Dagli inizi al VI secolo: la «parcellizzazione» del patrimonio ecclesiastico
L’origine del sistema beneficiale è legata a quel particolare momento della storia della Chiesa in cui, passato il periodo delle persecuzioni, furono fondati dei centri di culto al di fuori del tessuto urbano. Nei suoi primi secoli di vita, infatti, il cristianesimo aveva conosciuto una grande fioritura nelle città dell’Impero romano; ma ben più lenta fu la penetrazione nelle campagne che richiese un considerevole sforzo missionario, oltre a comportare l’introduzione di significative e forti modifiche nella organizzazione patrimoniale e nella forma della Chiesa stessa.
Tra il IV ed il IX secolo, con l’evangelizzazione delle aree rurali, le comunità cristiane si moltiplicarono gradualmente diffondendosi sul territorio ed apparvero via via le chiese rusticane. Una delle prime conseguenze di ciò fu lo stabile insediamento del clero nelle campagne che – per quanto attiene alla problematica specifica del sostentamento – rese più difficoltosa l’applicazione del sistema fondato sulla ripartizione delle rendite ecclesiastiche, compiuta dal vescovo tra i suoi, tra quanti cioè risiedevano presso la sede episcopale urbana (condizione che nell’antichità abbiamo visto essere propria della maggior parte dei chierici).
L’accrescersi della struttura ecclesiastica rese evidenti tanto l’impraticabilità quanto l’insufficienza del metodo di sostentamento precedentemente in uso, prospettando concretamente alla Chiesa l’esigenza di riconoscere alle «parrocchie» un certo grado di autonomia in materia amministrativa e patrimoniale52.
Volendo tracciare almeno in maniera schematica le tappe di tale processo, che pure è articolato e complesso per la pluralità delle esperienze conosciute dalle Chiese particolari, possiamo dire che inizialmente era il vescovo a provvedere di uno stipendium i sacerdoti da lui stesso inviati al servizio delle chiese rusticane, senza mutare così il principio della distribuzione tra i chierici delle offerte dei fedeli e delle rendite del patrimonio ecclesiastico, il quale – in questa prima fase – restava indiviso ed amministrato esclusivamente dalla sede vescovile.
In seguito le elargizioni destinate al sostentamento dei chierici, che prima erano effettuate nelle forme più varie, presero quasi sempre la forma della concessione in godimento di beni immobili, i quali però, per effetto di tali atti generalmente compiuti a titolo precario, non uscivano dalla sfera giuridica di appartenenza del vescovo.
Attorno al VI secolo si attuò un sostanziale mutamento mediante la distribuzione dei beni di proprietà della Chiesa tra soggetti giuridici diversi dalla sede vescovile, nei confronti dei quali si fecero gravare le obbligazioni relative alle necessità materiali del clero e del culto. Proprio in virtù di queste assegnazioni del vescovo, che spesso coincidevano con l’atto di fondazione della parrocchia, le chiese rusticane poterono disporre di beni propri e su di essi l’ordinario conservava il potere di esercitare una sorveglianza di tipo amministrativo, affinché la destinazione dei proventi fosse compiuta secondo i medesimi canoni che disciplinavano gli altri redditi ecclesiastici53.
Si consolidava così quella dotazione patrimoniale che fu poi qualificata beneficio ecclesiastico e che nel corso dei secoli permise di garantire alle chiese rurali una sufficiente autonomia economica. E’ immediatamente comprensibile che in un’epoca in cui le comunicazioni ed il trasferimento dei beni mobili erano assai ardui, la proprietà fondiaria rappresentava per la Chiesa la più stabile e sicura fonte di reddito, soluzione efficace ai bisogni del clero nonché fattore decisivo per l’organizzazione territoriale della vita pastorale54.
Con l’istituzione delle parrocchie ed il sorgere dei grandi complessi monastici, una pluralità di enti e di figure giuridiche veniva ad affiancarsi alla mensa vescovile, fornendo alla Chiesa nuove ed articolate possibilità per il sostentamento del clero55. Tra gli studiosi non è mancato chi in proposito ha parlato di rottura dell’unità patrimoniale dell’asse ecclesiastico e si tratta di una espressione che, a nostro avviso, ben descrive la situazione a cui abbiamo sinora accennato: al «centralismo» della sede episcopale subentra un sistema patrimoniale «parcellizzato», ma pur sempre sottoposto – almeno in linea di principio – all’autorità del vescovo.
Una Costituzione di Felice IV indirizzata alla chiesa di Ravenna, fra gli anni 526 e 530, pare dimostrare verosimilmente che la transizione da un sistema all’altro fu graduale e non immediata, perché nel documento si attesta la coesistenza della regola della quadripartizione delle rendite con la nuova prassi delle concessioni vescovili di beni immobili ai chierici. Riguardo alle donazioni a suffragio dell’anima, in essa si legge appunto che «circa praedia urbana, vel rustica caeteraque mobilia pro animae suae mercede a fidelibus nominatim diversis basilicis derelicta, vetus consuetudo servetur»56.
Secondo Galante l’espressione «vetus consuetudo» indica la persistenza normativa della quadripartizione che, nonostante la presenza di un nuovo ordine di rapporti giuridici e patrimoniali, sarebbe stata ancora vigente nei casi di disposizioni generiche, nel caso in cui il donatore non avesse imposto particolari oneri o condizioni a carico dei beneficiari57.
Di diverso avviso era lo Stutz, per il quale questa espressione rappresentava soltanto un generico rimando alle consuetudini in uso presso la chiesa destinataria della liberalità e perciò la disposizione di Felice IV si limiterebbe ad ingiungere il ricorso alle norme consuetudinarie, ad integrazione della volontà dei donatori. A parere dello Stutz, infatti, in quest’epoca non era ancora avvenuta quella specializzazione del patrimonio ecclesiastico mediante l’assegnazione di beni ai chierici che consentirebbe di ritenere superata, seppur ancora vigente in via sussidiaria, la regola della quadripartizione58.
La stessa costituzione Feliciana, in un altro passo, accenna invece alle concessioni vescovili e si tratta di una testimonianza molto rilevante, perché viene riferita espressamente l’esistenza nel VI secolo di un qualche possesso di beni urbani o rustici da parte dei chierici addetti al servizio di una determinata chiesa59.
Significative in tal senso sono pure le deliberazioni assunte dal Concilio di Carpentras nell’anno 527, secondo cui alla mensa vescovile doveva essere assegnato soltanto il superfluo residuo delle elargizioni alle chiese rurali, lasciando inalterata la facultatula dei chierici, dove per facultatula dovrebbe intendersi quella determinata quantità di beni destinata stabilmente alle necessità del clero. Per molti si tratterebbe di una forma di dote beneficiale, anche se primitiva e rozza60.
Qualche anno prima, intervenendo sul medesimo tema, il Concilio di Orleans del 511 aveva dettato una significativa norma di tutela del patrimonio ecclesiastico e della sua destinazione, stabilendo che fosse esclusa per i chierici assegnatari dei beni, concessi in godimento dal vescovo humanitatis intuitu, la possibilità di acquisirne la proprietà mediante l’istituto della praescriptio61. Analogamente il Concilio Toledano VI del 638 per tutelare nel tempo i diritti della Chiesa sui beni suddetti, ordina che queste concessioni vengano iscritte come precarium62.
Le disposizioni dei concili particolari sin qui segnalate inducono a riconoscere l’avvenuta affermazione del sistema delle concessioni ab episcopo come una delle forme di sostentamento per il clero, derivata da quel processo di frammentazione del patrimonio vescovile che nel VI secolo era ormai avviato ed irreversibile.
3.2 Dal VII al X secolo: le chiese private
Nei secoli successivi, queste concessioni, che potremmo già definire, latu sensu, beneficiali, andarono crescendo sempre più. Si consideri inoltre che in molti casi esse furono un prezioso strumento per difendere il ricco patrimonio ecclesiastico dalle usurpazioni dell’autorità civile e preservare, nei rapporti con il clero, l’autorità del vescovo sulle chiese che si venivano a fondare nelle aree rurali.
Indicative sono le vicende dell’asse ecclesiastico in età carolingia63. A partire da Carlo Martello (714-741), i carolingi praticarono diffusamente una politica di sottrazione dei beni della Chiesa. Senza che vi fossero provvedimenti legislativi di secolarizzazione, accadeva che il sovrano disponesse delle proprietà ecclesiastiche distribuendole tra i nobili ed i grandi del regno; non pochi vassalli, pur essendo laici, si trovavano così titolari di sedi episcopali o abbaziali, le cui terre rappresentavano per essi la remunerazione di servigi militari resi alla corona. La concessione era compiuta invero a vario titolo (precaria verbo regis, in commendam, usufrutto) ed era sempre sottoposta alla condizione che alla morte del beneficiario i beni dovessero essere restituiti alla Chiesa; ma nulla impediva al sovrano di rinnovarla a favore di qualcun altro.
Lo stesso Carlo Magno continuò a concedere in precario le proprietà ecclesiastiche, benché avesse sostenuto in vario modo le ragioni della Chiesa ed avesse reso obbligatorie le decime perché servissero al sostentamento del clero, sanzionandone il mancato pagamento e ponendo dei limiti geografici alle parrocchie per facilitarne la riscossione64.
L’indubitabile ambiguità dell’atteggiamento di Carlo Magno fu dettata forse dalle condizioni contingenti. Nel capitulare Liptinense, infatti, ove sono disposte restituzioni e reintegrazioni in denaro a favore della Chiesa, si prevede anche che queste possano essere revocate: «et iterum, si necessitas cogat, ut princeps iubeat, precarium renovetur et rescribatur novum» (il precarium in questione riguarda i beni ecclesiastici da restituirsi).
Nello stesso documento, però, si aggiunge un principio assai importante del quale si valsero le autorità ecclesiastiche per tutelarsi «et omnino observetur, ut ecclesiae vel monasteria penuriam et paupertatem non patiantur, quorum pecunia in precario prestita sit; sed, si paupertas cogat, ecclesiae et domui Dei reddatur integra possessio»65.
Proprio per reagire a quelle che erano vere e proprie spoliazioni da parte dell’autorità secolare, nel IX secolo, in ambito ecclesiastico si diede nuovo impulso alla distribuzione delle masse patrimoniali tra i chierici.
Qualificando queste concessioni come elargizioni pro stipendio, era infatti possibile contrapporre un valido ostacolo alle pretese del potere laico perché – come attesta anche il capitulare sopra citato – era regola riconosciuta il lasciare alle chiese l’indispensabile per il culto ed il mantenimento dei sacerdoti.
I vescovi creavano così delle parrocchie direttamente sottoposte alla loro autorità e non a quella di un signore privato, titolare dei diritti sui beni annessi alla chiesa. Per queste parrocchie venivano poi ordinati sacerdoti che avevano l’obbligo della residenza e della cura delle anime; essi vivevano delle rendite delle terre avute in assegnazione pro officio66.
Sempre sul versante del contributo recato dalle istituzioni religiose alla formazione del sistema beneficiale, occorre menzionare lo scioglimento della vita communis del clero, un istituto di origine agostiniana che segnò profondamente il carattere della Chiesa dei primi tempi e che terminò quasi del tutto nel secolo IX.
Al clero residente in comunità nella cattedrale, nelle chiese episcopali ed in quelle monastiche, i vescovi assegnavano generalmente dei beni immobili, che dovevano essere amministrati in comune; dalle rendite si attingeva per la mensa capitolare, il rimanente veniva ripartito tra i sacerdoti per le loro necessità.
Queste assegnazioni erano chiamate prebende ed erano in pratica un’altra forma di beneficio: infatti anche in questo caso il vincolo esistente tra chiesa e patrimonio, tra ufficio e sostentamento originava quel minimo di sicurezza economica, che la Chiesa auspicava per il suo clero. Quando poi la vita comunitaria cadde in desuetudine, le masse patrimoniali che costituivano le prebende furono suddivise in porzioni più piccole ed assegnate individualmente ai chierici67.
Il concetto di remunerazione dei ministri di culto fu dunque ben presente anche alla Chiesa di quest’epoca; né è prova il fatto che già nel 451, con il Concilio di Calcedonia, proprio per dare al chierico l’autonomia economica e morale necessaria a svolgere il suo compito spirituale, si vietarono le ordinazioni sine titulo, sprovviste cioè della garanzia di un reddito vitalizio sufficiente per il decoroso sostentamento dell’ordinando68.
Accanto alle parrocchie di fondazione vescovile e quindi interamente dipendenti dall’autorità ecclesiastica, l’organizzazione della Chiesa nel periodo che stiamo considerando conobbe anche un altro importante fenomeno, che condizionò la formazione del sistema beneficiale.
Si tratta della fondazione di chiese da parte di privati con atti che, parallelamente alle concessioni vescovili, assieme all’edificio per il culto dotavano le istituende chiese dei beni occorrenti a far fronte a tutte le necessità materiali, compreso il sostentamento del clero ad esse preposto. In merito uno dei primi casi attestati dalle fonti è probabilmente la donazione disposta nel V secolo da Flavio Valila, goto di fede cattolica, in favore della chiesa di Santa Maria di Cornuta in territorio di Tivoli69.
In tale atto una parte del cospicuo patrimonio in terreni fu devoluta direttamente alla chiesa per la fabbrica, per il culto e per il mantenimento del clero. Un’altra parte dei poderi, già donata alla chiesa, rimase in usufrutto al donatore, il quale stabilì anche che la fondazione fosse autonoma dall’amministrazione vescovile e che la donazione fosse revocata in favore dei propri eredi, qualora il vescovo o i chierici preposti avessero usato per altri scopi la dotazione della chiesa.
Il ricorrente utilizzo dello schema costituito da un atto di liberalità sottoposto a condizione, che trovò espresso e specifico riconoscimento di validità anche da parte del legislatore civile70, offrì uno strumento adeguato a costituire larghe porzioni di patrimonio ecclesiastico, dotate di autonomia giuridica e patrimoniale rispetto alla sede vescovile. Il diffondersi di questa prassi accentuò il particolarismo giuridico in materia, diversificando fortemente le condizioni degli enti ecclesiastici e del clero.
Si noti che ciò, se da un lato consentì di incrementare grandemente la presenza territoriale della Chiesa, dall’altro causò anche considerevoli inconvenienti, poiché non sempre le scelte dei fondatori privati tennero conto delle effettive necessità del culto e di quei profili più propriamente ecclesiali, che meglio potevano essere valutati dalla sede vescovile nella costituzione delle parrocchie e nella loro dotazione patrimoniale. In seguito poi si pretese addirittura di svincolare queste chiese dal controllo dell’autorità ecclesiastica, assorbendole nel sistema dei rapporti feudali con grave pregiudizio per il clero71.
Le concessioni beneficiali da parte dell’autorità ecclesiastica e le donazioni dei nobili e dei feudatari rappresentano dunque le due cause concorrenti che contribuiscono a far sorgere il sistema beneficiale, perché, per effetto di esse, la sede vescovile cessa di essere l’unico luogo presso cui si raccolgono, si amministrano e si ripartiscono tra i chierici i beni, le decime, le rendite e le offerte dei fedeli.
Con utile sintesi Schiappoli ha spiegato che in entrambi i casi il chierico preposto percepiva direttamente il reddito del patrimonio collegato alla chiesa così istituita e ne era l’amministratore diretto, in maniera autonoma rispetto al vescovo, pur restando ad esso subordinato72. Fu questo il risultato di un lungo processo, nel quale – ai fini dell’impostazione del presente lavoro – l’esito è forse più interessante dell’iter, benché il confronto e talvolta il conflitto fra i due elementi sopraccitati (l’autorità religiosa ed il potere temporale) abbia profondamente segnato l’epoca in cui il beneficio assunse quella specifica configurazione di cui daremo conto più oltre.
Qualche annotazione in più è però indispensabile, soprattutto se si considera che nell’alto medioevo il modello prevalente di organizzazione ecclesiastica fu espresso proprio dall’iniziativa dei signori feudali in concorrenza con i pastori della chiesa.
L’affermazione del cosiddetto sistema delle chiese proprie o chiese private avvenne con particolare intensità nei paesi di matrice germanica, ma si verificò poi anche nel regno dei Franchi e, con qualche mitigazione, in Spagna e in Italia73.
E’ ancora Schiappoli a spiegarci in maniera concisa i tratti di questo modello, che alla fine dell’Ottocento fu accuratamente studiato dallo Stutz: «le chiese di fondazione privata non si staccavano dal patrimonio del fondatore: onde i concetti di eigenkirche o ecclesia propria e della dos ecclesiae. Al proprietario del fondo su cui era stata costruita la chiesa si riconobbe non solo la proprietà della medesima ma anche la facoltà di preporvi l’ecclesiastico»74.
In cambio della destinazione di alcuni beni alle necessità della Chiesa, un laico acquisiva il privilegio di conferire la titolarità di un ufficio ecclesiastico e la relativa prebenda; in epoca successiva questo privilegio, per i benefici minori, fu qualificato dai giuristi come ius patronatus, ma si risolse nel più limitato diritto di presentare al vescovo un candidato, dotato di tutti i requisiti richiesti per l’ufficio vacante, ferma restando la competenza dell’ordinario.
Nel VI secolo la legislazione giustinianea disciplinò il fenomeno stabilendo che i fondatori avessero il diritto di nominare il clero necessario alla chiesa in questione, fatta salva però l’approvazione del vescovo (Nov. 57, c. 2). Venne inoltre riconosciuto al fondatore ed ai suoi eredi anche il diritto di amministrare i beni della chiesa fondata (C., I, 3, 54).
In Occidente il Concilio Toledano IV dell’anno 633 (c. 31, c. XVI, q. 7) concesse ai laici fondatori il diritto di presentare al vescovo il candidato per l’ufficio annesso alla chiesa.
Con lo svilupparsi delle istituzioni feudali, soprattutto per l’influenza del diritto germanico, le pretese del patrono sulle chiese si estesero alla nomina ed alla deposizione del clero preposto alle stesse, prescindendo dall’approvazione dell’autorità ecclesiastica. Ciò era ritenuto una diretta conseguenza del più generico potere di investitura relativo alle terre annesse all’ufficio. Il sacerdote dunque che veniva nominato quale rettore di una chiesa privata era considerato un vassallo del dominus e non di rado su di lui gravavano anche delle corvées75.
Ponendosi in una prospettiva critica, appare evidente come questo privilegio fosse in aperto contrasto con la natura stessa dell’officium esercitato dal chierico e come, mediante il vincolo vassallatico di fedeltà, la Chiesa venisse esposta all’arbitrio dei privati fondatori nonché alla ingerenza sempre più massiccia del potere secolare nelle sue istituzioni. In questo modo la dipendenza economica del clero verso i potentati locali era fortemente accentuata76.
Di certo, anche dal punto di vista giuridico, non era facile conciliare le prerogative della proprietà laica con il rispetto dei diritti della Chiesa, anche perché in molti casi il signore – in quanto proprietario pleno iure – vantava dei diritti riconosciuti sulle entrate della chiesa, ivi comprese le offerte dei fedeli. Si registrano infatti nelle fonti delle dispute tra gli eredi di un fondatore per la spartizione delle decime, delle oblazioni e delle varie offerte pervenute alla chiesa, né mancano esempi in cui il signore percepiva direttamente le rendite della chiesa, restando libero di assegnare in misura discrezionale uno stipendium al chierico. Quest’ultimo comportamento era ancora presente all’epoca del Concilio Lateranense IV, che – come vedremo – intervenne per stigmatizzarlo.
Il rischio di conflittualità, quanto meno in campo economico, era assai minore quando le chiese erano di proprietà di un chierico o di un monastero; considerato però che il sistema della chiesa privata sottraeva i chierici così sostentati all’autorità del vescovo, anche in questi casi potevano verificarsi seri disordini nel campo disciplinare e spirituale77.
Abbiamo detto che, in questa configurazione giuridica, il proprietario della chiesa ed i suoi eredi conservavano la facoltà di disporre dei beni inizialmente annessi alla chiesa stessa. A lungo andare, per effetto di ciò, l’appropriazione dei cespiti ecclesiastici da parte dei laici e la possibilità di modificare la consistenza di tali patrimoni mediante legittime alienazioni produssero situazioni di grave precarietà per la vita dei chierici.
Dal canto loro i documenti conciliari intervennero energicamente ed in ripetute occasioni condannando il comportamento di coloro che fondavano una chiesa per ricavarne profitto, senza esitare a far vivere miseramente i chierici ad essa preposti78.
In Spagna, il Concilio Toledano III dell’anno 589 cercò invano di porre argine a questa prassi che, tra l’altro, sminuiva il ruolo e la funzione episcopale: «Multi contra canonum costituta sic ecclesias, quas aedificaverint, postulant consecrari, ut dotem quam ei ecclesiae contulerint, censeant ad episcopi ordinationem non pertinere, quod factum et in praeteritum displicet et in futuro prohibetur»79.
Sul versante civile, anche Ludovico il Pio si preoccupò di tutelare gli ecclesiastici disponendo che le chiese private, al momento della fondazione, fossero dotate di beni immobili sufficienti per sostentare il clero, che vi era stato chiamato dal signore per il servizio divino80.
In realtà, come abbiamo visto, non di rado i proprietari preferirono eludere le leggi ecclesiastiche e secolari ed invece di accontentarsi del censo del rettore della parrocchia lasciando tutte le altre entrate al clero per il proprio sostentamento, per la fabbrica, per i poveri ed il culto, assegnarono uno stipendio al sacerdote, tenendosi tutto il resto, comprese le decime e i diritti di stola.
Queste assegnazioni soggette al capriccio di un signore, spesso insufficienti per vivere, non presentavano alcun margine di sicurezza e nella maggioranza dei casi furono i fedeli a sostenere il proprio clero attraverso le oblazioni sacramentali o diritti di stola. La Chiesa si batté per tutto l’XI secolo perché questi diritti restassero ai sacerdoti e questi potessero godere di effettiva indipendenza.
3.3. La lotta per le investiture ed il Concilio Lateranense IV
Ma una situazione ancor più grave ed intollerabile si verificò quando il principio che stava a fondamento della «chiesa privata» fu applicato dai monarchi ai più alti uffici ecclesiastici. In buona sostanza, secondo gli schemi del vassallaggio feudale, mediante la cerimonia dell’investitura il re riceveva dal candidato alla dignità episcopale un giuramento di fedeltà giustificato dal fatto che egli disponeva del potere di conferire gli uffici ecclesiastici e le prebende ad essi collegate81.
L’ingerenza laica nella Chiesa raggiunse il massimo durante il dominio della casata imperiale di Sassonia (dal 962 fino al 1002). Già ai sovrani carolingi era stato riconosciuto il diritto di partecipare alle elezioni dei vescovi, diritto che non era mai stato revocato e che servì ad Ottone I per inserirsi nella vita ecclesiale.
La facoltà di nominare la gerarchia ecclesiastica rappresentava un grande vantaggio per l’Impero e garantiva di conservare il pieno controllo dei feudi all’imperatore, che istituiva vescovi ed abati come propri conti e vassalli, sottraendo le terre al regime ereditario ed evitando il rischio che l’aristocrazia feudale si rafforzasse sino a mettersi in concorrenza con la corona stessa.
La ben conosciuta storia della lotta della Chiesa contro le ingerenze del potere secolare ha trovato grande eco presso gli storici per la celebre questione delle investiture riguardante gli uffici ecclesiastici maggiori, ma val bene ricordare come essa abbia intersecato e, in un certo qual modo, amplificato la non meno importante problematica delle chiese proprie e del sostentamento del clero. Senza ripercorrerne analiticamente gli episodi, ci pare opportuno almeno mettere in luce come la formazione dell’istituto beneficiale scaturisca da complesse e travagliate vicende in cui era in gioco il valore fondamentale della libertas Ecclesiae.
Nello stato di fatto sopra descritto è palese quanto profonda fosse l’esigenza di una riforma della Chiesa e dei suoi rapporti con l’autorità civile. La soluzione per le investiture vescovili venne trovata con il concordato di Worms, stipulato nel 1122, mediante il quale iniziò l’abolizione di ogni forma di investitura laicale e si restituì alla Chiesa il diritto di conferire gli uffici episcopali senza intromissioni da parte del potere regio.
In merito al regime delle «chiese proprie», a partire da quest’epoca sono numerosi anche gli interventi dei concili volti a precisare e delimitare le prerogative del patrono, sino a far perdere allo ius patronatus quelle caratteristiche di diritto reale che tanto negativamente nei secoli precedenti avevano influito sulla vita della Chiesa.
Quasi contemporaneamente al concordato di Worms, infatti, il Concilio Lateranense I del 1123 riafferma l’inderogabilità della competenza episcopale in materia di conferimento degli uffici ecclesiastici in genere, senza distinguere tra chiese proprie e chiese di fondazione vescovile: «in paroecialibus ecclesiis presbyteri per episcopos constituantur»; la ratio della norma è chiarita nella subordinata relativa successiva a tale enunciazione, ove si precisa che i vescovi sono chiamati a nominare dei presbiteri «qui eis respondeant de animarum cura et de iis quae ad episcopum pertinent». Il clero non deve quindi riconoscere altra autorità se non quella del suo vescovo. Circa la problematica delle chiese proprie, lo stesso canone 18 del Concilio Lateranense I aggiunge poi inequivocabilmente che i chierici: «decimas et ecclesias a laicis non suscipiant absque consensu et voluntate episcoporum et si aliter praesumptum fuerit, canonicae ultioni subiaceant»82.
Pochi anni dopo, nel 1139, il Concilio Lateranense II conferma con altrettanta nettezza le regole sopra indicate sancendo l’invalidità e l’inefficacia di ogni conferimento laicale di un ufficio ecclesiastico: «si quis praeposituras, praebendas vel alia ecclesiastica beneficia de manu laici acceperit, indigne suscepto careat beneficio». La mancanza di legittimazione da parte dei laici sta a fondamento della norma e viene categoricamente esplicitata: «iuxta namque decreta sanctorum patrum, laici, quamvis religiosi sint, nullam tamen habent disponendi de ecclesiasticis facultatibus potestatem»83.
A breve distanza di tempo ancora, il Concilio Lateranense III nel 1179 affronta un caso particolare, così denunciando gli abusi dei patroni che cercano di eleggere più di un rettore per una chiesa: «quoniam in quibusdam locis ecclesiarum fundatores aut heredes eorum, potestate in qua eos ecclesia hucusque sustinuit, abutuntur». In caso di voto discorde tra i benefattori, il vescovo può intervenire con poteri dirimenti e lo stesso è disposto per quando non sia stato definito il legittimo patrono per una chiesa («si de iure patronatus quaestio emerserit inter aliquos et cui competat infra tres menses non fuerit definitum»). Come le precedenti norme, seppur in aspetti assai specifici, anche questi canoni limitano il diritto di patronato ed attribuiscono all’autorità ecclesiastica la preminenza che nelle questioni spirituali ad essa compete84.
Nel Concilio Lateranense IV la riforma della Chiesa e l’affermazione della sua indipendenza rispetto al potere imperiale trovano definitivo compimento; l’emanazione di una serie di norme disciplinari anche nella materia che ci interessa è un’ulteriore conferma dello sforzo di rinnovamento riconosciuto da tutti gli studiosi che si sono occupati dell’argomento.
Con l’indicazione di precise sanzioni, la costituzione 25 recita ad esempio che: «quisquis electioni de se factae per saecularis potestatis abusum consentire praesumpserit contra canonicam libertatem, et electionis commodo careat et inelegibilis fiat»85.
L’intento di porre ordine nel campo del sostentamento è presente anche nella costituzione 29 che vieta ad un chierico di avere due benefici con cura d’anime; la norma contiene una premessa significativa che vuol ricordare come il divieto fosse già stato sancito dal Concilio Lateranense III (canone 13) ma non avesse ricevuto applicazione; per tale ragione esso viene ribadito al fine di ricondurre alla funzione loro propria i beni patrimoniali annessi ad una chiesa86.
Di particolare interesse è anche la costituzione 32, la quale impone di estirpare la consuetudine, ancora radicata fra quanti hanno diritti di patronato su una chiesa, di riservare a sé le rendite della chiesa stessa, assegnando ai sacerdoti una quota così esigua di esse da essere insufficiente al sostentamento.
In questa costituzione, dopo aver richiamato i fondamenti biblici del diritto dei ministri del culto ad essere sostentati, il Concilio enuncia un’importante norma generale secondo cui ai chierici deve essere assegnata una porzione adeguata e sufficiente al decoroso sostentamento: «cum igitur os bovis alligari non debeat triturantis, sed qui altari servit vivere debeat de altari, statuimus ut, consuetudine qualibet episcopi vel patroni seu cuiuscumque alterius non obstante, portio presbyteris ipsis sufficiens assignetur»87.
Il principio così sancito dal Concilio Lateranense IV introduce la delicata questione della natura del diritto del beneficiario sui beni costituenti la dote del beneficio; nel prossimo paragrafo, affrontando il tema della elaborazione dottrinale del concetto di beneficio ecclesiastico, cercheremo di proporre alcune riflessioni in proposito, ma è bene annotare sin da ora che la quantificazione della portio spettante ai chierici per l’honesta sustentatio non ricevette mai una definizione da parte del legislatore canonico.
Dal XIII secolo in poi, con la limitazione del diritto di patronato ed il rafforzamento dell’autorità ecclesiastica nei confronti dei chierici, si innescò una nuova dinamica che modificò sostanzialmente anche il regime delle chiese private; molto spesso i proprietari di esse scelsero di alienarle agli episcopati ed ai monasteri ovvero di concederle in affitto ai sacerdoti, i quali in questi casi, non essendo i titolari veri e propri del beneficio, furono chiamati vicari.
La medesima situazione, con i problemi che comportava, si veniva a verificare quando il titolare del beneficio, pur avendone la possibilità e lo status, non esercitava direttamente il ministero richiesto dall’officium, bensì affidava il servizio ad altri chierici che erano ugualmente detti vicarii (perpetui) e che traevano il proprio sostentamento non dal beneficio, ma dalla remunerazione ad essi corrisposta dal beneficiario88.
All’inizio di tutto ciò vi erano essenzialmente tre ragioni che, a lungo andare, divennero sempre più diffuse e determinanti: la non residenza del beneficiario nelle terre annesse all’officium di cui era titolare, l’incorporazione dei benefici parrocchiali all’interno dei patrimoni di altri enti ecclesiastici non direttamente legati all’autorità del vescovo, come le abbazie ed i monasteri, ed infine la prassi del cumulo di più benefici a favore di un solo individuo. Tali aspetti problematici segnarono tutta la storia del sistema beneficiale e comparvero periodicamente, mettendone in luce limiti e difetti dei quali parleremo anche oltre.
In conclusione, con qualche generalizzazione non del tutto arbitraria, possiamo dire che nei canoni del Concilio Lateranense IV sopra richiamati si sia consolidato il sistema che trovò una sua definizione giuridica nel concetto di beneficio ecclesiastico, nel senso che queste norme attestano l’avvenuta formazione di masse patrimoniali autonome, sottoposte alle norme canoniche ed all’autorità del vescovo, giuridicamente libere da ingerenze civili e destinate stabilmente a sovvenire alle necessità del clero, del culto e della fabbrica di una determinata chiesa.