Considerazioni conclusive
La rassegna, sin qui condotta, dei modelli di finanziamento pubblico delle confessioni religiose in Europa, indica con evidenza l’eterogeneità delle soluzioni in essere. Le ragioni di ciò sono molteplici. A questo punto, poiché – come si è visto – la materia oggetto del nostro studio non si esaurisce nell’ambito dell’ordinamento canonico, crediamo di aver sufficientemente dimostrato che una verifica del grado di applicazione dei principi del Concilio Vaticano II e dei canoni del vigente Codex Iuris Canonici deve misurarsi anche con norme e fattori esterni alla esperienza giuridica della Chiesa.

Il canone 1272 ha previsto la graduale soppressione del sistema beneficiale, laddove esso ancora esisteva. La norma ha avuto positivi effetti di semplificazione amministrativa e modernizzazione nella gestione del patrimonio ecclesiastico. Si noti però che, se in Italia ed in Spagna l’attuazione del canone 1272 ha comportato una sostanziale trasformazione del sistema di sostentamento del clero, la stessa cosa non può dirsi per le Chiese di quei Paesi in cui il sistema beneficiale era già stato rimosso dalla storia, prima ancora che il Codex Iuris Canonici o lo stesso Concilio intervenissero sulla materia.

In tali situazioni, che erano ben presenti al legislatore canonico del 1983, è più delicato stabilire fino a che punto siano stati recepiti i nuovi principi ispiratori del sistema. La tormentata vicenda della Chiesa francese è in tal senso un caso indicativo e paradigmatico.

Si consideri poi che il regime di remunerazione dei sacerdoti fondato sulla tassa ecclesiastica, che il Codice del 1917 ricomprendeva nel paradigma beneficiale mediante il canone 1410, non ha subito rilevanti innovazioni per effetto del canone 1272 in sé e per sé considerato. Non esistendo in queste regioni benefici in senso proprio, a nostro avviso, le innovazioni verificatesi dovrebbero essere piuttosto ricondotte al novero dei principi enunciati dal Concilio e da altre norme del Codice (canone 281) ed applicati attraverso l’istituzione di un “modello contrattuale” di sostentamento del clero, regolato uniformemente a livello diocesano e tendenzialmente paritario ed equo.

Nella chiave del raffronto comparativo sviluppato nei paragrafi precedenti, rispetto al canone 1274 la «soluzione italiana» solleva poi un quesito fondamentale in ordine all’I.C.S.C. che – come si è detto – è una peculiarità del sistema voluto dalla C.E.I. e costituisce un organo di cui il Codex Iuris Canonici non fa menzione, essendosi lo stesso limitato a prevedere tutt’al più l’ipotesi di Istituti interdiocesani.

Proprio per questa via, la riforma concordataria italiana, più di quella spagnola, ha realizzato gli obiettivi indicati dal Concilio mediante l’adozione di un modello unico, gestito e regolato su scala nazionale dalla Conferenza Episcopale. In Spagna, tale centralizzazione non è avvenuta in maniera tanto accentuata, perché si sono lasciati degli spazi di discrezionalità ed autonomia ai singoli Ordinari. Da queste considerazioni ci si avvede come il dettato codicistico mantenga una sua elasticità, che rispetto alla sfera civilistica è uno dei tratti peculiari dell’ordinamento canonico.

Val la pena di richiamare, quale orientamento alternativo, la significativa dichiarazione d’intenti contenuta nel Preambolo del citato Statut financier du prêtre, approvato nel 1984 dalla Conferenza episcopale francese:

 

le Groupe national de travail […] s’était donné pour objectif de relancer l’étude sur les conditions matérielles de vie du prêtre diocésain  […] le but [était] moins d’imposer un modèle unique que d’aider à vérifier la cohérence entre les doctrines affirmées, les intentions declarées […] et la pratique ordinaire des diocèses.

 

Fermi restando l’obiettivo della perequazione delle condizioni economiche del clero ed il non disgiunto invito del canone 282 affinché «clerici vitae simplicitatem colant», i metodi e le soluzioni non sono e non potevano essere fissati aprioristicamente dal Codex, che – nel rispetto del principio di sussidiarietà – ha saggiamente lasciato alle Chiese particolari il compito di individuare le vie giuridiche più opportune per l’adeguata remunerazione del clero secondo il canone 281 § 1. In tale visuale, allora, anche il modello italiano per le caratteristiche e le attribuzioni proprie dell’I.C.S.C. può essere inteso non come una deviazione rispetto al canone 1274, ma come un’applicazione della norma, frutto di un’interpretazione «estensiva» che non ne travisa la ratio.

Visti sotto una luce critica i meccanismi legislativi italiani, che pure hanno il grande pregio di perseguire l’eguaglianza di trattamento tra i chierici come fondamento della comunione, corrono il rischio di istituzionalizzare eccessivamente l’aspetto della remunerazione del clero come diritto patrimoniale assicurato da una efficiente macchina burocratica che, più di altri sistemi, limita la corresponsabilità dei fedeli.

Ricordiamo infatti che le risorse dell’otto per mille provengono sì dalla scelta effettuata da ciascun contribuente, ma, non essendovi una diretta corrispondenza tra l’imposta versata dal singolo e la misura delle somme trasferite dallo Stato, il fedele percepisce in maniera più attenuata anche la misura della propria responsabilità nei confronti delle necessità della Chiesa a cui appartiene.

Quale tra i modelli passati in rassegna realizzi meglio il canone 222 non è questione secondaria per la vita della Chiesa. Laddove le confessioni religiose hanno optato per il completo autofinanziamento, i fedeli sono direttamente chiamati a sovvenire ai bisogni delle strutture ecclesiastiche e ne hanno di certo piena ed immediata consapevolezza.

Sulla scia di tali esperienze storiche, non è mancato chi propugnava l’adozione di un simile sistema anche per quei Paesi in cui la Chiesa gode di un consolidato rapporto con lo Stato. Questa tesi è legittima quando è formulata con il nobile fine di tutelare la libertas Ecclesiae nei confronti di un potere pubblico a volte troppo invasivo (come ad es. per il giurisdizionalismo di alcuni Cantoni della Svizzera); essa però, se condotta alle estreme conseguenze, omette di considerare che la religione cristiana ha una dimensione pubblica e comunitaria e che non può essere relegata – come vorrebbe qualcuno – al rango di un fenomeno individuale e privato.

Spetta piuttosto ai cattolici, in applicazione di un concetto più alto di corresponsabilità, non trascurare la propria presenza nella società e nella politica affinché lo Stato, rispettoso del fine per cui esiste, adempia i propri doveri nei confronti dei corpi sociali e quindi anche delle confessioni religiose, agevolandone l’esistenza e la libera attività.

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