Fase antepreparatoria
Alcuni giorni dopo l’annuncio di indizione del Concilio Ecumenico da parte di Giovanni XXIII, la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari avanzò la proposta di istituire una Commissione.
Al contrario di quanto postulato dal sondaggio già effettuato durante il pontificato di Pio XII e dall’ipotesi di organigramma presentata il 7 marzo 1959, la presidenza della Commissione in fieri fu affidata dal Papa al cardinale Domenico Tardini, Segretario di Stato, anziché al Segretario del S. Uffizio.
Il 17 maggio 1959 fu comunicata dall’Osservatore Romano la creazione di una Commissione Antepreparatoria del Concilio alla quale competeva la consultazione generale sui temi da trattare in Concilio13.
Alla commissione, provvista di apposita segreteria, fu affidato l’incarico di elaborare un questionario per la consultazione dei Vescovi14 e di raccogliere proposte e pareri dall’episcopato, dai dicasteri della S. Sede, dalle facoltà di teologia e di diritto canonico delle Università cattoliche, nel tracciare le linee generali degli argomenti da trattare in concilio, nel suggerire la composizione dei diversi organismi destinati a curare in modo dettagliato la preparazione dei lavori15.
Al questionario, formulato in cinque paragrafi16, risposero 2109 vescovi residenziali e titolari su 2594, 62 facoltà e 156 superiori di ordini ed istituti religiosi.
Il materiale pervenuto durante la fase antepreparatoria (1959-1960) fu molto eterogeneo. Fu raccolto in volumi e sintetizzato in schede (8972) da parte della Commissione Antepreparatoria e venne inserito successivamente nell’Analyticus conspectus consiliorum et votorum quae ab episcopis et praelatis data sunt17.
Circa la nostra materia, cercheremo di sintetizzare nei paragrafi seguenti i punti focali relativi a tale documentazione.
Le posizioni dei Vescovi
Dagli interventi dei Vescovi emerse chiaramente come il reddito beneficiale fosse insufficiente per garantire a tutto il clero un adeguato sostentamento.
Si era evidenziato altresì che molti sacerdoti erano costretti a cercare il necessario per l’onesto sostentamento al di fuori dell’ambito beneficiale.
Si proponeva allora: «Clericis saeculares in sacris incapaces declarentur ad immobilia possidenda et administranda»18 al fine di promuovere un maggior distacco dei sacerdoti dai beni temporali.
Si raccomandava vivamente: «provideatur clero mediante «polizza» assicurationis circa vitam. Dioeceses obligentur ad providendam assicurationem cleri in casu invaliditatis et senectutis»19.
Si proposero ulteriori correzioni del sistema quali l’imposizione dell’obbligo per il beneficiato di erogare il superfluo in favore dei poveri e per opere pie, e «[…] in sacerdotali ordinatione promissio obtineatur de superfluo devolvendo in unoquoque anno et praecipue in fine vitae in favorem Ecclesiae»20.
La novità di quest’ultima proposta consisteva nell’attribuire una finalità comunitaria al bene ecclesiastico o, propriamente, al superfluo, sotto il controllo dell’Ordinario21.
Coloro che propendevano per una riforma più incisiva del sistema beneficiale affermavano la necessità che «in dioecesi omnia bona communia sint»22, ossia che «omnia cuiusque generis beneficia vel patrimonium Entium Ecclesiasticarum, in genere, in unum coegi [debere]»23.
Coloro invece che asserivano l’importanza di una continuità, sia pure con alcune rettifiche, del sistema beneficiale, chiesero piuttosto che «aerarium commune constituatur in unaquaque dioecesi». In questo fondo ad amministrazione centralizzata, sarebbero confluiti i beni extrabeneficiali, i diritti di stola, i tesori diocesani, le offerte e comunque tutti i beni non appartenenti alla dote beneficiale24.
Si suggeriva inoltre che «Episcopi donentur amplioribus facultatibus in reditibus bonorum ecclesiasticorum administrandis et sacerdotibus pauperibus erogandis»25.
Per limitare le disposizioni canoniche relative all’alienazione dei beni ed alle cause pie, risultava altrettanto necessario adattare «vitae hodiernae leges de bonis ecclesiasticis administrandis»26.
Infine molti padri proponevano: «liberetur clerus ab administratione directa fundorum»27.
L’intervento delle Congregazioni
Tra gli interventi relativi al tema dei beni ecclesiastici, vanno segnalati quelli della Congregazione Concistoriale, della Congregazione De propaganda Fide e della Congregazione del Concilio.
La Congregazione Concistoriale, proponendo una «Amministrazione economica centralizzata», suggeriva la creazione di una cassa centrale comune in cui far confluire tutte le attività economiche-finanziarie al fine di far fronte a necessità di carattere straordinario.
La medesima Congregazione proponeva altresì che, in materia, fosse dato un indirizzo generale per tutte le Chiese del mondo cattolico.
Ciò si riteneva indispensabile per assicurare l’equità nella distribuzione dei beni e una ragionevole perequazione finanziaria, senza tuttavia fare alcun riferimento alle fonti da cui trarre fondi per la costituzione delle casse centralizzate.
Il senso del voto era quindi da intendere più che un radicale mutamento di rotta, come un auspicio a riformare il sistema beneficiale su basi di mutuo soccorso e di comunione dei beni tra comunità ecclesiali28.
La Congregazione De Propaganda Fide, trattando dei territori di missione, sottolineava la necessità di dover ricorrere ad un nuovo ed adeguato sistema a garanzia dell’equo sostentamento dei presbiteri missionari, poiché nei Paesi di missione non esisteva il beneficio29.
La Congregazione del Concilio formulò il parere più circostanziato, articolato in cinque proposte.
La prima prevedeva accanto al parroco un «consilium administrationis», che lo coadiuvasse nella gestione «omnium bonorum paroeciae pertinentium»30.
Le rationes a sostegno della proposta erano: «parochos exsolvere curis temporalibus», per favorire il loro dedicarsi in maniera più efficace alla cura pastorale; «deficentia in multis parochis qualitatum quae ad rectam administrationem ducendam sunt necessariae»; «tutior et utilior collocatio (investimento) bonorum ecclesiasticorum, ineuntibus temporibus apta»31.
La seconda proposta propendeva per il mantenimento del sistema beneficiale, corretto in modo che il titolare del beneficio non fosse più considerato usufruttuario della dote, ma semplice amministratore32.
La medesima, in forza del canone 1473 Codex Iuris Canonici, dichiarava l’obbligo del beneficiato di utilizzare il superfluo «pro pauperibus aut piis causis»33, come già avevano suggerito i Vescovi.
A sostegno di tale proposta la Congregazione formulò due ipotesi.
La prima era che «omnes reditus, qui de expensis productionis et administrationis supersint, in capsam communem dioecesanam vel regionalem vel interregionalem immitti deberent», al fine di determinare criteri di equità a favore dei beneficiari stessi.
La seconda ipotesi prospettava «Ordinariis loci facultates dari deberent determinandi limites redituum qui pro honesta sustentatione titularium sint necessari», per poi ridistribuire con criterio di equità ogni eventuale residuo34.
Le rationes addotte a sostegno della proposta in oggetto, in primis costatavano l’estrema difficoltà di avere «magis aequa distributio redituum inter omnes beneficiarios»35, in secundis sottolineavano il pericolo di «facilis locupletatio aliquorum beneficiariorum» in danno del beneficio stesso36.
La terza proposta suggeriva che si facesse riferimento alle norme espresse nella lettera circolare n. 2076/29, del 20 giugno 1929, inviata dalla medesima Congregazione ai Vescovi d’Italia per garantire una vigilanza efficace sull’amministrazione dei beni ecclesiastici.
In ciascuna Curia Diocesana si sarebbe dovuto costituire un ufficio coadiuvante il Vescovo nella funzione di vigilanza sull’amministrazione di tutti i beni ecclesiastici e «illorum praesertim quae ad pias causas et pias fundationes sunt destinata».
Questo ufficio avrebbe reso più facile al vescovo amministrare la diocesi con maggior senso di concretezza e sistematicità37.
La quarta proposta segnalava poi come fosse un’obbligazione giuridica e morale della Chiesa quella per cui «omnes et singulis clerici saeculares sub ductu et directione Episcoporum», potessero fare fronte alle necessità economiche «pro tempore aegrae valetudinis, inhabilitatis et senectutis»38.
Le ragioni apportate a sostegno della suddetta proposta erano riconducibili ad una triplice motivazione: 1) non costringere i sacerdoti a conservare il beneficio quando fossero in situazioni di malattia o di vecchiaia; 2) non far mancare alla Diocesi quei «benefici semplici» con i quali provvedere al sostentamento dei sacerdoti malati o anziani39; 3) evitare che le previsioni di una vecchiaia indigente del presbitero potessero indurre le famiglie a far desistere i figli dal divenire sacerdoti40.
La Congregazione auspicava inoltre la costituzione di fondi di riserva, destinati a far fronte a casi particolari di bisogno, in modo da fornire dei sussidi straordinari ai chierici in condizioni di debolezza economica41.
Infine, con la quinta proposta, la Congregazione del Concilio riteneva giunto il momento di esperire nuove soluzioni per il sostentamento del clero42.
In effetti ostavano ad una conservazione del sistema beneficiale nella sua forma integrale sia la povertà propria dei sacerdoti, sia la legislazione civile, contraria alla «constitutionem necnon conservatione Sacri Patrimonii»43.
Pertanto diventava importante creare in tutte le diocesi l’Opera Vocationum finalizzata alla raccolta di offerte non esclusivamente in favore dei seminaristi, ma anche «pro sacerdotibus qui laborant et non sunt tamen bene provisi»44.
Queste proposte si tradussero in cinque sententiae relative ai beneficia, redatte da «omnes Consultores VI Coetus studii»45, nelle quali si sosteneva:
Il desiderio di una «revisio seu mutatio […] illius instituti iuris quod inscribitur Beneficium ecclesiasticum», cosicché l’ufficio ecclesiastico e non il beneficio avesse «sic dictam personam moralem iuridicam»46.
La necessità, conservando l’istituto beneficiale secondo le normative del Codex Iuris Canonici, di rimediare a «quod vulgo dicitur «sperequazione»», nella diversità di rendita dei «beneficia curata»47.
La necessità di fissare come regola e principio «quod singula beneficia tutam servent suam naturam suumque finem proprium»48.
La conferma che gli iura stolae, regolati dal canone 1410 Codex Iuris Canonici, fossero da computarsi nei fructus beneficiales e soggetti alle disposizioni del canone 147349.
L’abolizione di ogni reservationis beneficiorum a causa delle numerose difficoltà riscontrabili nella loro collazione50.
L’intervento delle Università e degli Atenei Pontifici
Gli interventi circa i difetti del sistema beneficiale, inviati alla Commissione Antepreparatoria dalle Università e dagli Atenei Pontifici, non furono numerosissimi, ma trattarono il problema in modo serio e approfondito.
Analizzeremo brevemente le proposte che questi istituti hanno suggerito, partendo dagli Atenei romani e passando successivamente alle proposte degli Atenei extra Urbem.
La Pontificia Università Lateranense fondava le sue proposte sul dato di fatto che in molti paesi il sistema beneficiale, di antichissima origine e di grande utilità nei tempi passati, non corrispondeva più ai bisogni e alle richieste dell’«hodierna oeconomia»51.
Da essa erano inoltre sottolineati alcuni inconvenienti del sistema beneficiale, quali: a) l’iniqua distribuzione dei beni ecclesiastici tra i chierici; b) l’allontanamento dei sacerdoti dal sacro ministero e dalla vita spirituale per la necessità di amministrare la dote beneficiale; c) le non rare contese nate tra parroco e fedeli impegnati in prestazioni lavorative agricole nei terreni del beneficio; d) l’impossibilità di avere sempre e comunque parroci esperti di economia o di amministrazione, il che comportava una particolare attenzione da parte dell’Ordinario, «in conferendo beneficio». La scelta doveva cadere infatti su di un sacerdote in possesso delle competenze di carattere amministrativo ed economico, indispensabili alla gestione del beneficio; e) l’eventualità che il sacerdote, teoricamente «idoneus beneficiarius alicuius beneficii», mancasse dei fondi necessari per la conduzione del beneficio stesso52.
La Pontificia Università Lateranense faceva presente la frequenza di questi problemi «in multis regionibus», ma sottolineava tuttavia come non necessario «ut systema beneficiarium omnino subvertatur»53.
Una riforma radicale del sistema beneficiale in uso avrebbe comportato un’estrema difficoltà di modifica, i cui risultati «nemo possit, nisi postquam experientia docuerit, certo praevidere»54.
La Pontificia Università Lateranense, alla luce di queste proposte, ritenne opportuna anche una riforma di alcuni canoni del Codex Iuris Canonici: canone 1429 (relativo alle pensioni e alla previdenza sociale dei sacerdoti), canone 1356 (de seminaristico); e canoni 1504, 1505 e 1506 (sugli altri tributi).
Al fine di garantire una maggiore ridistribuzione dei beni ecclesiastici, pareva opportuno che i Vescovi stabilissero anche delle imposte su redditi e pensioni55.
Sarebbe stato di competenza degli Ordinari di ciascuna nazione determinare l’ammontare dei frutti superflui «in applicando (quod nunc a nonnullis non fit) can. 1473»56.
Lo stesso Codice o una speciale Instructio data dalla S. Sede o da un Concilio Nazionale avrebbero dovuto determinare in modo corretto la quantità e il modo di distribuzione dei tributi progressivi e delle pensioni57.
Si ipotizzava per i Vescovi la facoltà di sperimentare le eventuali riforme evitando di suscitare l’impressione nei benefattori di una mutata gestione delle finalità apposte «legatis et donationibus», tanto da indurre alla cessazione di tali donazioni. Evitando che gli amministratori dei «bona ecclesiastica» siano demotivati a gestirli rettamente e diligentemente58.
La riforma del sistema beneficiale vigente, per ovviare a questi inconvenienti, avrebbe dovuto togliere l’amministrazione diretta ai beneficiari ed affidarla ad un ufficio diocesano o regionale, incentivando con «praemia» gli amministratori che avessero incrementato il patrimonio beneficiale con il loro operato59.
Tuttavia questa modifica nell’amministrazione non avrebbe ovviato al precipuo difetto del sistema beneficiale, che consisteva nella sperequazione circa la distribuzione dei beni tra i chierici60.
L’Ateneo Lateranense segnalava l’opportunità che «administratio beneficiariis auferatur», e nel contempo che fosse loro tolto lo stesso «ius utendi, fruendi beneficialibus fructibus» (cfr. canone 1473). In questo modo i beneficiari sarebbero diventati «ministri pro opera sua stipendium accipientes»61.
Per questo motivo la Pontificia Università Lateranense proponeva la creazione di «aliquam massam dioecesanam vel regionalem vel nationalem», in cui confluissero «fructus beneficiorum», destinati poi ad essere ridistribuiti secondo «aequitatis normam».
Questa diversa impostazione amministrativa dei benefici avrebbe diminuito la difficoltà «in fructuum distributione», per la quale avrebbero dovuto essere emanate delle norme ben determinate; e avrebbe indotto ad educare i fedeli alla comunione ecclesiale, «longe praeferenda et attendenda», rispetto all’arricchimento di un singolo beneficio62.
Il Pontificio Ateneo «De Propaganda Fide» auspicava che al clero, servatis servandis, fossero applicate le leggi dell’assistenza e della previdenza sociale, che regolavano la retribuzione dei dipendenti statali63.
L’Ateneo ricordava che non esisteva una normativa circa la previdenza sociale «pro clericis membris hierarchiae», ma solo delle sporadiche iniziative locali «quae adiuvari deberent et iure disciplinari»64, come anche s. Pio X aveva esortato a fare65.
L’Ateneo ricordava come numerosi canoni del Codex Iuris Canonici evidenziassero la premura della Chiesa «circa honestam sustentationem clericorum», auspicando la riforma del sistema beneficiale.
Precisava inoltre che in ambito ecclesiastico si trovavano già «plures officiales» pagati mediante «onorarium fixum et determinatum propter personalem praestationem activitatis».
Nel voto espresso dal Pontificio Ateneo «De Propaganda Fide» si costatava che in diverse diocesi si era modificata la ricezione «iurium stolae» e delle «taxa[e] quoad actus ecclesiasticos» e ciò portava a valutare l’opportunità di conservare o meno il sistema beneficiale.
Si auspicava quindi, anche secondo il parere di laici esperti, la costituzione di una «massa bonorum […] ex omnibus proventibus ecclesiasticis», attraverso la quale assegnare ai chierici il «relativum honestum salarium»66.
Anche il Pontificio Ateneo Salesiano proponeva l’abolizione del sistema beneficiale, auspicando che il Concilio recuperasse lo spirito della primitiva comunità apostolica, mediante la promozione di un’amministrazione centralizzata di tutti i beni diocesani raccolti nell’unica cassa comune.
In quest’ultima, finalizzata al sostentamento del clero e agli stipendi dei dipendenti laici, avrebbero dovuto confluire tutti i beni beneficiali o extra-beneficiali67, eccettuate le offerte per la celebrazione delle Messe68.
L’abolizione del sistema beneficiale, secondo tali indicazioni, avrebbe promosso la giustizia e l’equità tra il clero, nonché la santità dei sacerdoti.
L’Ateneo concludeva con tale auspicio «systemate beneficiali relicto, omnia bona ecclesiastica dioecesana ab Ordinario loci administrentur et, aequa proportione servata clero, ecclesiis, populo et operibus curae animarum, ordinariis et extraordinariis, pro rata distribuantur»69.
La Pontificia Facoltà Teologica del Sacro Cuore di Gesù di Cagliari, per provvedere decorosamente ai casi di malattia e di vecchiaia del clero, suggeriva la creazione di «aptae domus pro clero» e di pensioni o assicurazioni, «etiam fundando ad hunc finem arcam dioecesanam».
Detta Facoltà Teologica proponeva la riforma della distribuzione dei beni temporali tra i chierici, per assicurare in tutte le diocesi «oeconomica conditio nostris temporibus» e, «dignitati Cleri accomodata».
Essa ricordava come il non equo utilizzo dei frutti della «massa beneficiaria», portasse a notevoli disparità tra le diocesi, nonché tra le parrocchie di una medesima diocesi.
La Facoltà sottolineva inoltre come spesso la condizione dei vicari parrocchiali fosse «miserrima» anche «in paroeciis ubi bona ecclesiastica abundant» e come i seminari stessi non potessero provvedere adeguatamente al sostentamento degli insegnanti70.
L’Università Cattolica di Lublino, in riferimento al canone 1429 del Codex Iuris Canonici, relativo all’assegnazione da parte dell’Ordinario di pensioni perpetue o temporanee, auspicava che fosse stabilita l’età massima «usque ad quam liceat sacerdoti officia ecclesiastica tenere et implere».
L’Università proponeva di aggiungere al Codex Iuris Canonici delle prescrizioni che tutelassero maggiormente i sacerdoti ammalati ed infermi, rilevando che in «multis dioecesibus peculiares a sacerdotibus consociationes securitatis contra morbos, casus, senium causa institutae iam sunt, quae sub vigilantia Ordinarii loci sunt».
Tali «consociationes suapte natura bona[e] utilesque» non potevano, però, perseguire le proprie finalità in quanto gestite «arbitrio et potestate» dagli stessi presbiteri, che spesso non volevano accollarsene gli oneri gestionali.
L’Università segnalava la difficoltà degli Ordinari ad inserire nell’ambito di tali consociationes presbiteri non graditi agli iscritti, pur ricorrendo a «preces, adhortationes, admonitiones».
In favore dei sacerdoti malati ed anziani, si proponeva l’inserimento nell’ambito della normativa canonica delle norme già esistenti nell’ordinamento civile.
Stando così le cose si sarebbero dovute inserire nel Codex Iuris Canonici le seguenti disposizioni:
Nelle diocesi si istituiscano consociationes di chierici di «mutuo soccorso», «Ordinario loci approbante, recognoscente, inspiciente».
Tutti i chierici diocesani siano tenuti a iscriversi alle consociationes e al pagamento della quota annuale «constituta et approbata ab Ordinario».
L’Ordinario abbia il potere di stabilire e comminare pene nei confronti dei sacerdoti «contumaces et officia neglegentes».
La stessa Università, in riferimento al canone 1432 del Codex Iuris Canonici, chiedeva che si giungesse ad una nuova regolamentazione giuridica del sistema beneficiale.
La richiesta era motivata dal fatto che nella Chiesa da tempo si conferiva il beneficio ecclesiastico «in forma, quae Codici ignota est», operando cioè sperequazioni che evidenziavano l’urgenza di un’assegnazione dei benefici secondo l’equità della logica amministrativa71.
L’Università Cattolica di Ottawa proponeva invece la completa abolizione dell’istituto beneficiale, definito «vetusta institutio», da sostituirsi per i parroci con un «salarium» quantificato dall’Ordinario del luogo72.
La Facoltà Teologica di Napoli, dopo aver trattato l’origine (VI secolo) e l’evoluzione del beneficio in «officium beneficiale»73, si soffermava sulla trattazione delle incongruenze giuridiche74 e successivamente delle incongruenze pratiche del beneficio ecclesiastico75.Essa proponeva di sostituire il sistema beneficiale con un sistema di stipendi avanzando le seguenti proposte:
Lo stipendio si assegni anche «ad officia quae hactenus beneficialia non sunt», come i vicari parrocchiali, e si computi in relazione alle diverse esigenze degli uffici e delle necessità locali.
Né l’ufficio sacro, né lo «ius percipiendi reditus» avrebbero dovuto essere considerati più importanti della persona giuridica76.
I beni e i diritti, che a norma del canone 1410 costituivano la dote beneficiale, avrebbero dovuto essere separati dal beneficio e considerati non come «obiectum proprietatis absolutae» ma come «piae fundationes» a norma dei canoni 1544-155177.
Tali pie fondazioni in Italia sarebbero state riconosciute civilmente come «fondazioni di culto».
Queste pie fondazioni avrebbero dovuto riferirsi alla persona morale della diocesi o dei singoli istituti o collegi ed essere amministrate da un consortium diocesano o, nelle piccole diocesi, interdiocesano, sotto il controllo rispettivamente dell’Ordinario o degli Ordinari78.
I diritti di stola, facenti parte o meno della dote beneficiale, avrebbero dovuto confluire in una «massa comune», «ex qua stipendia pro officialibus trahenda sunt»79.
Tutti i parroci avrebbero dovuto essere dichiarati «amovibiles ad nutum», osservando le debite cautele per coloro che non fossero trasferiti ad altro ufficio, «sed simpliciter removentur ob senectutem vel alia impedimenta»80.
Si auspicava la limitazione del numero «officiorum non curatorum» e l’abolizione dei Capitoli, «etiam Cathedralium»81.
La Pontificia Università di Salamanca affermava che il sistema beneficiale in vigore non sembrava né equo né adatto alle attuali necessità della Chiesa.
Essa notava come molti fossero gli «uffici beneficiati», aventi solo importanza storica, a detrimento di molti altri necessari alla Chiesa, «quae tamen beneficia non sunt»82.
L’Ateneo riteneva che fosse più utile ed equo «instaurare in Ecclesia regimen oeconomicum», come accadeva in tutte le istituzioni, nel quale si stabilisse a quali persone o a quali istituti fossero da riferirsi annualmente le entrate e le spese83.
La Facoltà Teologica di Treviri, modificando il disposto del canone del 979 Codex Iuris Canonici, definiva l’ufficio ecclesiastico come «titulus servitii dioecesis»84.
A questo proposito ribadiva l’importanza di inculcare nei chierici la «natura teologico-canonistica» di appartenenza allo stato clericale (cfr. canone 108 § 1), inteso come ministero di culto (cfr. canone 948).
Ciò consentiva, contrariamente alla concezione «ex iure germanico ecclesiarum propriarum orta», di non considerare il beneficio come frutto «utilitatis privatae»85.
L’Ateneo proponeva che i parroci e i curati dovessero rinunziare all’ufficio raggiunti i 70 anni di età, obbligando gli Ordinari ad accettare la rinunzia «nisi propter penuriam sacerdotum necessitas dioecesis aliud postulet»86.
E richiamava l’attenzione sulla necessità di mitigare convenientemente la «lex inamovibilitatis parochorum»87.
Essa auspicava che l’obbligazione di destinare il superfluo ai poveri (cfr. canone 1473) fosse estesa a tutti i sacerdoti indipendentemente dal ministero ecclesiastico esercitato88.
La Pontificia Università di Comillas, afferendo numerose ragioni89, consigliava la soppressione del beneficio parrocchiale esprimendo il desiderio «ut constituatur acervus bonorum ex quo et pensio iubilationum sumatur, et aliarum ecclesiarum indigentiis subveniatur»; ciò nella consapevolezza delle difficoltà connesse alla concretizzazione della modifica90.
L’Università auspicava la soppressione dell’istituto beneficiale, onde permettere che tutti i ministeri fossero ridotti a «mera officia ecclesiastica amovibilia», ma per attuare questa proposta di difficile soluzione, si sarebbe dovuto modificare tutto il Codex Iuris Canonici.
Si demandava quindi al S. Sinodo la scelta definitiva sulla soppressione o il mantenimento dell’istituto beneficiale91.