La definizione del concetto di beneficio ecclesiastico nella più antica dottrina canonistica
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, secondo la maggior parte degli studiosi, alla fine del IX secolo il beneficio ecclesiastico aveva già assunto le caratteristiche che nel corso della storia lo avrebbero imposto quale principale fonte di sostentamento per il clero.
Ma la precisa configurazione giuridica delle regole del sistema beneficiale, giunta poi sino alla codificazione canonica del 1917, avvenne solo in epoca successiva quando, con la nascita delle università, rifiorirono gli studi e si riscoprirono le fonti del diritto romano. Fu così, grazie all’apporto congiunto della legislazione, della giurisprudenza e soprattutto della dottrina, che – a partire dal secolo XII – si seppe trarre dalle esperienze giuridiche precedenti gli strumenti concettuali adatti a stabilire la disciplina fondamentale dell’istituto89.
Di tutto ciò è sicuramente una prova il fatto che, come spiega Jean Gaudemet, in epoca carolingia il termine beneficium indicasse ancora «concessioni di terre a volte considerevoli, fatte dal potere politico a persone di cui vuole remunerare i servigi (generalmente il servizio militare) o che cerca di accattivarsi con questo segno di benevolenza». Soltanto verso l’XI-XII secolo l’espressione «beneficio ecclesiastico», inizia a comparire nelle fonti con significato tecnico. Sempre Gaudemet ci riferisce infatti che il termine si trova nel Decreto di Graziano in testi di epoca tarda (C. 1, q. 3, c. 2 e 9) ed anche se esso è stato rintracciato in documenti di epoca anteriore, risalenti al IX secolo, ciò non dimostra l’esistenza in ambito canonistico di uno schema giuridico compiuto ed originale90.
Di diverso avviso è però Ambrosetti, secondo il quale anzi: «la parola beneficium si riscontra già usata in senso tecnico nel Concilio di Francoforte dell’anno 794 e nell’altro di Magonza dell’anno 813, onde si può argomentare con sicurezza che, già a quel tempo, era in uso il sistema beneficiario»91.
A tale proposito giova riferire anche l’opinione di Stocchiero, il quale richiamando una decretale di papa Alessandro II del 1068 che si rivolge al clero e al popolo di Lucca con la medesima locuzione in tema di sostentamento, precisa che, mentre prima era frequente il ricorso ad istituti di matrice civilistica come ad es. il precarium, per effetto dell’opera dottrinale dei decretalisti: «il beneficium ha a questo punto perso ogni traccia di origine e di giurisdizione laicale e può passare ormai a far parte del linguaggio canonistico col suo puro significato di ente di diritto ecclesiastico»92.
Quest’ultima osservazione mette ulteriormente in luce come l’aspetto dell’elaborazione teorica sia legato all’evoluzione politica dei rapporti tra potere secolare ed istituzioni religiose. In altre parole, soltanto quando fu possibile circoscrivere la sfera di influenza dell’autorità civile o dei benefattori privati sulle chiese, si riuscì a proporre anche una disciplina canonica autonoma in materia.
L’oggetto di tale disciplina fu insomma il frutto di alterne vicende storiche che è bene non dimenticare. Per inquadrare meglio il discorso sarà utile ricordare che, dal mero punto di vista della qualificazione tecnica, il beneficium, così come era venuto formandosi, pose ai canonisti una serie di interrogativi che possono schematicamente ricondursi a due ordini di questioni tra loro distinte ma non disgiunte: quelle inerenti la titolarità del patrimonio beneficiale e quelle relative alla natura giuridica del rapporto del beneficiario nei confronti del patrimonio stesso.
Prima di tutto, nel costruire la disciplina giuridica delle masse patrimoniali stabilmente destinate al sostentamento del clero, i giuristi si trovarono a dover ricercare una soluzione che consentisse di salvaguardare le finalità di tali beni; pertanto essi dovevano – in termini profani – garantire la sopravvivenza nel tempo dei patrimoni nonché il loro legame con una determinata funzione (l’officium ecclesiastico).
In tal senso vanno lette le due disposizioni conciliari mediante le quali si affermò espressamente la non ereditarietà e la indivisibilità del beneficio. Il Concilio di Nimes del 1096 sancì infatti che «quicumque ecclesias, vel earum bona, hereditaria successione possident, tamdiu ecclesiastico careant beneficio, donec quas teneant ecclesias dimittant»93.
Il patrimonio beneficiale, quindi, non era soggetto alla successione ereditaria e proprio questa sua caratteristica servì a distinguerlo da altre fattispecie di natura civilistica a cui era frequentemente assimilato, primo fra tutti il feudo, anche in considerazione del fatto che i due istituti sono più o meno di origine coeva.
Si noti però che l’ereditarietà del feudo esclude ogni analogia tra le due figure, perché sin dall’inizio il reddito beneficiale ebbe il carattere di una prestazione strettamente personale, dovuta a titolo di stipendio per un determinato officium ed in relazione ad un preciso status qual’è quello clericale, il che dava origine ad una situazione giuridica soggettiva e per sua intrinseca natura non trasmissibile ad altri.
Il principio della non ereditarietà fu ribadito con espresso divieto anche dal Concilio Lateranense II del 1139. Al canone 16 si legge infatti che la Chiesa, nell’eleggere un successore per un ufficio ecclesiastico, non guarda al diritto ereditario o ai rapporti di parentela, perché essa ricerca «honestas sapientes et religiosas personas». Pertanto, sanciscono i Padri conciliari, «auctoritate prohibemus apostolica, ne quis ecclesias, praebendas, praeposituras, capellanias aut aliqua ecclesiastica officia hereditario iure valeat vindicare aut expostulare praesumat»94.
La preoccupazione di garantire il più a lungo possibile e, potenzialmente, in perpetuum, il conseguimento dello scopo al quale i beni sono destinati è la ratio che regge anche la norma sulla indivisibilità dei benefici dettata dal Concilio di Tours nel 1163: «maioribus ecclesiae beneficiis in sua integritate manentibus, indecorum nimis videtur, ut minores clericorum praebendae recipiant sectiones». Significativo è il raffronto compiuto, più oltre nello stesso canone, tra i benefici più grandi e quelli minori, ove per il patrimonio la funzione di servire al sostentamento del clero era certamente più accentuata e per i quali, a maggior ragione, era necessario prevedere la regola della indivisibilità. Per questo, conclude il Concilio, «idcirco ut in magnis, ita quoque in minimis suis membris firmam habeant ecclesiae unitatem: divisionem praebendarum aut dignitatum permutationem fieri prohibemus»95.
4.1 Il concetto di persona giuridica e l’autonomia del patrimonio
Senza sminuire l’importanza di queste progressive acquisizioni che maggiormente denotavano gli elementi della fattispecie giuridica beneficiale, bisogna tuttavia ammettere che, dal punto di vista dottrinale, il momento decisivo fu certamente rappresentato dall’introduzione del concetto di persona giuridica e conseguentemente dal riconoscimento dell’autonomia patrimoniale di questo ente.
Si consideri, infatti, che l’idea che fosse possibile imputare dei diritti e delle obbligazioni ad un soggetto diverso dalla persona fisica era lontana dalla sensibilità degli antichi e, almeno sino alla età giustinianea, non si conoscono testimonianze della conoscenza di una tale categoria da parte dell’esperienza giuridica romana96.
Un insigne studioso come Biondi ha scritto al riguardo che: «le fonti romane presentano ordinamento e terminologia che, sia pure attraverso travisamenti e generalizzazioni, fornirono la base della teoria delle persone giuridiche, la quale è creazione degli interpreti e del diritto canonico»; per arrivare alla configurazione di un soggetto di diritto distinto dalle cose o dalle persone che compongono rispettivamente una universitas rerum o una universitas personarum occorrevano, secondo il Biondi, «quella capacità di astrazione ed attitudine per la trascendenza che risultano estranee al senso di concretezza che guida la giurisprudenza romana» e che invece era più affine alla sensibilità dei giuristi cristiani abituati a pensare la stessa Chiesa come persona, Corpus Mysticum trascendente in cui si esprime l’unità dei fedeli in rapporto col Cristo97.
Anche Albertario richiama, più o meno negli stessi termini, l’influsso della religione cristiana sulla scienza del diritto, quando scrive che «la concezione giustinianea e moderna della persona giuridica ha la sua origine e la sua base nella visione dell’Ecclesia come corpus unitario ed astratto» ed aggiunge, a commento, che si tratta di una «idea splendente nelle opere dei Padri che, della Chiesa, furono nei primi secoli ornamento insigne»98.
Il contributo dei canonisti in questa materia fu dunque geniale ed innovativo, al punto tale da creare uno dei concetti cardine del pensiero giuridico moderno.
Risolutivo fu l’apporto di un giurista genovese, Sinibaldo de’Fieschi, che divenne papa col nome di Innocenzo IV. La sua riflessione prese le mosse dal venir meno della vita collegiale del clero, con la conseguente frammentazione del patrimonio ecclesiastico determinata dal sorgere di nuove prebende e benefici; in particolare si trattava di precisare il rapporto di tali complessi di beni rispetto al capitolo originario.
Galante spiega in proposito che, poiché anche i chierici, come gli usufruttuari, in virtù del rapporto beneficiario potevano agire ed essere convenuti in giudizio per le prebende di cui godevano i frutti, Sinibaldo «si fa la domanda in nome di chi agisca in tal caso il beneficiato e risponde, in nome della prebenda stessa (nomine ipsius praebendae), affermandone l’autonomia giuridica con la dichiarazione: «imo praebenda potest sua iura habere et possidere»»99.
Per tale via, interrogandosi sulla legittimazione ad agire del beneficiario, Innocenzo IV affermò che questi agisce in nome e per conto della prebenda stessa. Fu stabilito così il principio della personalità giuridica del beneficio che, nelle epoche successive, non trovò più una formulazione altrettanto esplicita, almeno sino a quando nel 1917 il Codex Iuris Canonici definì espressamente il beneficio «ens iuridicum a competente ecclesiastica auctoritate in perpetuum constitutum» (canone 1409). Il beneficio ecclesiastico veniva ad esser considerato come un ente giuridico autonomo e sui generis, dotato di piena capacità e quindi titolare del patrimonio annesso all’ufficio.
Attraverso queste elaborazioni dottrinali in ambito canonico si dava quindi vita ad una fattispecie giuridica del tutto peculiare, dotata di una disciplina propria e regolata da un apposito complesso di norme, per indicare il quale ancor oggi si usa significativamente l’espressione «sistema beneficiale».
E’ assai evidente la portata di un simile inquadramento teorico per il regime dei sopramenzionati benefici costituiti mediante concessione vescovile, perché ciò che a livello consuetudinario era ormai acquisito – ossia un certo grado di autonomia dei benefici parrocchiali – ricevette una sistemazione coerente anche sul piano dogmatico.
Per quei benefici che erano sorti, invece, per effetto della donazione di un benefattore privato, abbiamo visto che il loro regime giuridico poteva essere ricavato anche dagli istituti di matrice civilistica, ma ciò avveniva con minori garanzie per la Chiesa e per le sue specifiche esigenze. In rapporto a questo genere di benefici va detto che la creazione di una disciplina canonica particolare ed esclusiva offrì degli strumenti concettuali tecnicamente adeguati per conciliare la volontà dei singoli benefattori con il più generale bonum Ecclesiae, senza dover adattare in maniera spuria gli istituti del diritto civile e correre il rischio di assoggettare tali patrimoni alla legislazione dell’autorità temporale.
Per altro verso, il riconoscimento della personalità giuridica del beneficio implicò anche una più precisa definizione della situazione soggettiva del beneficiario.
Era infatti conseguente affermare che, se la proprietà dei beni costituenti la dote spettava ad un ente giuridico autonomo, su tali beni il beneficiario non poteva che essere titolare di diritti in re aliena. Non si può disconoscere l’importanza di una simile acquisizione dottrinale, anche se era ben chiaro sin dall’epoca delle concessioni vescovili come il chierico non fosse proprietario dei beni beneficiali, in quanto il diritto del beneficiario aveva come oggetto una prestazione di tipo personale derivante da una concessione a titolo precario.
E’ ancora Galante a spiegare come l’affermazione della personalità giuridica del beneficio consentì ad Innocenzo IV di ricostruire la situazione giuridica soggettiva del beneficiario nei termini di diritto reale limitato tutelato con un’actio in rem: «colui, a cui vien concesso regolarmente il beneficio, può promuovere una in rem actio, una prebendae vindicatio o quasi vindicatio, in base a cui sorge una questione de dominio vel quasi dominio […]. Anche qui ritorna il concetto dell’usufrutto degli autori più antichi», oggetto dell’azione è lo ius beneficii definito dallo stesso Sinibaldo come «res aliena, quia Dei vel nullius est sicut quando petitur usufructus»100.
L’usufrutto quale diritto reale di godimento su cosa altrui fu quindi il riferimento concettuale adottato dai canonisti dell’epoca per qualificare analogicamente il rapporto beneficiale, affermandone nel contempo la piena originalità in quanto istituto regolato dall’ordinamento canonico. Tale schema concettuale ebbe grande successo e fu recepito anche nelle epoche successive, tant’è che nel Cinquecento fu riguardata come assai originale l’opinione del Sarmiento secondo cui il beneficiario sarebbe da ritenersi non usufruttuario, bensì proprietario dei beni beneficiali101.
Nell’ambito dell’indicata analogia con la figura dell’usufruttuario fu dunque trovato il riferimento normativo e dogmatico per regolare l’istituto, fissando all’interno dell’ordinamento canonico i diritti e le facoltà del beneficiario in maniera confacente alle peculiarità del beneficio stesso. A conferma di quanto detto ci piace chiudere questo paragrafo proprio con le parole di Sinibaldo de’Fieschi, secondo il quale il titolare del beneficio poteva «administrare res ecclesiae suae in temporalibus et spiritualibus tam in colligendis fructibus quam in actionibus intentandis nomine ecclesiae suae»102.