del fondo al dominus dello stesso, che considerandosi advocatus dei suoi soggetti s’immischiava anche nella provvista degli uffici minori» (G. PACELLI, «Diritto di patronato», 978). 76 «Alcuni concili del VI secolo e alcune lettere di vescovi la menzionano [«la chiesa privata»] in Gallia e denunciano gli abusi ai quali essa dà luogo […] Agobardo si ribella alle vendite di chiese, cui questo regime dà luogo. Egli deplora la condizione di dipendenza nella quale si trovano i sacerdoti delle chiese nei confronti del padrone del territorio. Hincmar, nel suo trattato De ecclesiis et capellis, scritto verso l’858-860, cerca di conciliare privatizzazione delle chiese e salvaguarda del controllo episcopale. Alcuni capitolari ed il concilio di Valence nell’855 (c. 9) condannano, senza successo, «la chiesa privata»» (J. GAUDEMET, Storia del Diritto Canonico, 277). 77 «Gli istituti monastici con questo loro progressivo sviluppo vennero perciò quasi ad incastrarsi nelle circoscrizioni diocesane, occupando talora territori in diocesi diverse, turbandone così in qualche modo l’uniforme distribuzione, e creando delle condizioni di fatto diverse secondo l’indole e lo sviluppo dei singoli monasteri» (P. PASCHINI, «Beneficio ecclesiastico», 1306). 78 «Si quis basilicam non pro devotione fidei, sed pro quaestu cupiditatis aedificat, ut quidquid ibidem de oblatione populi colligitur, medium cum clericis dividat: eo quod basilicam in terra sua ipse condiderit; quod in aliquibus locis usque modo dicitur fieri. Hoc ergo de cetero observari debet, ut nullus episcoporum tam abominabili voto consentiat, ut basilicam, quae non pro sanctorum patrocinio, sed magis [sub] tributaria conditione est condita, audeat consecrare» (CONC. BRACARENSE III, a. 578, cap. 6, in MANSI, IX, 840). 79 CONC. TOLETANUM III, a. 589, c. 19, in MANSI, IX, 998. 80 Cfr. LUDOVICO IL PIO, Capitulare Ecclesiasticum, a. 818, cap. 10, in MGH, Legum Sectio II Capitularia Regum Francorum, I, 277, dove si afferma che la proprietà terriera deve essere di almeno un «manso», misura terriera che equivaleva a 12 iugeri (3,024 ettari=centiare). 81 «Nel decimo secolo molte diocesi in Francia erano diventate beni ereditari delle famiglie di principi secolari, i quali comparivano essi stessi come vescovi laici. La stessa sede papale venne trattata dai partiti della nobiltà romana dei secoli X e XI quasi come una loro chiesa propria» (K. BIHLMEYER-H. TUECHLE, Storia della Chiesa, II, 135). 82 CONC. LATERANENSE I, a. 1123, Canones, c. 18, in COD, 194. Lo stesso Concilio al c. 4, reca un’importante norma che, ribadendo la competenza del vescovo, riduce il diritto di patronato al semplice diritto di presentazione: «nullus omnino archidiaconus aut archipresbyter sive praepositus vel decanus animarum curam vel praebendas ecclesiae sine iudicio vel consensu episcopi alicui tribuat. Immo sicut sanctis canonibus constitutum est animarum cura et rerum ecclesiasticarum dispensatio in episcopi iudicio et potestate permaneat» (CONC. LATERANENSE I, a. 1139, Canones, c. 25, in COD, 190). 83 CONC. LATERANENSE II, a. 1139, Canones, c. 25, in COD, 202. 84 Cfr. CONC. LATERANENSE III, a. 1179, Canones, c. 17, in COD, 220. 85 CONC. LATERANENSE IV, a. 1215, Constitutiones, cost. 25, in COD, 247. 86 «Statuimus, ut quicumque receperit aliquod beneficium habens curam animarum annexam, si prius tale beneficium obtinebat, eo sit iure ipso privatus, et si forte illud retinere contenderit, alio etiam spolietur» (CONC. LATERANENSE IV, a. 1215, Constitutiones, cost. 29, in COD, 248). 87 «Exstirpandae consuetudinis vitium in quibusdam partibus inolevit, quod scilicet patroni ecclesiarum parochialium et aliae quaedam personae, proventus ipsarum sibi penitus vendicantes, presbyteris earundem servitiis deputatis relinquunt adeo exiguam portionem, ut ex ea congrue nequeant sustentari» (CONC. LATERANENSE IV, a. 1215, Constitutiones, cost. 32, in COD, 249-250). 88 «Spinte all’estremo, queste pratiche portavano all’affitto delle chiese. Contratti d’affitto passati davanti a un notaio davano delle parrocchie in affitto a dei vicari, in alcuni casi a dei laici, che assumevano un sacerdote. Questo «clero mercenario» doveva in teoria essere approvato dal vescovo. Questa esigenza, però, fu osservata poco» (J. GAUDEMET, Storia del Diritto Canonico, 509). 89 «Doveva peraltro essere oggetto della dottrina e della giurisprudenza canonistica, che vien man mano affermandosi dopo il secolo XII, lo studiare teoricamente il contenuto giuridico del sistema beneficiario, e soprattutto il rapporto tra il beneficio ed il titolare di esso» (A. GALANTE, «Il Beneficio ecclesiastico», 157). 90 Cfr. J. GAUDEMET, Storia del Diritto Canonico, 554. 91 T. AMBROSETTI, «Benefizi ecclesiastici», 315. 92 G. STOCCHIERO, Il Beneficio ecclesiastico sede plena, 21. 93 CONC. NEMAUSENSE, a. 1096, c. 7, in MANSI, XX, 935-936. Può essere interessante il raffronto con la categorica dichiarazione di principio posta all’esordio del cap. 7 del Decretum de reformatione generali emanato, ben cinque secoli dopo, dal Concilio di Trento: «Cum in beneficiis ecclesiasticis ea, quae haereditariae successionis imaginem referunt, sacris constitutionibus sint odiosa et patrum decretis contraria» (CONC. TRIDENTINUM, sess. XXV, cap. 7, in COD, 788). 94 CONC. LATERANENSE II, a. 1139, c. 16, in COD, 201. 95 CONC. TURONENSE, a. 1163, c. 1, in MANSI, 21, 1176. 96 «Ma il diritto romano conosce solo le corporazioni non le istituzioni […] Spetta al diritto canonico il merito di avere sviluppato il concetto spirituale e trascendente di istituto, chè anzi esso colora le stesse corporazioni d’una tinta istituzionale. […] Ogni ufficio ecclesiastico dotato di patrimonio è trattato come ente, e mano mano che si accresce la specializzazione e la localizzazione di questi uffici, si accresce il numero degli istituti ecclesiastici» (F. FERRARA, Le persone giuridiche, 9). 97 B. BIONDI, Istituzioni, 143-144. 98 E. ALBERTARIO, «Il concetto», 13. 99 A. GALANTE, «Il Beneficio ecclesiastico», 83-84, che cita Commentaria Innocentii IV Pont. M. super libros V decretalium, Francofurti a M. 1570, ad c. 3, X (2, 19), nn. 1-2. 100 A. GALANTE, «Il Beneficio ecclesiastico», 162, che cita Commentaria Innocentii IV Pont. M. super libros V decretalium, Francofurti a M. 1570, ad c. 9, X (I, 2), n. 9. 101 L’Autore qualifica espressamente il beneficiario come «dominus rerum beneficii» (F. SARMIENTO, De redditibus ecclesiasticis, 232r). 102 A. GALANTE, «Il Beneficio ecclesiastico», 165, che cita Commentaria Innocentii IV Pont. M. super libros V decretalium, Francofurti a M. 1570, ad c. 15, X (I, 6), n. 1. 103 «Ben prima del Concilio di Trento, la Chiesa aveva cominciato a cercare rimedio per i gravissimi mali che pesavano sulla sua esistenza dalla fine del Medioevo. […] Tuttavia, a mano a mano che il protestantesimo allargava la propria diffusione, a mano a mano che si rafforzavano, soprattutto, le sue strutture istituzionali, queste riforme sparse si rivelavano insufficienti; non erano più i soli abusi di ordine disciplinare che andavano repressi, ma tutto veniva rimesso in discussione: il bagaglio dottrinale, la vita morale e spirituale, l’ecclesiologia e i principi basilari della stessa cristianità. Solo un concilio ecumenico avrebbe potuto fornire una soluzione globale a quest’ordine di problemi» (R. TAVENEAUX, «Il cattolicesimo post-tridentino», 515-516). 104 «Reverendissimi ac reverendi patres, placetne vobis […] ad incrementum et exaltationem fidei et religionis christianae, ad extirpationem haeresum, ad pacem et unionem ecclesiae, ad reformationem cleri et populi christiani, ad depressionem et extinctionem hostium christiani nominis decernere et declarare, sacrum Tridentinum et generale concilium incipere et inceptum esse?» (CONC. TRIDENTINUM, sess. I, Decretum de inchoando concilio, in COD, 660). 105 CONC. TRIDENTINUM, sess. XXII, Decretum de reformatione, c. 1, in COD, 737. 106 CONC. TRIDENTINUM, sess. XXV, Decretum de reformatione, cap. 1, in COD, 784-785. 107 CONC. TRIDENTINUM, sess. XXVI, Decretum de reformatione, c. 17, in COD, 769-770. 108 CONC. TRIDENTINUM, sess. VI, Decretum de residentia episcoporum et aliorum inferiorum, cap. 1, in COD, 681-682. Nuove norme sul tema furono dettate dal Concilio anche nella sess. XXIII, Decreta super reformatione, c. 1, in COD, 744-745. 109 «Officium sit episcoporum […] providere, ut per deputationem idoneorum vicariorum et congruae portionis fructuum assignationem cura animarum nullatenus negligatur, nimini quoad hoc privilegio seu exemptione quacumque suffragante» (CONC. TRIDENTINUM, sess. VI, Decretum de residentia episcoporum et aliorum inferiorum, cap. 2, in COD, 683). 110 CONC. TRIDENTINUM, sess. VI, Decretum de residentia episcoporum et aliorum inferiorum, cap. 1, in COD, 682. 111 Cfr. CONC. TRIDENTINUM, sess. XXIII, Decretum super reformatione, cap. 1, in COD, 774-746; L. CASTANO, Mons. Nicolò Sfondrati. L’Autore ha pubblicato il prezioso epistolario di mons. Sfondrati che, durante la terza ed ultima parte del Concilio, si distinse nel dibattito sulla residenza. La documentazione riguarda le sessioni conciliari dal 15 agosto 1561 al 23 ottobre 1563; del carteggio fanno parte 143 documenti, raccolti nell’Archivio Storico del Comune di Milano. Fondo Trivulziano – Cod. 1608 (1-2). Il vescovo di Cremona, appartenente ad una famiglia di alto lignaggio, parente di Carlo Borromeo, che era nipote dell’allora papa Pio IV, dimostrò grande indipendenza di giudizio cercando di agire sempre secondo coscienza, nonostante le pressioni che tentavano di esercitare su di lui le varie correnti pro e contro la Santa Sede che si agitavano in seno al Concilio. Sulla questione della residenza egli si pronunciò a favore della natura divini iuris dell’obbligo del beneficiario, per rafforzarne il contenuto e rimuovere i perniciosi effetti della sua inosservanza (148). Come scriveva al fratello nella lettera del I luglio 1562: «tutte le chiese, parlo delle parrocchiali, restano derelitte. Questo torna a molto pregiudicio del benefizio universale […] perch’io non posso fare eseguire che da mercenari vivissimi, di che è piena tutta la diocesi, niun ordine buono» (188). A lui si unirono altri «cinque prelati nobili e giovani» altrettanto convinti del fatto che si poteva rinnovare la Chiesa solo riformando lo stile di vita dei suoi sacerdoti (166). Purtroppo questo voto sincero dello Sfondrati fu strumentalizzato dalla corrente conservatrice, preoccupata di non indebolire le prerogative papali rispetto ai vescovi, ma di certo anche i cosiddetti conservatori riconoscevano come un pericolo per la Chiesa l’avere dei chierici nominalmente titolari di un ministero pastorale di fatto esercitato da altri (195-196). In tal modo infatti il beneficium non era che una mera fonte di rendita senza alcuna connessione con l’officium. Il CASTANO riferisce che il Papa, amareggiato dalle notizie dei dissidi tra i padri conciliari sull’argomento della residenza e convinto che Monsignor di Cremona tramava contro la sua autorità, decise di non conferirgli il cappello cardinalizio (168). Nonostante le grandi amarezze subite a seguito del suo pronunciamento conciliare, mons. Sfondrati restò fermo sulle sue posizioni e continuò a difendersi da queste accuse e da tutte le calunnie che ne seguirono chiudendosi in se stesso e disertando la compagnia degli altri Padri Conciliari, come scrisse al fratello l’11 maggio 1562. Sempre in questa lettera dichiarò: «celebro la Messa ogni mattina, che questa consolazione mi si presenta in questi travagli, che del resto io sarei mezzo disperato, perché non trovo consolazione umana che basta a sollevarmi» (165). In Dio trovò sempre la consolazione anche alla delusione per la mancata nomina cardinalizia, aspettativa che era sorta in lui più per entusiasmo giovanile e per logica conseguenza del suo rango che per reale convinzione e desiderio (37, 114). Riferendo il commento di altri sull’episodio, così chiosa il Castano: «Non so tuttavia se si possa creder all’ironia con cui il papa [Pio IV] avrebbe accompagnato il diniego: «E’ di diritto divino che i vescovi risiedano nella loro diocesi; non può il vescovo di Cremona vestire la porpora e venire a Roma». Sta il fatto che solo molti anni più tardi, mons. Buoncompagni collega dello Sfondrati al Concilio, sebbene della fazione dei conservatori, divenuto papa Gregorio XIII, chiamava il nostro al Senato della Chiesa» (169). Noi, da buoni cremonesi, qui vogliamo solo aggiungere che mons. Nicolò Sfondrati alla fine della storia andò a Roma, senza contravvenire a nessuna regola disciplinare, perché fu eletto al soglio pontificio col nome di Gregorio XIV (18). 112 Cfr. CONC. CHALCEDONENSE, a. 451, c. 6, in COD, 90. 113 Cfr. CONC. TRIDENTINUM, sess. XXI, Decretum de reformatione, c. 2, in COD, 728-729. 114 «Patrimonium vero vel pensionem obtinentes ordinari posthac non possint nisi illi, quos episcopus iudicaverit assumendos pro necessitate vel commoditate ecclesiarum suarum» (CONC. TRIDENTINUM, sess. XXI, Decretum de reformatione, c. 2, in COD, 729). 115 CONC. TRIDENTINUM, sess. XXI, Decretum de reformatione, c. 3, in COD, 729. 116 CONC. TRIDENTINUM, sess. XXI, Decretum de reformatione, c. 4, in COD, 729. 117 CONC. TRIDENTINUM, sess. XXI, Decretum de reformatione, c. 6, in COD, 730. 118 «[I seminari] nacquero per volere dei Padri di Trento, che ne decisero le linee direttrici nel luglio del 1563, nel corso della ventitreesima sessione. Il decreto faceva obbligo ad ogni chiesa cattedrale di formare alla vita ecclesiastica un certo numero di fanciulli di almeno dodici anni: i dettagli pratici dell’organizzazione erano accuratamente regolati. In paesi come l’Italia, rimasti pienamente fedeli al cattolicesimo, le concretizzazioni fecero immediatamente seguito al concilio […]. Altrove, la loro istituzione fu ritardata dalle guerre di religione […] La principale ondata di fondazione di seminari, iniziata verso il 1620, continua lungo tutto il secolo a ritmi alterni, in base alle disponibilità locali» (R. TAVENEAUX, «Il cattolicesimo post-tridentino», 527). 119 «Illis autem sacerdotibus, qui de novo erunt ecclesiis noviter erectis praeficiendi, competens assignetur portio arbitrio episcopi ex fructibus ad ecclesiam matricem quomodocumque pertinentibus» (CONC. TRIDENTINUM, sess. XXI, Decretum de reformatione, c. 4, in COD, 730). Si noti che la ripartizione dei frutti è effettuata arbitrio episcopi e che spetta dunque all’ordinario garantire un’equa distribuzione delle rendite al fine del congruo sostentamento dei suoi chierici. 120 Cfr. CONC. TRIDENTINUM, sess. XXI, Decretum de reformatione, cc. 5 e 7, in COD, 730. 121 CONC. TRIDENTINUM, sess. XXI, Decretum de reformatione, c. 8, in COD, 731. 122 CONC. TRIDENTINUM, sess. XXV, Decretum de reformatione generali, cap. 9, in COD, 789-790. 123 Cfr. CONC. TRIDENTINUM, sess. XXV, Decretum de reformatione generali, cap. 9, in COD, 790.