La soluzione italiana ed i modelli di finanziamento pubblico delle confessioni religiose nei principali paesi europei
2.1 Una prima panoramica generale
Pur nella molteplicità delle soluzioni adottate, una prima panoramica generale consente di affermare che nei Paesi che appartengono all’Unione Europea, salvo alcune eccezioni, il sostegno alle confessioni religiose è ritenuto un dovere dello Stato nei confronti dei propri cittadini. Questo sarebbe, secondo Ferrari ed Ibán, un tratto caratteristico dei sistemi giuridici europei rispetto al sistema statunitense, «dove tanto il finanziamento pubblico quanto l’insegnamento della religione non sono ammessi».
Tuttavia gli stessi autori aprono la loro classificazione dei modelli di finanziamento proprio con i sistemi in cui vige la regola dell’assoluta esclusione dei finanziamenti statali, che in alcune legislazioni europee è sancita addirittura da un espresso divieto. In queste nazioni (Inghilterra, Olanda, Francia, Portogallo, Irlanda), le Chiese affrontano le proprie esigenze economiche mediante le offerte dei fedeli e con i proventi del patrimonio ecclesiastico che, peraltro, si è consistentemente ridotto a causa delle ben note vicende della nazionalizzazione dei beni ecclesiastici che tra il XVII e il XVIII sec. interessarono molti paesi europei.
Una simile situazione, che in Francia ad esempio risale alla controversa vicenda dell’abrogazione del Concordato avvenuta nel 1905, riveste anche degli aspetti positivi per le confessioni religiose che si trovano così a godere di una grande indipendenza nei confronti dello Stato e di ogni sua ingerenza nell’ordine che è loro proprio. Insegna infatti il Concilio che la Chiesa «si serve delle cose temporali nella misura che la propria missione lo richiede», ma «non pone la sua speranza nei privilegi offerti dall’autorità civile. Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza».
Ciò non significa invero che la Chiesa non possa pretendere legittimamente delle forme corrette di relazione con lo Stato che, a partire dal riconoscimento del valore etico e sociale della sua presenza, si traducano anche in un sostegno di carattere economico. La religione cattolica non è un semplice affare privato né una dottrina disincarnata e astorica; se così fosse, essa non avrebbe bisogno di un riconoscimento pubblico o di ricercare una relazione di collaborazione – o di conflitto – con lo Stato.
Per completezza, va detto però che anche in questi Paesi vi sono per le confessioni religiose agevolazioni di ordine fiscale; il Concordato portoghese, ad esempio, contiene un’esenzione dal pagamento di tutte le imposte generali e locali per la Chiesa cattolica e i suoi ecclesiastici. Altre esenzioni dalle imposte riguardano gli immobili destinati a finalità di carattere religioso (monasteri, seminari, ecc.); mentre vi sono alcuni interventi pubblici di sostegno soprattutto per gli edifici di culto, ma si tratta di strumenti usati sporadicamente e molto spesso disposti in relazione a beni che, per quanto destinati al culto, appartengono allo Stato stesso.
Dal punto di vista teorico, non meno problematico appare il rapporto tra lo Stato e la Chiesa laddove esistono finanziamenti diretti e regolari da parte dello Stato ad una o più confessioni religiose.
In Grecia, tutti gli stipendi e le pensioni dei ministri di culto della Chiesa ortodossa sono a carico dello Stato ed anche la Chiesa luterana danese riceve consistenti sovvenzioni pubbliche. In Belgio, in Lussemburgo ed in Finlandia il bilancio generale dello Stato prevede specificatamente la destinazione annuale di contributi economici ad una pluralità di confessioni religiose.
Molti studiosi in relazione a questi casi si chiedono ancora se la libertas Ecclesiae sia garantita a sufficienza laddove il clero è stipendiato dallo Stato e soprattutto quando – come in Grecia ed in Danimarca – i finanziamenti siano concessi esclusivamente a favore di una sola confessione religiosa.
É fortissimo infatti il pericolo che le relazioni tra la sfera del potere civile e quella dell’autorità religiosa si configurino secondo una logica di privilegi e di concessioni, che fa venir meno il reciproco e necessario rispetto della sovranità e dell’indipendenza della Chiesa e dello Stato. Inoltre in questo modo e forse in maniera non sempre rispettosa della libertà religiosa, tutti i cittadini – compresi i non credenti – sono indirettamente tenuti a contribuire al sostentamento delle confessioni religiose, senza poter esprimere una scelta diversa.
Nel caso del modello partecipativo, invece, sono principalmente i fedeli a fornire i mezzi economici per sovvenire alle necessità della Chiesa; in termini generali si può dire che, in questa impostazione, il finanziamento è realizzato mediante la collaborazione dello Stato, ma esso si fonda sulla libera volontà dei fedeli. Occorre però distinguere le situazioni.
In alcuni Paesi come la Germania, l’Austria e la Svezia, la contribuzione dei fedeli ai bisogni della propria confessione religiosa è volontaria ma obbligatoria, nel senso che lo Stato ha istituito per legge una tassa ecclesiastica configurandola come una sovraimposta proporzionale al reddito.
In forza dell’appartenenza confessionale, ciascun cittadino che non dichiari espressamente una volontà contraria è tenuto a pagare l’imposta e, in caso di mancato pagamento, alle autorità ecclesiastiche è riconosciuto il diritto di fare ricorso agli organi dello Stato per esigere il versamento coattivo.
Il sistema, qui esposto solamente per sommi capi, conosce numerose varianti; basti sapere che la riscossione della tassa in alcuni paesi è gestita direttamente dalle confessioni religiose, mentre in altri è affidata allo Stato al quale viene corrisposta una remunerazione per il servizio prestato. In ogni caso, il cittadino può sempre revocare la propria appartenenza rendendo un’apposita dichiarazione davanti a un funzionario statale e da quel momento non è più tenuto al pagamento dell’imposta.
In questo modello di autofinanziamento si possono inquadrare anche le soluzioni adottate dall’Italia e dalla Spagna che si contraddistinguono per una certa originalità, visto che, diversamente dal sistema imperniato sulla tassa ecclesiastica, non implicano un esborso supplementare per il cittadino, ma bensì si fondano sulla scelta, che tutti i contribuenti possono effettuare, di devolvere alla Chiesa una quota delle imposte versate allo Stato. Lo strumento delle erogazioni liberali fiscalmente incentivate viene, invero, adottato anche dai Paesi europei in cui vige un diverso regime di finanziamento delle confessioni religiose; ma solo in questo sistema esso assume particolare significato, coniugandosi con la quasi assoluta esclusività del ruolo di finanziatori svolto dai fedeli rispetto allo Stato. Bisogna però osservare che, se questo modello si affida soprattutto alla corresponsabilità dei fedeli a cui viene chiesto di sostenere direttamente la propria Chiesa, lo Stato per parte sua non richiede dichiarazioni di appartenenza e favorisce la liberalità di qualsiasi contribuente, anche se non credente.
2.2 Il sostentamento del clero in Italia secondo la nuova legislazione concordataria e nella disciplina della C.E.I.
In Italia, lo Stato mette a disposizione una quota del gettito complessivo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) per «scopi sociali o umanitari» oppure «religiosi o caritativi», chiedendo ai contribuenti di indicare a chi deve essere destinata. La scelta effettuata in sede di dichiarazione dei redditi si riferisce alla destinazione di una quota dell’intero gettito e non all’imposta versata dal singolo cittadino. Non vi è quindi un legame diretto tra l’opzione del singolo e la misura del finanziamento; ciò che invece si realizza è la partecipazione del cittadino nella destinazione di alcune somme che lo Stato si limita a raccogliere ed a ridistribuire tra una serie predeterminata di soggetti.
Gli accordi per la modificazione del Concordato Lateranense hanno dato vita a quello che mons. Nicora ha propriamente definito «un sistema di autofinanziamento della Chiesa agevolato dallo Stato» attraverso due canali concreti: la destinazione dell’otto per mille del gettito complessivo Irpef e la deducibilità dal reddito imponibile per le persone fisiche delle offerte fatte a favore dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero.
Dal 1990 lo Stato riserva ogni anno l’8 per mille del gettito complessivo dell’Irpef per finalità socio-umanitarie gestite dallo Stato oppure per finalità di tipo religioso caritativo gestite dalle diverse confessioni religiose. Il contribuente specifica a chi deve essere destinata la somma dell’8 per mille mettendo la propria firma nella casella del destinatario. L’amministrazione fiscale provvede poi ad assommare le scelte per i diversi soggetti destinatari e quindi ripartisce l’8 per mille di tutta la massa Irpef in proporzione alle scelte espresse dai contribuenti. Come segnala Nicora non si deve pensare che si tratti di pagare più tasse, semplicemente sono i contribuenti a scegliere, invece che altri organismi, la destinazione di quell’8 per mille che comunque tutti devono già pagare. Un’ulteriore osservazione in merito alla peculiarità del sistema è che: «non si tratta dell’8 per mille dell’Irpef pagato da ciascun contribuente, ma dell’8 per mille del gettito complessivo che lo Stato riceve da tale imposta; perciò la scelta di un grande contribuente ha lo stesso valore di quella fatta da un pensionato: conta per uno e concorre a formare la proporzione finale secondo la quale l’8 per mille verrà ripartito». Attraverso gli introiti sopra richiamati, la Chiesa trae buona parte dei mezzi necessari a garantire il sostentamento del clero, realizzando un sistema misto ove, in maniera peraltro assai diversa da ogni precedente esperienza storica, le risorse proprie della Chiesa e dei sacerdoti si uniscono a quelle dello Stato, al fine di raggiungere il risultato di «comporre ordinatamente la primaria responsabilità della comunità cristiana verso coloro che la servono e la presiedono, la valorizzazione del patrimonio ex beneficiale secondo i suoi fini originari e costitutivi ed il libero apporto dei cittadini, non soltanto praticanti o credenti, agevolato dallo Stato».
Il sistema creato con gli Accordi del 1984 non si esaurisce nella trasformazione degli strumenti finanziari messi a disposizione dallo Stato, bensì comporta profonde e radicali innovazioni negli organi e nella struttura stessa della Chiesa.
Per effetto della revisione concordataria, infatti, da un lato sono sorti dei nuovi soggetti, gli Istituti, enti ecclesiastici civilmente riconosciuti che, a norma del canone 1274, sono appositamente deputati al sostentamento del clero ed operano in stretta relazione con la C.E.I.; dall’altro, alla Conferenza Episcopale Italiana sono state attribuite importanti competenze di ordine non solo amministrativo, ma anche propriamente legislativo.
In riferimento a quest’ultimo aspetto, basterà ricordare che l’articolo 75 comma 3 della legge 222/85 – recependo la disciplina degli Accordi – riconosce nella C.E.I. l’autorità competente ad emanare tutte le disposizioni canoniche richieste dall’attuazione del nuovo sistema di sostentamento.
Su questa materia, l’Assemblea Generale della C.E.I. ha esercitato il proprio potere normativo con una serie di delibere tra cui quelle contrassegnate dai numeri 43, 44, 45, 46, 47, 49, 50, 51, 52, 54, 55 e 58; in particolare, la delibera numero 58 del maggio 1991 ha approvato il «Testo unico delle disposizioni di attuazione delle norme relative al sostentamento del clero che svolge servizio in favore delle diocesi».
È allora immediatamente comprensibile il giudizio formulato da Feliciani, quando parla di una «imponente valorizzazione della Conferenza episcopale» operata dalle Norme del 1985 rispetto alle previsioni proposte dal Codex Iuris Canonici.
Ad un modello contrassegnato dal particolarismo ed anche dalle sperequazioni si è sostituito così un sistema accentrato e fortemente integrato, nel quale i vari soggetti intervengono in ordine successivo e sussidiario, ciascuno secondo la propria responsabilità.
Qualcuno in proposito ha sollevato forti rilievi critici rimarcando come ciò comporti notevoli limitazioni all’autonomia delle diocesi. Se per di più è vero che le norme – come riconosce lo stesso Feliciani – vengono ad accrescere la dipendenza economica del clero dall’organizzazione ecclesiastica, tuttavia è altrettanto certo che solo attraverso l’introduzione di una normativa unitaria a livello nazionale affidata alla C.E.I. si è potuta realizzare l’auspicata perequazione delle condizioni economiche del clero italiano.
La dipendenza lamentata da alcuni pare essere accresciuta dall’obbligo previsto dall’art. 33 della legge 222/85 che ogni sacerdote rediga annualmente una comunicazione all’I.D.S.C., nella quale si indichino oltre alla remunerazione percepita dall’ente ecclesiastico presso il quale si esercita il proprio ministero, anche gli stipendi che eventualmente si ricevono da altri soggetti.
Mediante tale norma è stata ribadita, a nostro avviso, una importante regola di comunione, poiché tali redditi non sono più lasciati alla libera disponibilità del sacerdote, ma vengono computati ai fini della remunerazione fissata dalla C.E.I. e ne costituiscono quota effettiva, di modo che chi trae dal lavoro sufficienti mezzi di sostentamento non viene a gravare sui fondi che la Chiesa destina agli altri sacerdoti.
Dall’articolo 24 della legge 222/85 sono delineati i tratti principali e caratteristici del sistema cui si riferiscono le nostre precedenti valutazioni; innanzitutto viene subito messa in rilievo la centralità dell’I.D.S.C. che «provvede in conformità allo statuto ad assicurare nella misura periodicamente predeterminata dalla Conferenza Episcopale Italiana il congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore della diocesi». Vedremo però come tale ruolo sia soltanto sussidiario perché, al comma 3, la remunerazione viene poi espressamente definita come un diritto spettante a tutti i sacerdoti ed erogato in primis dagli enti ove essi esercitano il proprio ministero. La medesima norma infine riconosce la necessaria autonomia della Chiesa, attribuendo alla Conferenza Episcopale Italiana il potere di stabilire la misura della remunerazione.
La responsabilità primaria del sostentamento dei sacerdoti spetta pertanto alla Chiesa e non allo Stato e, nella Chiesa, è devoluta principalmente alle comunità cristiane o agli enti ecclesiastici presso i quali i sacerdoti esercitano il ministero.
I criteri per la determinazione della remunerazione dovuta da tali enti sono stabiliti dall’articolo 4 del citato Testo Unico della C.E.I. Nel caso della parrocchia, l’ente è tenuto ad assicurare al parroco una somma mensile pari al prodotto di una quota capitaria fissata dalla C.E.I. per il numero degli abitanti della circoscrizione parrocchiale; al vicario parrocchiale tocca una somma pari al 50% ovvero, qualora egli goda di altri redditi computabili, una somma pari al 25% della remunerazione dovuta al parroco. La rigidità del meccanismo conosce però dei correttivi perché il Vescovo diocesano, dopo aver esaminato la consistenza delle risorse della parrocchia, può stabilire delle variazioni in aumento o in diminuzione della quota capitaria.
Se i soggetti prima ricordati non sono in grado di provvedere completamente al sostentamento del sacerdote, secondo i criteri e la misura stabiliti dalla C.E.I., è previsto l’intervento dell’I.D.S.C. che integra la remunerazione con i redditi del proprio patrimonio, costituito principalmente da beni ex-beneficiali.
Infatti ex articolo 28 l. 222/85 con il decreto di erezione di ciascun Istituto diocesano si sono estinti contestualmente la mensa vescovile ed i benefici capitolari, parrocchiali, vicariali curati o comunque denominati esistenti nella diocesi e i loro patrimoni sono stati trasferiti di diritto all’Istituto stesso, che è succeduto ai benefici estinti in tutti i rapporti attivi e passivi.
L’I.D.S.C. è tenuto a provvedere soltanto ai sacerdoti che svolgono effettivamente un ministero, mentre per coloro che sono «quiescenti» per anzianità o infermità è stato realizzato un sistema di previdenza. L’amministrazione degli Istituti diocesani non è esercitata direttamente dal Vescovo, bensì da un Consiglio di amministrazione di cui almeno un terzo è designato dal clero diocesano su base elettiva (articolo 23 comma 2 legge 222/85).
L’I.D.S.C. è un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto e come tale, pur essendo retto da uno Statuto che si deve conformare alle disposizioni della C.E.I., gode di una propria autonomia, ma allo stesso tempo è soggetto alla generale potestà del Vescovo diocesano quale persona giuridica pubblica secondo il diritto canonico.
Spetta così al Vescovo il potere di vigilare sull’Istituto (canone 1276) che si esplica in alcune funzioni di controllo riguardanti soprattutto gli atti di straordinaria amministrazione, la scelta di una parte dei membri del consiglio di amministrazione e la nomina di tutti i consiglieri.
Se la misura della remunerazione raggiunta con l’integrazione liquidata dall’I.D.S.C. non è ancora sufficiente, l’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero – secondo il suo fine istituzionale prioritario – eroga agli Istituti diocesani le risorse necessarie fino al livello fissato dalla C.E.I., utilizzando le somme ricavate dal proprio patrimonio stabile e dai mezzi di finanziamento provenienti dalle offerte deducibili e dalla quota dell’otto per mille Irpef. Per agevolare tale compito, ciascun I.D.S.C., prima dell’inizio dell’esercizio finanziario, deve comunicare all’I.C.S.C. il proprio stato di previsione (articolo 42 legge 222/85); analogamente è previsto un obbligo di comunicazione anche per la relazione consuntiva di fine esercizio. Grazie a queste comunicazioni, l’I.C.S.C., secondo il proprio statuto, esercita la funzione di controllo contabile nei confronti degli Istituti diocesani.
Ma l’I.C.S.C., che è stato creato in virtù degli Accordi del 1984 e non è previsto dal Codex Iuris Canonici, svolge poi anche altre attività di tipo complementare: esso opera ritenute fiscali sulle remunerazioni dei sacerdoti e riveste il ruolo di sostituto d’imposta perché, ai soli fini fiscali, la remunerazione è equiparata al reddito di lavoro dipendente. All’I.C.S.C. sono poi attribuite anche funzioni assistenziali e previdenziali integrative e autonome per il clero.
Inoltre l’I.C.S.C., nel suo stretto legame con la C.E.I., cui compete la designazione della maggioranza dei consiglieri di amministrazione, fornisce tutte le informazioni necessarie alla elaborazione del rendiconto circa l’impiego dei finanziamenti per il sostentamento del clero che la C.E.I. ex articolo 44 legge 222/85 deve presentare annualmente allo Stato.
Da tutto ciò emerge come l’I.C.S.C., pur non disponendo dei poteri di controllo sugli Istituti diocesani, che sono prerogativa di ciascun Vescovo, eserciti una funzione strategica e prioritaria nell’equilibrio complessivo del sistema, basato appunto su una stretta connessione tra gli Istituti.
Alla medesima ratio risponde anche la previsione dell’articolo 35 comma 3 legge 222/85 secondo cui: «parte degli eventuali avanzi di gestione è versata [dall’I.D.S.C.] all’Istituto centrale nella misura periodicamente stabilita dalla Conferenza Episcopale Italiana», perché – come spiegava mons. Nicora nella sua relazione alla XXV Assemblea generale della C.E.I. – «il sistema prevede che ci sia una somma complessiva da ripartire sul presupposto dell’esistenza di un clero italiano e che tale ripartizione non debba essere meccanica, ma debba ricercare un’equa distribuzione delle risorse, onde da parte di chi più ha si provveda a chi ha meno, diventa evidente che l’I.C.S.C. assume un’importanza determinante, appunto come promotore e garante dell’effettivo perseguimento dei fini di solidarietà e perequazione».
Il tema del rapporto tra gli Istituti di sostentamento è assai controverso, perché il novero delle relazioni che intercorrono tra I.C.S.C. e I.D.S.C. è assai composito.
Parte della dottrina afferma che ci si troverebbe di fronte a un vero e proprio vincolo di subordinazione gerarchica, in virtù del quale gli I.D.S.C. si configurano quali istituti periferici dell’I.C.S.C., organo supremo di un sistema eccessivamente centralistico. In tal senso dovrebbe quindi leggersi l’articolo 2 lettera c dello Statuto dell’I.C.S.C., secondo cui l’Istituto centrale può «intrattenere rapporti con le amministrazioni italiane in relazione alla propria attività e nell’interesse degli istituti diocesani».
Ma altri autori, tra cui Finocchiaro, respingono questa ricostruzione perché gli I.D.S.C. sono enti autonomi dotati di propria personalità giuridica e dipendenti in prima istanza dall’Ordinario del luogo e soprattutto perché lo stesso I.C.S.C. è un ente che opera sotto il costante controllo della C.E.I., della quale è tenuto ad attuare le delibere.
Va detto inoltre che, se si sono prodotti esiti accentratori, l’accorpamento in sede diocesana di tutti gli ex benefici ha importato non solo effetti di perequazione, ma anche una considerevole semplificazione amministrativa, che rappresenta un indubbio vantaggio per gli enti ecclesiastici.
Secondo la normativa pattizia, hanno diritto alla remunerazione coloro che abbiano ricevuto l’ordine sacro del presbiterato e svolgano servizio in favore della diocesi, esercitando un ministero che sia riconosciuto tale dalle disposizioni emanate dalla C.E.I.. Come disposto dall’articolo 24 legge 222/85, la C.E.I. ha provveduto a precisare le condizioni per individuare gli aventi diritto al sostentamento, richiedendo che il servizio sia svolto a tempo pieno e che vi sia il mandato o comunque il consenso del Vescovo diocesano.
L’articolo 1 del T.U. contiene poi un elenco analitico dei sacerdoti da considerare a servizio della diocesi; questa elencazione, pur avendo valore prescrittivo, non ha carattere tassativo, nel senso che il § 2 dell’articolo 1 delega la Presidenza della C.E.I. ad ovviare ad eventuali lacune e a definire le posizioni non previste dalle delibere vigenti per l’inserimento nel meccanismo remunerativo.
Restano dunque esclusi dal sistema i sacerdoti che svolgono in favore della diocesi un servizio a tempo parziale o non ne svolgono alcuno o che sono inabili, per l’età o per altre cause ed in quanto tali partecipanti al sistema di previdenza per il clero.
Il paragrafo 4 dell’articolo 1 T.U. esclude anche il clero fidei donum, cioè i sacerdoti secolari messi a disposizione dalle diocesi di incardinazione per la cooperazione missionaria in Paesi del Terzo Mondo; al loro sostentamento provvede infatti la C.E.I., nel quadro della cooperazione tra le Chiese, con i fondi provenienti dalla quota dell’otto per mille del gettito Irpef assegnata annualmente dai cittadini alla Chiesa cattolica e destinata dalla C.E.I. «ad interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo» (articolo 48 legge 222/85).
Distinguendo concetti tra loro affini, Redaelli spiega come il diritto al sostentamento spetti a tutti i chierici, indipendentemente dal fatto che essi esercitino un incarico ecclesiastico, e trae questa conclusione dall’esame dei canoni 269, 384 e 1350 § 1 ove, secondo la sua interpretazione, tale diritto si configura non come diritto a ricevere, bensì «come diritto alla preoccupazione da parte della Chiesa perché ogni chierico abbia quanto è indispensabile per il suo sostentamento, come obbligo di intervento in caso di necessità».
Quando venga poi esercitato un ministero, il diritto al sostentamento coincide con il diritto alla remunerazione affermato dall’articolo 24 legge 222/85; ma tra la remunerazione ed il ministero svolto non esiste una correlazione di tipo quantitativo. In altre parole, non si può concepire la remunerazione come «compenso per un servizio reso», perché essa è sempre finalizzata al sostentamento del chierico e non a pagare le sue prestazioni. Si può infatti avere esercizio del ministero senza remunerazione (ad. es. nel caso di sacerdoti appartenenti ad istituti religiosi) ed anche senza sostentamento, come nel caso previsto dal canone 281 § 3 dei diaconi permanenti che godano di redditi professionali propri.
In virtù di questi principi, si spiegano i criteri adottati dalla C.E.I. per determinare la misura della remunerazione spettante ai sacerdoti e dare attuazione alla disciplina del canone 281 § 1 ed alle indicazioni del decreto conciliare PO.
Secondo l’articolo 2 T.U. per assicurare la fondamentale eguaglianza di tutti i sacerdoti è stabilita una base fissa comune che corrisponde a circa i due terzi della remunerazione. A questa misura iniziale viene aggiunta una quota variabile tenendo conto dei seguenti criteri di diversificazione: anzianità di servizio (scatti quinquennali); oneri derivanti dalla natura dell’ufficio (vescovi, vicari episcopali, ecc.); situazioni di particolare onerosità in cui versino taluni sacerdoti secolari, secondo la valutazione discrezionale del Vescovo; eventuale indennità per l’affitto, se il sacerdote non dispone di alloggio ecclesiastico.
L’importo della remunerazione viene calcolato assegnando a ciascuna delle voci sopra indicate dei punti, il cui valore monetario è fissato convenzionalmente dalla C.E.I. (articolo 2 § 3 T.U.).
Galdi nota come le disposizioni della C.E.I. non contengano alcun riferimento esplicito ad altre voci, quali la garanzia dell’assistenza domestica (richiamata dal canone 281: «possint necessitatibus vitae suae necnon aequae retributioni eorum, quorum servitio egent, providere»), il godimento di un giusto periodo di ferie annuali; l’esercizio personale della carità e l’aggiornamento culturale del presbitero (voce quest’ultima non espressamente prevista da alcun documento, ma secondo Galdi irrinunciabile).
Lo stesso autore tuttavia manifesta la consapevolezza dell’opportunità di non aver menzionato tali esigenze fra i criteri di computo perché, se accanto alle previsioni espresse esistono anche delle clausole generali molto chiare (come ad es. il canone 281 § 1 e l’indicazione conciliare: «non manchino ai presbiteri i mezzi per condurre una vita onesta e dignitosa»), tocca poi a ciascun sacerdote scegliere come affrontare tali necessità impiegando i beni di cui dispone in maniera sobria e rispondente all’impegno di povertà richiamato dal canone 282.
In chiusura di paragrafo, è bene ricordare che le Norme del 1985 prevedono anche una più precisa definizione dei diritti dei sacerdoti e l’istituzione di forme di tutela e rappresentanza a loro riservate.
La legge 222/85 afferma inequivocabilmente, in capo al sacerdote che presta un servizio a favore della diocesi, la titolarità di tale diritto che va considerato un vero e proprio diritto soggettivo di natura alimentare, coperto dalla tutela giurisdizionale davanti agli organi dello Stato; pertanto la misura della remunerazione, benché determinata autonomamente dall’autorità ecclesiastica, deve essere tale da assicurare al singolo sacerdote un congruo e dignitoso sostentamento.
Accanto alla tutela giurisdizionale dello Stato garantita dall’articolo 24 della Costituzione Italiana, la legge 222/85 ha affidato alla C.E.I. il compito di predisporre per i sacerdoti adeguate forme di tutela in sede canonica, con l’introduzione di procedure accelerate di composizione e di ricorso contro i provvedimenti relativi alla liquidazione della integrazione effettuata dall’I.D.S.C., dopo aver verificato il contenuto della comunicazione ex articolo 33. La legge richiede poi che negli organi per la composizione e la definizione dei ricorsi sia garantita la rappresentanza del clero.
In attuazione di tale disciplina, la C.E.I. ha disposto l’istituzione a livello diocesano di un organo di composizione che ha come membri il vicario giudiziale, il sacerdote presidente o incaricato diocesano della F.A.C.I. e un sacerdote o un laico eletto per cinque anni dal Consiglio presbiterale.
La procedura avanti a tale organo è regolata dall’articolo 8 del Testo Unico e prevede un tentativo di conciliazione obbligatorio che spetta delineare al vicario giudiziale in qualità di presidente e, se vi è accordo, il verbale sottoscritto in udienza è inappellabile ed immediatamente esecutivo.
Nell’ambito dei principi generali dell’ordinamento in materia di ricorsi, l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione davanti all’organo di composizione de quo rappresenta una singolarità, nel senso che, secondo la delibera della C.E.I., il sacerdote che si ritiene gravato dal provvedimento amministrativo prima di rivolgersi all’autore del provvedimento – come stabilito per ogni ricorso dal canone 1733 § 1 – è tenuto a ricercare la conciliazione mediante il concorso necessario dell’organo di composizione.
Qualora le parti non accettino i termini della conciliazione, l’organo di composizione delibera a maggioranza e comunica il dispositivo della decisione in udienza alle parti.
Contro tale provvedimento è possibile presentare ricorso gerarchico al Vescovo ed in terza istanza alla Congregazione per il Clero, la quale, ai sensi del canone 1737, è da ritenersi Superiore gerarchico del Vescovo. Esauriti i ricorsi gerarchici, è ancora possibile il ricorso giurisdizionale alla Sectio Altera del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica per il giudizio di legittimità.
Anche per la composizione dei Consigli di amministrazione e dei Collegi dei revisori dei conti degli Istituti sono previste dalla legge 222/85 specifiche forme di rappresentanza del clero.
Per quanto riguarda l’I.D.S.C., un terzo dei membri del Consiglio di amministrazione deve essere designato elettivamente dal Consiglio presbiterale diocesano o, nelle diocesi con meno di centocinquanta sacerdoti, dall’assemblea di tutto il clero; analogamente si procede per la scelta di un revisore da parte del clero diocesano, se lo statuto dell’I.D.S.C. preveda l’esistenza del Collegio dei revisori dei conti.
Per il Consiglio di amministrazione dell’I.C.S.C. un terzo dei membri è composto da rappresentanti del clero eletti secondo l’articolo 10 T.U. da un collegio elettorale, formato dai membri della Commissione presbiterale italiana e dal Consiglio direttivo della F.A.C.I., il quale sceglie anche il rappresentante del clero nel Collegio dei revisori dei conti; i restanti consiglieri ed il Presidente dell’I.C.S.C. sono designati dalla C.E.I.
2.3 Raffronto con il sistema spagnolo, francese e tedesco.
Il raffronto del sistema italiano con alcune delle soluzioni adottate in ambito europeo in materia di sostentamento del clero costituisce la seconda parte di questo capitolo: si tratta di mettere in relazione gli istituti elaborati dalle diverse esperienze giuridiche nazionali, cogliendo, ove possibile, elementi per approfondire la conoscenza e la valutazione della riforma concordataria italiana.
Al riguardo, in una recente pubblicazione, Cesare Mirabelli ha esposto alcune interessanti osservazioni circa le funzioni dell’analisi comparata nell’ambito delle discipline giuridiche, mettendo in luce come lo studio, per analogie e differenze, di una pluralità di sistemi giuridici positivi, sia innanzitutto un utile strumento d’indagine per la comprensione di un singolo ordinamento.
In questo nostro lavoro la prospettiva comparativistica viene adottata per la sua utilità conoscitiva, pur avendone presente i limiti.
È l’oggetto dell’osservazione a suggerire un metodo siffatto, poiché la natura universale della Chiesa cattolica non può non riversarsi sul carattere delle sue norme; tanto più che l’indagine comparata, in sede di verifica dell’applicazione dei principi canonici di cui si è dato conto nei precedenti capitoli, a noi pare essere non solo uno strumento scientifico adeguato, bensì anche un opportuno riferimento metodologico alla comunione tra le Chiese, che è segno caratteristico della presenza dei cattolici nel mondo.
Del resto anche sul versante degli studi di diritto pubblico non è mancato chi, pur con accenti e sfumature diverse, ha affermato tout court che «il diritto ecclesiastico, avendo ad oggetto necessariamente i rapporti, di qualunque tipo essi siano, tra l’ordinamento dello Stato e quelli delle confessioni religiose – per noi segnatamente l’ordinamento canonico – è per sua stessa natura comparativo».
Sulla base di tali premesse, in questo paragrafo, prenderemo allora in considerazione tre sistemi tra loro assai diversi e nondimeno emblematici, nella consapevolezza che, per nazioni dalla lunga tradizione cattolica come Spagna, Francia e Germania, nel diritto ecclesiastico: «l’elemento storico-politico è più evidente e più sottile […]. I termini della comparazione talvolta sono troppo dissimili per essere efficacemente ragguagliati e ricondotti a sistema».
2.3.1 Il sistema spagnolo
Abbiamo già detto che il sistema di finanziamento della religione cattolica vigente nell’ordinamento statale spagnolo è sicuramente il più affine a quello adottato dalla Repubblica Italiana, pur presentando dei tratti peculiari sia nel ruolo conservato dallo Stato, sia negli istituti giuridici individuati dalla Chiesa spagnola in attuazione dei precetti canonici sul sostentamento del clero.
Con la rinascita democratica del Paese, a seguito degli Accordi stipulati nel 1979 tra la Santa Sede e lo Stato spagnolo furono modificate le forme del finanziamento pubblico della Chiesa cattolica previste dal Concordato del 1953, secondo il quale lo Stato erogava annualmente alla Chiesa dei fondi per le spese del culto ed il sostentamento del clero al fine di creare «un adeguato patrimonio ecclesiastico» (articolo 19). Tra le ragioni di tale sostegno, ne venivano indicate due che significativamente esprimevano il clima politico dell’epoca: «a titulo de indemnización por las pasadas desamortizaciones de bienes eclesiásticos […] contribución a la obra de la Iglesia en favor de la Nación».
Il superamento del regime concordatario precedente, basato su trasferimenti diretti di sovvenzioni pubbliche, è avvenuto in forza di uno spirito nuovo che informa le relazioni fra Chiesa e Stato in Spagna ed è stato delineato in tre fasi distintamente tracciate dagli Accordi del 1979, di cui faremo qui breve menzione.
Nel primo periodo, accanto ad una considerevole serie di agevolazioni tributarie, continuavano le erogazioni da parte dello Stato, ma – a differenza del passato – esse erano corrisposte in forma globale alla Conferenza Episcopale Spagnola (C.E.E.), che ne decideva autonomamente la suddivisione secondo le necessità delle Chiese particolari.
In un secondo periodo, la cui decorrenza più volte rinviata è stata decisa a partire dal 1988, entrava in vigore il nuovo sistema della asignación tributaria per cui, sulla base della scelta effettuata dai contribuenti al momento della dichiarazione dei redditi, veniva versata alla Chiesa una quota del gettito complessivo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche corrispondente ad una percentuale del 5,239 per mille.
Durante questa fase, per la parte non coperta con la quota del gettito fiscale, le sovvenzioni statali venivano ancora garantite in forma integrativa (dotación en presupuesto) sino all’ammontare dell’importo erogato nel 1987 ed opportunamente rivalutato ogni anno.
Nella terza fase, la Chiesa non si avvarrà di altri finanziamenti, se non di quelli derivanti dalla asignación tributaria e verrà pertanto a cessare ogni forma di sostegno economico pubblico diretto perché, con il nuovo sistema – come avviene ormai in Italia – lo Stato si limiterà ad essere un semplice veicolo di trasmissione del denaro assegnato dai cittadini contribuenti con la dichiarazione dei redditi.
Sul versante più propriamente ecclesiale, in occasione della prima applicazione del sistema dell’asignación tributaria, la Conferenza Episcopale Spagnola ha richiamato il dovere e la responsabilità dei fedeli di contribuire ai bisogni della Chiesa (canone 222), dando particolare rilievo all’obiettivo di accrescere con un’adeguata dotazione economica la libertà e l’autonomia della sua azione rispetto allo Stato sino a realizzare, quando sarà possibile, l’obiettivo del completo autofinanziamento.
Tuttavia – come viene riconosciuto dagli stessi Vescovi nel citato documento – il trasferimento dei fondi che, in virtù degli Accordi del 1979, pervengono alla Chiesa spagnola, non ha comportato per essa sostanziali limitazioni da parte del Governo, dal momento che il riparto delle risorse avviene esclusivamente in ambito intraecclesiale e senza interferenze. Tale dato, per la storia recente della Spagna, rappresenta certamente un positivo passo avanti nel riconoscimento di una libertà religiosa rettamente intesa, soprattutto se si considera che l’apporto economico garantito direttamente dallo Stato è ancora quantitativamente significativo.
La normativa sulle materie economiche adottata dalla Chiesa spagnola, subito dopo la promulgazione del Codice di diritto canonico, pare ricercare ed esprimere queste rivendicazioni di autonomia attraverso la creazione di figure giuridiche appositamente deputate all’amministrazione dei beni ecclesiastici.
Il complesso percorso post-conciliare che ha portato al riordino dell’organizzazione economica delle diocesi spagnole, secondo Federico Aznar Gil, si può riepilogare in tre grandi tappe:
1* subito dopo il Concilio Vaticano II, le Chiese locali hanno promosso la creazione di nuovi organismi ed istituzioni di carattere fondamentalmente pastorale;
2* a seguito dell’Asamblea Conjunta Obispos Sacerdotes del 1970, in numerose diocesi si costituì poi la Caja Diocesana de Compensación, con la funzione di provvedere al sostentamento del clero, ma non venne affrontata integralmente la questione dei benefici ecclesiastici.
3* A partire dal 1977 si assiste invece ad una serie di interventi della Conferenza Episcopale volti a delineare una disciplina generale di riferimento ed individuare specifiche tipologie di enti.
Nel Segundo decreto general del I.12.1984, si stabiliva che la Conferenza Episcopale dovesse costituire un Fondo comune interdiocesano orientato al preciso scopo di provvedere al sostentamento dei chierici a norma del canone 1274, attraverso le somme provenienti dall’asignación tributaria, le sovvenzioni statali nonché le offerte dei fedeli e quanto messo a disposizione dalle singole diocesi.
Come dispone l’articolo 6 del Reglamento de ordinación economica della C.E.E., che disciplina la natura e le finalità di tale Fondo, il riparto di queste somme tra le singole diocesi è di esclusiva competenza della Conferenza Episcopale e così pure la determinazione della misura della equitativa retribución dei sacerdoti, cioè della retribuzione minima nazionale. All’interno della C.E.E. è stato all’uopo istituito un Consejo de Economía a cui spetta il compito di proporre annualmente all’Assemblea Plenaria dei Vescovi i criteri per regolare a livello nazionale il sostentamento del clero (articolo 18 Reglamento de ordinación economica).
Non essendo però previste ulteriori attribuzioni normative di carattere generale, può dirsi che alla Conferenza Episcopale Spagnola, rispetto alla omologa istituzione italiana, spettano poteri più ridotti, in quanto il sistema iberico risulta fondato su di una più accentuata sussidiarietà.
Quest’ultima valutazione sembra trovare conferma nei principi enunciati dalla C.E.E. prima ancora che si raggiungesse l’intesa per la modifica del regime concordatario. Le disposizioni del 1977, infatti, anticipavano e ben riassumevano la struttura e lo spirito dell’attuale sistema spagnolo di sostentamento del clero, al quale lo Stato si è limitato a fornire i mezzi finanziari: «todo sacerdote que ejerce su ministerio al servicio de una diócesis, o la ha servido antes de su situación de jubilación o enfermedad, tiene derecho a recibir de dicha diócesis: una retribución básica y igual a todos; complementos variables en función de las dificultades, necesidades o circunstancias especificas de su trabajo que los justifiquen».
Il diritto alla remunerazione per i sacerdoti che svolgono un servizio diocesano è dunque garantito dalla diocesi stessa, la quale, secondo le proprie disponibilità, determina in concreto la quota aggiuntiva (complementos variables) rispetto alla retribución básica, fissata in modo vincolante a livello nazionale, nonché la misura del contributo da richiedere alle parrocchie ed agli enti presso cui viene svolto il ministero.
Pertanto, in Spagna, al di fuori dei profili precedentemente indicati, non esiste una disciplina unitaria di carattere nazionale in materia di sostentamento del clero né un sistema unico di computo e di liquidazione della remunerazione spettante ai sacerdoti, perché esso varia da diocesi a diocesi. Rispetto al sistema italiano, ai Vescovi spagnoli sembrerebbe lasciata una maggiore libertà di azione.
É infatti il Vescovo diocesano in ciascuna diocesi a disporre delle somme provenienti dal Fondo interdiocesano ed a stabilire, secondo l’articolo 14 del Segundo decreto C.E.E., il Reglamento che disciplina in tutti i suoi aspetti la remunerazione dei sacerdoti.
L’autonomia della diocesi trova poi espressione istituzionale nel Fondo diocesano «para sustentación de los clérigos que prestan un servicio en la diócesis», cui sono dedicati gli articoli 10-11-12-13 del Secundo decreto.
Anche il Fondo diocesano, per espresso richiamo del Decreto, è un Istituto ai sensi del canone 1274 § 1, il cui patrimonio è costituito principalmente dai beni beneficiali, ossia «todos aquellos, meubles o inmuebles, que constituyen la dote total o parcial de un beneficio episcopal, canonical, parroquial o de las capellanías; y todos aquellos cuyas rentas se han venido aplicando a la sustentación de los clérigos que prestan un servicio en la diócesis» (articolo 12 § 1 Segundo decreto).
In merito alla sorte dei benefici ecclesiastici, le norme della Conferenza Episcopale Spagnola prevedono che spetti al Vescovo diocesano valutare e dichiarare il carattere beneficiale dei beni, dopo di che sarà possibile all’economo diocesano trasferire la titolarità di tali beni al Fondo ex articolo 10 Segundo decreto e in applicazione del canone 1272.
Il sistema che abbiamo brevemente illustrato si caratterizza certo anche per il composito ed originale quadro applicativo cui hanno dato vita le Chiese particolari, in un articolato pluralismo di fonti normative che solo la presenza di alcuni limiti generali impedisce di considerare espressione di particolarismo giuridico. Basti pensare, come esempio, che per gli statuti dei Fondi diocesani, diversamente da quanto è stabilito in Italia, non esiste l’espressa previsione che essi debbano uniformarsi alle indicazioni normative della Conferenza Episcopale.
A differenziare ulteriormente il sistema spagnolo da quello italiano, vi è poi il fatto che in Spagna lo Stato ha mantenuto una serie di sovvenzioni che integrano i fondi per il sostentamento del clero e stabiliscono tuttora un collegamento non irrilevante con la confessione cattolica.
2.3.2 Il sistema francese
Per ragioni storiche molto diverse, dal punto di vista sia economico sia giuridico, la Chiesa francese si trova in una situazione diametralmente opposta poiché, per quanto dichiarato in più occasioni dal suo stesso episcopato, essa è piuttosto povera ed al contempo libera da ogni legame con lo Stato; dal 1905, per legge, le è consentita soltanto la proprietà degli immobili adibiti alle attività ecclesiali e non può in alcun modo destinare «a rendita» il proprio patrimonio immobiliare.
In Francia, agli inizi del Novecento, una questione centrale del dibattito politico e del programma del governo repubblicano fu rappresentata dallo scontro sullo statuto giuridico delle confessioni religiose e della Chiesa cattolica in particolare, che all’epoca era giudicata pericoloso punto di riferimento delle forze conservatrici e reazionarie. Il clima di marcato anticlericalismo sfociò nel 1904 nella rottura delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e lo Stato francese.
Dopo questo episodio, con la «Legge relativa alla separazione della Chiesa e dello Stato» del 9 dicembre 1905, venne abolito il regime concordatario napoleonico e, sulla base del principio della libertà di coscienza, si introdusse nell’ordinamento un modello che si fonda sulla uguaglianza giuridica di tutte le confessioni religiose e sull’indifferenza dello Stato nei confronti delle religioni.
In altre parole, per effetto di quella legge, nell’ordinamento francese la religione perdette ogni rilevanza per il diritto pubblico, in quanto ritenuta mera espressione di una libertà privata, un fenomeno che sul piano sovraindividuale può ricevere considerazione solamente nell’ambito del diritto associativo. Ciò ha avuto come corollariola fine di ogni sovvenzione statale per il culto ed il sostentamento del clero.
La reazione dei cattolici fu dura e sofferta; nel 1906, Pio X intervenne con due Encicliche (Vehementer nos e Gravissimo officii), condannando un provvedimento che per le sue connotazioni era così apertamente ostile alla libertà religiosa. Il Papa ingiunse alla Chiesa di Francia di rifiutare ogni accomodamento per l’applicazione della legge di separazione.
Le altre confessioni religiose, che si adeguarono alla politica del governo, dovettero invece accettare la trasformazione dei propri organismi e di tutte le loro attività in associazioni cultuali, regolate dalla legge del 1905 e soggette al riconoscimento pubblico. Lungi dal limitarsi a sancire il disinteresse dello Stato nei confronti del fenomeno religioso, il legislatore francese pretendeva così di disciplinare gli ordinamenti interni delle confessioni religiose.
La Chiesa cattolica rifiutò di sottomettersi a tale regime, anche perché diversamente si sarebbe profilato assai concreto il rischio della dispersione delle comunità cristiane in una congerie di associazioni giuridicamente indipendenti dal Vescovo diocesano. Solo negli anni Venti, quando furono riprese le relazioni diplomatiche con la Repubblica francese, venne concordata la definizione di uno specifico modello di persona giuridica, l’Associazione diocesana, organizzata in base ad uno statuto-tipo che fu riconosciuto dal Consiglio di Stato con il parere del 13 dicembre 1923 e da Pio XI attraverso l’Enciclica Maximam gravissimamque del 18 gennaio 1924.
Tra le finalità istituzionali dell’Association diocésaine vi sono l’organizzazione dell’esercizio del culto e la gestione dei beni destinati a tale scopo, quindi anche il sostentamento del clero. Va osservato che la forma associativa dell’ente non deve portare ad errate conclusioni circa la compatibilità dello stesso con l’ordinamento canonistico perché l’articolo 2 dello statuto-tipo precisa che tali funzioni sono esercitate «sous l’autorité de l’évêque, en communion avec le Saint Siège et conformément à la constitution de l’Église catholique» al punto che, nella stessa Chiesa francese, qualcuno ha lamentato il carattere atipico e non democratico di queste associazioni, ignorando però le caratteristiche proprie della costituzione della Chiesa.
In epoca successiva a tali vicende, pur essendo cambiato il contesto politico, i principi ispiratori della legge di separazione sono stati riaffermati anche nella Carta costituzionale del 1958 e guidano tuttora la legislazione francese in materia. Una simile impostazione normativa si coniuga con l’assetto laicista di una società radicalmente scristianizzata, in cui la Chiesa e soprattutto il clero, dal punto di vista economico, vivono una condizione di oggettiva incertezza e talora di difficoltà.
In questa peculiare situazione, può ben dirsi che il caso francese rappresenti il modello di autofinanziamento religioso per antonomasia, mancando ogni forma di collaborazione da parte dello Stato.
Per provvedere alle necessità materiali dei sacerdoti, l’episcopato francese istituì negli anni 1906-1907 le Denier du culte, oggi denominato Denier de l’Église, che rappresenta la principale fonte del sistema di sostentamento del clero francese. Si tratta di un fondo che viene alimentato con una colletta annuale organizzata da ciascuna parrocchia secondo le indicazioni diocesane, in modo da consentire una equa partizione delle risorse disponibili in una logica di solidarietà e di condivisione.
La contribuzione dei fedeli è assolutamente libera e volontaria; quanto viene raccolto è versato all’Association diocésaine ed è quest’ultimo organismo a ridistribuire il ricavato tra le singole parrocchie, secondo criteri prefissati a livello diocesano. Va pure detto che a determinate condizioni, lo Stato riconosce la deducibilità fiscale delle offerte compiute direttamente a favore dell’Associazione diocesana.
La Chiesa francese ha nuovamente affrontato la questione economica subito dopo il Concilio, nella prospettiva di applicare le indicazioni del decreto PO. Nel 1969, a Lourdes, un’Assemblea congiunta dei Vescovi e dei sacerdoti approvava alcuni orientamenti generali sull’utilizzo dei beni e delle proprietà della Chiesa, tra i quali vi era anche la seguente proposizione relativa all’oggetto di questo studio: «chaque prêtre devra bénéficier d’un partage fraternel des ressources, dans un esprit de justice et de solidarité qui exclut les inégalités. Un tel partage requiert, au niveau du presbyterium diocésain, une mise en commun des ressources (denier du clergé, casuel, traitement, salaire, etc.)».
Per studiare le modalità di applicazione di tali principi venne istituito un Gruppo nazionale di lavoro sulla vita materiale della Chiesa e dei sacerdoti. Nel 1971, sia il Sinodo dei vescovi sul ministero sacerdotale che l’Assemblea plenaria dell’Episcopato ribadirono la necessità di riorganizzare le materie economiche ed il sistema di sostentamento del clero; in particolare, l’Assemblea di Lourdes del 1971 osservava che «les méthodes de rémunération du clergé sont très disparates en France. Elles sont presque aussi nombreuses que les diocèses». Il medesimo documento, significativamente chiamato dalla Conferenza Episcopale «Loi-cadre et orientations pastoral», indicava l’obiettivo di una graduale unificazione dei modi di remunerazione dei sacerdoti adottati nelle diocesi.
Dopo anni di osservazione e di studio, il Gruppo di lavoro nazionale presentò alla Conferenza Episcopale il progetto per Le Statut financier du prêtre, che nel 1984 fu approvato dall’Assemblea plenaria dell’episcopato francese.
Lo Statuto si distingue in due parti: una di principi ed un’altra dedicata ai mezzi. Innanzitutto nel documento si ricorda che il legame che unisce il sacerdote al suo Vescovo ed alla Chiesa diocesana è di natura sacramentale, poiché il sacerdote è associato alla missione del Vescovo; correlativamente il Vescovo è obbligato a fornire al sacerdote i mezzi per una onesta sussistenza.
Nel preambolo viene poi chiarito che lo Statuto si prefigge l’armonizzazione delle forme di remunerazione dei sacerdoti diocesani, non attraverso l’individuazione di un modello unico bensì mediante una verifica della prassi ed un richiamo ad alcuni criteri comuni. Si afferma infatti che l’individuazione di soluzioni applicative spetta ai Consigli presbiterali e pastorali o agli organismi di gestione (Association diocésaine, Commission du temporel), affinché gli strumenti scelti siano adeguati alla diversità delle situazioni diocesane consentendo così una recezione intelligente del Codice di Diritto Canonico appena emanato.
Quale frutto della peculiare riflessione della Chiesa francese sui beni materiali, nello Statut è molto forte la sottolineatura di alcuni aspetti di principio come la povertà della Chiesa e dei suoi ministri, l’originalità della società ecclesiale nel consesso delle altre società umane, la missionarietà intrinseca dell’opera pastorale.
La conciliazione di tali principi con le esigenze concrete della quotidianità è pertanto demandata alle singole diocesi, le quali – si dice – potranno ricevere ulteriori indicazioni pratiche dal Gruppo di lavoro nazionale.
Ognuna delle diocesi di Francia gestisce in piena autonomia il sistema di sostentamento del clero nelle forme giuridiche che abbiamo già visto. L’importo della remunerazione dei sacerdoti varia in ciascuna diocesi ed è stabilito dal Vescovo ripartendo le risorse disponibili; l’Ordinario diocesano fissa anche le quote che possono essere prelevate dalle risorse degli enti presso cui viene svolto il ministero per la copertura di alcune spese legate all’ufficio (ad es. per gli spostamenti), consentendo così di graduare la rigida parità stabilita a livello diocesano in caso di esigenze particolari.
Il tutto avviene utilizzando le offerte dei fedeli, attingendo al fondo per il sostentamento del clero che in ogni diocesi si incrementa con la colletta per le Denier du culte chiamato anche Denier de l’Église.
Dopo l’inchiesta compiuta nel 1989 circa l’attuazione delle norme contenute nello Statuto, la Conferenza Episcopale Francese, per il tramite del Gruppo di lavoro nazionale, ha diretto alle diocesi una circolare in cui si individuava come raccomandabile a livello nazionale una certa misura minima per la remunerazione mensile dei sacerdoti e venivano distinte le spese a carico degli enti in cui è prestato il servizio da quelle a carico del sacerdote. In ogni caso, spettano alla diocesi i versamenti per la previdenza sociale.
Da ultimo va ricordato che, sul versante dei rapporti con gli enti pubblici, un’attenuazione al regime introdotto dalla legge di separazione può ravvisarsi nella facoltà legittimamente esercitata da numerose amministrazioni comunali, in quanto proprietarie degli edifici di culto e delle canoniche esistenti alla data del 9 dicembre 1905, di concedere ai parroci il godimento gratuito della casa parrocchiale od accordare al clero una remunerazione come corrispettivo dell’attività di custodia della chiesa e delle cose sacre destinate al culto.
Tuttavia tale contribuzione economica è consentita solo se viene a configurare una controprestazione per dei servizi che siano effettivamente resi e che i Comuni dovrebbero comunque remunerare, indipendentemente dal fatto che essi siano svolti da ministri di culto; diversamente sarebbe violato il divieto di sovvenzionare le confessioni religiose. Non mancano però parrocchie in cui il sacerdote deve pagare al Comune l’affitto per l’utilizzo della canonica.
Analogo discorso vale per quei casi ove, in forma assolutamente residuale, la legislazione francese ammette la possibilità di remunerare i ministri di culto, qualora essi svolgano il proprio ministero su richiesta di un ente pubblico; va osservato però che gli esempi citati in letteratura fanno tutti riferimento a situazioni episodiche come le trasmissioni radiofoniche o televisive a carattere religioso, le esequie di personalità pubbliche o di militari francesi morti in guerra. Anche per queste fattispecie vige una regola di natura meramente sinallagmatica, essendo cioè la remunerazione riconosciuta un corrispettivo per una prestazione resa.
2.3.3 Il sistema tedesco
Anche la Germania, come la Francia, con la Costituzione di Weimar del 1919 ha introdotto nel proprio ordinamento il principio della separazione tra Stato e Chiesa. Ma ciò non ha impedito lo sviluppo di una vasta e riconosciuta collaborazione delle confessioni religiose con l’autorità civile, che si esplica in numerosi e differenti ambiti della vita sociale ed è coperta da tutela costituzionale, al punto che, oggi, la Chiesa cattolica tedesca, insieme alla confessione protestante, è uno dei più importanti datori di lavoro del Paese, soprattutto per il suo impegno nelle opere sanitarie, assistenziali ed educative.
Nel composito quadro istituzionale del Paese, le relazioni tra le Chiese e lo Stato sono regolate a livello costituzionale dalla Legge Fondamentale del 1949, ma anche dalle leggi dei Bundesländer (Stati federali) sotto la cui competenza ricade gran parte delle materie interessate; quanto verrà esposto di seguito tiene conto degli orientamenti generali di tale normativa, che trova poi nella legislazione particolare dei Länder specifiche e distinte applicazioni. Per la Chiesa cattolica, nei rapporti con la Repubblica Federale Tedesca, il principale riferimento è ancora costituito dal Reichskonkordat del 1933, benché siano stati conclusi accordi anche con i singoli Länder. Soffermando precipuamente la propria attenzione sulla normativa costituzionale, Robbers osserva come il diritto ecclesiastico tedesco ruoti attorno a tre principi fondamentali di garanzia della libertà religiosa: neutralità dello Stato, tolleranza e parità di trattamento.
In forza di queste norme, all’autorità civile è preclusa qualsiasi interferenza negli affari delle comunità religiose, alle quali anzi – in ossequio alla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici – è riconosciuto pieno diritto di autodeterminazione per la disciplina e l’amministrazione di ciascuna delle proprie attività.
Lo stesso principio di tolleranza, inteso ed applicato in un’ottica promozionale, è l’attuale fondamento delle sovvenzioni pubbliche, dei contributi e delle agevolazioni fiscali, un tempo motivati come riparazione dell’esproprio del patrimonio ecclesiastico. Va detto però che, per le confessioni religiose presenti nella Nazione, queste entrate non rappresentano il cespite più importante.
Infatti le Chiese tedesche – quella cattolica e quella evangelica – si avvalgono di un originale e consolidato sistema di autofinanziamento che si fonda sull’istituto della cosiddetta tassa ecclesiastica (Kirchensteuer) e che consente di coprire circa l’80% delle loro necessità.
L’imposta sul culto fu introdotta all’inizio del XIX secolo per ridurre l’incidenza sul bilancio statale delle obbligazioni previste in favore delle confessioni religiose quale indennizzo per la secolarizzazione della proprietà ecclesiastica.
Questa tassa – che per la precisione è una sovraimposta proporzionale al reddito – grava obbligatoriamente su tutti i fedeli e ad essa ci si può sottrarre solo con una dichiarazione di abbandono della Chiesa di appartenenza prestata davanti ad un pubblico ufficiale. Nella maggior parte delle Chiese evangeliche, a questo atto viene attribuito il significato di un effettivo abbandono; mentre ciò non avviene nella Chiesa cattolica, ove una simile scelta è considerata come una grave violazione dei doveri di un fedele verso la comunità cristiana ma non è sufficiente a far venir meno una qualità acquisita con il battesimo.
In concreto, l’aliquota dell’imposta addizionale sul reddito viene fissata mediante accordi fra le Chiese cattolica ed evangelica ed i diversi governi regionali; essa deve essere nello stesso Land uguale per tutte le confessioni religiose, le quali, per seguire l’applicazione del tributo, eleggono un Consiglio amministrativo responsabile per l’imposta di culto (Kirchensteuerrat). Se la riscossione è affidata ad organi pubblici, una percentuale delle entrate viene trattenuta dall’autorità civile a titolo di corrispettivo per il servizio reso.
La Kirchensteuer è, a tutti gli effetti, un libero contributo dei fedeli garantito dalle leggi dello Stato. Le comunità religiose che possiedono lo status giuridico di corporazione pubblica sono infatti legittimate a riscuotere le tasse, in conformità alle leggi dei Länder, utilizzando gli elenchi dei contribuenti tenuti al pagamento delle imposte statali.
L’appartenenza alla Chiesa è il presupposto dell’imposta, fa cioè sorgere in capo al cittadino l’obbligo di corrispondere una determinata somma, rispetto a cui le confessioni religiose sono titolari di un vero e proprio diritto patrimoniale giurisdizionalmente tutelato innanzi ai tribunali civili. È però sempre l’ordinamento canonico, in assoluta autonomia, a stabilire le condizioni di appartenenza alla Chiesa ed a regolare con norme proprie il sorgere e lo svolgersi di questo rapporto tributario.
Per quanto sopra esposto quindi anche il modello tedesco, pur con tutte le sue peculiarità, può essere definito un sistema di autofinanziamento della Chiesa agevolato dallo Stato, in cui però non mancano sovvenzioni dirette ed agevolazioni indirette da parte dei poteri pubblici.
Per quanto attiene al sostentamento del clero, la Chiesa cattolica tedesca è organizzata a livello diocesano; ciò comporta sensibili differenze tra un Land e l’altro, tanto per gli aspetti economici che per quelli giuridici. Infatti l’importo che in ciascuna diocesi viene distribuito ai sacerdoti, secondo il regolamento ecclesiastico esistente, dipende per lo più dall’ammontare del gettito dell’imposta ecclesiastica nei vari Länder; ma il collegamento e l’affinità con le strutture statali non si limita solamente all’aspetto fiscale. Esso è infatti ancor più accentuato dalla natura di corporazione pubblica degli enti delle confessioni religiose che impone di qualificare come pubblici funzionari le persone da esse stipendiate, compresi i ministri di culto.
Nel Preambolo dell’Ordinamento retributivo dei sacerdoti della diocesi di Augsburg si trova, ad esempio, la seguente significativa enunciazione:
La diocesi di Augsburg garantisce, in conformità con le norme dei canoni 281 e 1274 § 1 C.I.C. […] ai sacerdoti al suo servizio entrate di stipendio e di assistenza adeguate al loro mantenimento, che si conformano ai principi dei rapporti di lavoro di diritto pubblico, a causa della fondamentale comparabilità del rapporto di servizio ecclesiastico con un rapporto di diritto pubblico.
Questo Regolamento della diocesi di Augsburg, pur essendo una fonte di diritto particolare, reca numerose ragioni di interesse per il nostro studio; innanzitutto perché esso, in applicazione di uno schema generale utilizzato dalle diocesi tedesche per garantire una certa uniformità di trattamento, mutua un modello contrattuale dalla disciplina del pubblico impiego e lo adegua alle esigenze dell’ordinamento canonico.
In secondo luogo, da esso si ricava che in Germania – se vale la generalizzazione che pure trova dei riscontri in altre fonti – la remunerazione del clero cattolico è regolata con criteri forse più analitici di quelli adottati dalla Conferenza Episcopale Italiana, nel senso che tra le voci parzialmente coperte dalla Besoldung vi sono anche le spese per la governante di canonica, per l’aggiornamento culturale, per eventuali traslochi e per l’automobile utilizzata dal sacerdote per esigenze di servizio.