La tematica del sostentamento nel Codice del 1983: inquadramento sistematico

Cercheremo a questo punto di dare un quadro sistematico sul tema del sostentamento dei chierici nel Codice, attraverso tre passaggi successivi:

l’analisi e lettura composita di alcuni canoni particolarmente significativi circa la nostra materia e cioè i canoni 1272, 1274 e 1275, con riferimento ai canoni 281 § 1; 282 § 2; 384.

La sottolineatura di alcuni aspetti critici circa le categorie di «remuneratio» e «sustentatio» nel Codice vigente, con riferimenti alla precedente codificazione e alla riflessione conciliare.

L’esame di una «situazione-patologica-tipo».

Quest’ultimo passaggio potrà, pertanto, diventare l’occasione per far emergere e verificare le conseguenze della lettura da noi proposta delle suddette categorie oggetto del nostro studio.

 

 

2.1 Lettura composita dei canoni 1272, 1274 e 1275

 

Affrontare una lettura composita dei canoni non significa dirne tutto il possibile, ma, più semplicemente, cercare di evidenziare il filo conduttore che lega la riflessione giuridica che soggiace ai canoni stessi.

Un’altra premessa importante è ricordare che il lavoro di redazione del Codice, soprattutto in queste materie, ha avuto come punti di riferimento essenziali: il Concilio e il principio di sussidiarietà. Del Concilio, i Consultori, hanno tenuto presente non solo i documenti finali, ma anche gli atti; così come si deve ricordare che il Concilio non ha inteso trattare tutte le questioni disciplinari che invece il Codice deve affrontare e, viceversa, che il Codice non intende codificare tutto quanto il Concilio ha detto. Altro elemento importante da ricordare è la varietà di situazioni locali, di legislazioni particolari, di norme civili, alle quali ogni Chiesa particolare deve fare riferimento: da qui la precisa volontà di limitare al massimo le prescrizioni universali, per lasciare al diritto particolare i necessari raccordi con la realtà locale.

Sempre circa la materia del sostentamento del clero accenniamo qui, per poi ritornarvi più avanti, ad una svolta importantissima apportata dal vigente Codice rispetto a quello precedente. Non si parla più del titolo di ordinazione, poiché il sistema del sostentamento del clero si fonda sull’ufficio che si esercita a servizio della Chiesa, per il quale si deve avere un’adeguata remunerazione, anche se non si è incardinati nella Chiesa stessa.

Un testo fondamentale per la remunerazione dei chierici è il canone 281 § 1, posto nel capitolo III, dedicato ai doveri e diritti dei chierici, del libro II del Codice, il quale afferma: «Ai chierici, in quanto si dedicano al ministero ecclesiastico, spetta una remunerazione adeguata alla loro condizione, tenendo presente sia la natura dell’ufficio, sia le circostanze di luogo e di tempo, perché con essa possano provvedere alle necessità della propria vita e alla giusta retribuzione delle persone del cui servizio hanno bisogno». Il canone non può essere letto al di fuori di PO 20, che ne costituisce la vera e propria fonte ispiratrice. Esso stabilisce il diritto alla remunerazione e all’assistenza sociale dei chierici. Si tratta di un diritto nei confronti del Vescovo, che si radica nella condizione stessa di ministro sacro e che trova la sua origine nella stessa incardinazione, ma anche nei confronti di tutti i fedeli, in forza della giustizia distributiva naturale e della Scrittura. Il Vescovo ha dunque l’obbligo di provvedere al sostentamento e all’assistenza sociale dei soli chierici che svolgono il loro ministero nella diocesi.

Il diritto alla remunerazione del chierico non deve essere confuso con quello di un operaio, perché il ministero sacro non può essere considerato come un semplice lavoro di carattere economico.

Il sacerdote non lavora pastoralmente per essere retribuito, non deve perciò ottenere un corrispettivo per delle prestazioni d’opera, ma un giusto compenso basato su un vero e proprio diritto; quindi, se un chierico riceve una remunerazione, questa è finalizzata ad una vita decorosa e allo svolgimento del proprio ministero.

Quali criteri per la remunerazione il canone segnala: la natura dell’ufficio svolto e le condizioni dei tempi e dei luoghi. Tale retribuzione dovrà tener presente una giusta perequazione, senza cadere in un egualitarismo assoluto, contrario ai principi di giustizia e di equità, nonché dannoso ai fini pratici. Essa sarà tale, comunque, da essere sufficiente per le necessità della vita propria, per un’equa retribuzione dei dipendenti e per venire incontro alle necessità dei poveri.

Collegata con la problematica della remunerazione è poi anche la garanzia di un sistema previdenziale con cui far fronte a malattia, vecchiaia e invalidità, di cui al canone 281 § 2: «Così pure occorre fare in modo che usufruiscano della previdenza sociale con cui sia possibile provvedere convenientemente alle loro necessità in caso di malattia, di invalidità o di vecchiaia».

Nel Codex Iuris Canonici 1917 il sostentamento del clero era legato direttamente al titolo canonico di ordinazione, inteso come quell’insieme di beni ed emolumenti mediante i quali si sopperiva alle necessità dei chierici. Il titolo ordinario era quello del beneficio, mentre quelli del patrimonio e della pensione erano considerati come sussidiari. Il titolo del servizio alla diocesi aveva carattere suppletorio. L’istituto dell’incardinazione esisteva, ma aveva solo un carattere disciplinare, perché, per quanto riguarda il servizio e il sostentamento, interveniva il titolo di ordinazione.

Con la riflessione conciliare sul ministero sacro ne è conseguita una nuova interpretazione del significato dell’incardinazione, intesa, questa volta, come relazione di servizio ministeriale, che concretizza quella destinazione universale implicita nella ricezione del sacramento dell’ordine. Ora, dunque, l’incardinazione non rappresenta più il semplice nesso disciplinare di soggezione ad un certo territorio, ma, come categoria complessiva, assume in sé anche le prerogative di quello che, nel passato, era il titolo di ordinazione.

Per quanto concerne il soggetto di questo diritto, possiamo qui affermare che il canone si riferisce direttamente ai chierici dediti al ministero ecclesiastico. Dunque, in via ordinaria, a quei chierici che lavorano, con piena e permanente disponibilità, secondo le direttive del Vescovo diocesano.

Esiste una stretta relazione tra il diritto alla remunerazione e l’esercizio di un ministero ecclesiastico, cosicché il rifiuto della disponibilità richiesta dal canone 274 § 2 potrebbe essere fatto coincidere con la rinuncia al diritto stesso di essere retribuito.

Anche questioni molto concrete, come quelle relative alla remunerazione e al sostentamento del clero, condurrebbero ad un circolo vizioso di recriminazioni, se non fossero rilette sullo sfondo che è loro proprio, perché connaturali alla Chiesa stessa ed al ministero ecclesiale svolto.

Questo significa che le norme circa il sostentamento del clero vanno interpretate nello spirito evangelico, che il Concilio segnala e che il Codice fa proprio. Da qui il canone 282 che, dopo aver richiamato i chierici alla vita semplice, senza stabilire un obbligo giuridico alla povertà materiale, afferma, al § 2: «I beni di cui vengono in possesso in occasione dell’esercizio di un ufficio ecclesiastico e che avanzano, dopo aver provveduto con essi al proprio onesto sostentamento e all’adempimento di tutti i doveri del proprio stato, siano da loro volontariamente impiegati per il bene della Chiesa e per opere di carità». Ancora una volta, il principale riferimento è ai testi conciliari nei quali i chierici sono invitati ad abbracciare la povertà volontaria, per potersi conformare in modo più chiaro a Cristo e poter svolgere meglio il loro ministero.

I Vescovi e i presbiteri devono evitare la vanità e tutto ciò che allontani i poveri da loro, rendere la loro abitazione modesta e accessibile a tutti. I beni temporali devono comunque essere usati per i fini ai quali sono destinati, nel rispetto degli insegnamenti del Signore e dell’ordinamento della Chiesa. Inoltre i veri e propri beni ecclesiastici devono essere amministrati secondo le leggi proprie e impiegati per gli scopi per cui la Chiesa li possiede, e cioè il culto divino, il dignitoso sostentamento del clero ed il mantenimento delle opere di apostolato e carità, specialmente per i poveri.

All’interno del quadro più generale dei diritti e dei doveri del Vescovo in relazione alla sua funzione pastorale, un posto importante è occupato dai presbiteri: «I Vescovi, pertanto, grazie al dono dello Spirito Santo che è concesso ai presbiteri nella sacra ordinazione, hanno in essi dei necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nella funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio».

Il canone 384 propone una traduzione giuridica delle indicazioni conciliari: «il Vescovo diocesano segua con particolare sollecitudine i presbiteri che deve ascoltare come collaboratori e consiglieri, difenda i diritti e curi che adempiano fedelmente gli obblighi propri del loro stato e che abbiano a disposizione i mezzi e le istituzioni di cui hanno bisogno per alimentare la vita spirituale e intellettuale; così pure faccia in modo che si provveda al loro onesto sostentamento e all’assistenza sociale, a norma del diritto».

Dunque tre sono i punti nodali sui quali si deve concentrare l’attenzione del Vescovo nei confronti del suo clero: a) la difesa dei diritti dei chierici, ma anche la vigilanza affinché adempiano alle loro obbligazioni; b) la formazione spirituale e intellettuale; c) le necessità materiali.

Evidentemente questa attenzione trova una specificazione, per quanto riguarda il sostentamento del clero, nel canone 281 e una sua attuazione pratica nelle disposizioni di cui al canone 1274.

Prima di affrontare il canone 1274 è bene ricordare il canone 1272, per verificare quale sia stata la sorte del sistema beneficiale nella nuova codificazione. Ora, è evidente come esso perda il suo significato in vista del sostentamento del clero; infatti, pur non abolendo immediatamente i benefici, è questo l’effetto pratico del canone 1272. Non si vede, infatti, come sia possibile parlare di una sopravvivenza dell’istituto beneficiale quando il canone 1272 stabilisce che i benefici esistenti vengano regolati da parte delle Conferenze episcopali, mediante una normativa transitoria concordata e approvata dalla S. Sede. Tale normativa deve comunque abolire il nesso tra ufficio e diritto ai redditi, i quali redditi e, per quanto possibile, la stessa dote beneficiale, dovranno essere trasferiti all’istituto di cui al canone 1274 § 1.

Il canone 1274, al § 1, afferma: «Nelle singole diocesi ci sia un istituto speciale che raccolga i beni o le offerte, al preciso scopo che si provveda al sostentamento dei chierici che prestano servizio a favore della diocesi, a norma del canone 281, a meno che non si sia provveduto ai medesimi diversamente». Dunque, rileggendo il canone 1272 insieme al canone 1274 § 1 ne viene che, nelle regioni in cui sussistano ancora benefici, le Conferenze dei Vescovi devono dare norme approvate dalla S. Sede per regolarne l’amministrazione, in modo che i redditi e la dote stessa vengano trasferiti a quella istituzione speciale, che deve esistere in ogni diocesi, per raccogliere i beni e le offerte per il sostentamento del clero, di cui appunto al canone 1274 § 1.

Tali istituti, strutturati come persone giuridiche pubbliche, come universitas rerum, agendo in nome della Chiesa e con statuti debitamente approvati, avranno il fine esclusivo di provvedere al sostentamento del clero che svolge un ministero nella diocesi. La loro istituzione è obbligatoria, salvo che si sia provveduto alle necessità del clero in altro modo. La clausola «nisi aliter eisdem provisum sit», non pare riguardare l’obbligatorietà dell’istituto stesso, quanto, piuttosto, i singoli chierici, per cui, in taluni casi, si potrebbe provvedere a loro anche senza l’intervento di tale istituto per il sostentamento.

Dunque vi è un obbligo a costituire in ogni singola diocesi un istituto per il sostentamento del clero, a norma del canone 281 § 1, per i chierici che prestano servizio alla diocesi stessa, anche se è possibile che ad alcuni di essi si provveda diversamente.

Rafforza questa tesi il fatto che, in altri due canoni del Codice, si presuppone l’esistenza necessaria di tale istituto: il canone 1272 e il canone 1303 § 2. Nel primo caso si parla della riforma del sistema beneficiale, la quale non sarebbe possibile senza poter devolvere il reddito o la stessa dote dei benefici all’istituto per il sostentamento del clero. Nel secondo caso si tratta dell’obbligo di destinare i beni residui delle fondazioni non autonome all’istituto per il sostentamento del clero.

L’erezione dell’istituto spetta, evidentemente, al Vescovo diocesano. Infatti, per quanto questo non sia detto esplicitamente dal canone, tuttavia è chiaro che ne ha la potestà (canone 381 § 1), ma anche la responsabilità, visto l’obbligo del prendersi cura delle condizioni anche materiali dei suoi presbiteri (cfr. canone 384). Per quanto il canone 1274 § 1 parli di diocesi, si può ritenere che esso si riferisca anche a tutte quelle Chiese particolari che sono equiparate alle diocesi a norma del canone 369 e del canone 372 § 2.

Il § 5 dispone che questi istituti vengano costituiti, nella misura in cui ciò sia possibile, in modo che godano di personalità giuridica civile. Il loro patrimonio potrà essere costituito con beni e offerte, rendite e doti di benefici («quatenus possibile sit»), beni di fondazioni non autonome estinte (canone 1303 § 2). Inoltre si potranno utilizzare anche i frutti di fondazioni pie costituite per i fini propri di questi istituti, sovvenzioni statali e di enti pubblici o privati, offerte raccolte nelle Chiese, frutti di beni diocesani, tasse, etc.

L’ordinamento giuridico di tale patrimonio spetterà al diritto particolare, che dovrà regolarne la gestione delle entrate e uscite, nel rispetto delle disposizione del CIC sull’amministrazione e l’alienazione dei beni ecclesiastici.

Il § 2 del canone 1274 ribadisce le disposizioni di PO 21, 2 circa la creazione di un istituto per la previdenza sociale del clero finalizzato dunque a prendersi cura della previdenza sociale e dell’assistenza sanitaria del clero, con la dovuta attenzione verso i sacerdoti malati, invalidi o anziani.

Ben si comprende l’opportunità di tale istituto, soprattutto per quei paesi dove l’organizzazione statale non garantisce un’adeguata previdenza sociale per il clero. In ogni caso la norma non è imperativa, nel senso che tale istituto per la previdenza è previsto solo laddove la sicurezza sociale risulti insufficiente.

La proposta di Ecclesiae Imago al n. 136 di concentrare  tutte le oblazioni in un unico fondo, che poteva essere istituito dal diritto particolare, non è stata accolta dal Codice, il quale stabilisce la costituzione di un fondo comune diocesano e separato, che non deve necessariamente godere di personalità giuridica, a) quando bisogna retribuire altre persone che prestano servizio nella Chiesa; b) per soddisfare altre necessità della diocesi (canone 1274 § 3); c) così come per prestare un opportuno aiuto da parte delle Chiese più ricche a quelle più povere.

Tale massa comune di beni nella diocesi era già proposta da PO 21, da ES I, 8 nonché ribadita da Ecclesiae Imago al n. 138. Essa, inoltre, richiama alla mente il dettato del canone 231 §§ 1-2 allorquando si riferisce alla necessità di provvedere a coloro che prestano un servizio alla Chiesa pur non essendo chierici; così dicasi per il canone 1271 che invita le Chiese particolari a non fare mancare il loro aiuto alla Chiesa universale.

Costituire tale massa non comporta evidentemente un obbligo, se non nella misura in cui essa risulti necessaria («quatenus opus sit»).

Un’ultima questione assai importante si riferisce alla scelta di centralizzare la gestione economica degli uffici, oppure di decentrarla nelle parrocchie o in altre persone giuridiche.

Per quanto la questione possa sembrare di carattere semplicemente organizzativo, in realtà essa tocca anche altri temi di rilievo, come la responsabilizzazione delle comunità locali nel sostegno al clero a servizio della comunità stessa. Evidentemente, nelle scelte concrete, si dovranno considerare, oltre ai criteri d’efficienza organizzativa ed alle opportunità offerte dagli ordinamenti statali, anche tutto il quadro complessivo dei valori in gioco.

Il canone 1274 al § 4 suggerisce come i fini di cui ai §§ 2-3 dello stesso canone 1274, considerate le situazioni oggettive dei diversi luoghi, possano essere conseguiti anche mediante la cooperazione tra diverse diocesi. Essa potrebbe assumere tre forme diverse: istituzioni diocesane tra loro confederate e con un organismo centrale di direzione; semplice cooperazione tra le diverse istituzioni diocesane nell’organizzazione e gestione dei servizi e, infine, mediante la costituzione di un’unica istituzione, per convenientem consociationem, tra le varie diocesi o per tutto il territorio della Conferenza episcopale.

Al canone 1275 viene riservato il compito di indicare come le masse di beni provenienti dalla diverse diocesi vadano regolate secondo le norme emanate dai Vescovi interessati: si tratta di un’espressione del principio conciliare di cooperazione interdiocesana.

 

 

 

 

2.2 Le categorie di «sustentatio» e di «remuneratio»: rilievi critici

 

Nell’attuale codificazione, il tema del sostentamento del clero è presente sia nel libro V del Codice, che nel libro II, nella parte dedicata ai diritti e doveri dei chierici. Non si potrebbe comprendere adeguatamente la portata innovativa del Codice vigente se non si tenesse presente come, nel Codex Iuris Canonici 1917, il tema del sostentamento del clero, attuato soprattutto attraverso il sistema beneficiale, occupasse l’intera V parte del libro III, De rebus, con 86 canoni (1409-1494).

Molti e diversi possono essere i «punti di vista» attraverso i quali rileggere il nostro tema. Noi abbiamo scelto l’analisi delle categorie di remuneratio e sustentatio, perché ci pare possa far emergere con chiarezza il proprio del sostentamento del clero da parte della Chiesa, rispetto ad altre organizzazioni lavorative o sociali.

Innanzitutto, un’adeguata interpretazione delle categorie di cui sopra può essere aiutata da un breve e sintetico excursus sull’uso dei due termini nella codificazione del 1917 e in quella vigente.

Nel Codex Iuris Canonici 1917 il termine «remuneratio» ricorreva solo due volte: nel canone 476 § 1, dove si parlava di una «congrua remuneratio» da assegnare al vicario cooperatore in una parrocchia e nel canone 1535, nel quale si disponeva che i prelati e i rettori potessero fare donazioni dei beni mobili delle proprie Chiese «iusta interveniente causa remunerationis». Non si può affermare che questi due canoni consentano una precisa connotazione della categoria di remunerazione, salvo intenderla, in modo molto generico, come compenso per un servizio reso.

Di gran lunga più usato il termine «sustentatio»: il canone 1496, per esempio, parlava del diritto della Chiesa di esigere dai fedeli quanto era necessario per l’onesto sostentamento dei chierici (ad honestam sustentationem); il canone 2299 § 3 asseriva che un chierico non poteva essere privato del beneficio o della pensione per cui era stato ordinato, se non fosse stato previsto altrimenti al suo onesto sostentamento (nisi aliunde eius honestae sustentationi provideatur). Il senso di questo termine è più generico e, in fondo, diverso rispetto a «remuneratio»; infatti, esso non indica tanto una modalità mediante la quale viene compensato un servizio reso, ma piuttosto quanto sia necessario per la dignitosa vita del chierico, a prescindere dalle concrete modalità con le quali si possa conseguire tale obiettivo.

Nel Codex Iuris Canonici 1983, oltre ai canoni 1274 § 1 e 281 § 1, che già abbiamo avuto occasione di segnalare, ritroviamo i termini oggetto della nostra analisi in diversi altri canoni:

Canone 191 § 2: «Il trasferito percepisce la remunerazione connessa con il primo ufficio (Remunerationem cum priore officio conexam translatus percipit), finché abbia ottenuto canonicamente il possesso del secondo».

Canone 222 § 1: «I fedeli sono tenuti all’obbligo di sovvenire alle necessità della Chiesa, affinché essa possa disporre di quanto è necessario per il culto divino e per l’onesto sostentamento dei ministri (ad honestam ministrorum sustentationem necessaria sunt)».

Canone 230 § 1: «I laici di sesso maschile, che abbiano l’età e le doti […] possono essere assunti […] ai ministeri di lettore e accolito; tuttavia tale conferimento non attribuisce loro il diritto al sostentamento o alla rimunerazione da parte della Chiesa (quae tamen ministeriorum collatio eisdem ius non confert ad sustentationem remunerationemve ab Ecclesia praestandam)».

Canone 231 § 2: «Fermo restando il disposto del canone 230 § 1, essi hanno diritto ad un’onesta rimunerazione adeguata alla loro condizione (ius habent ad honestam remunerationem suae condicioni aptatam), per poter provvedere decorosamente, anche nel rispetto delle disposizioni del diritto civile, alle proprie necessità e a quelle della famiglia; hanno inoltre il diritto che in loro favore si provveda debitamente alla previdenza, alla sicurezza sociale e all’assistenza sanitaria».

Canone 263: «Il Vescovo diocesano oppure, se si tratta di un seminario interdiocesano, i Vescovi interessati […] devono fare in modo che si provveda alla costituzione del seminario, al sostentamento degli alunni, alla rimunerazione degli insegnanti […] (alumnorum sustentationi necnon magistrorum remunerationi) ».

Canone 269 § 1: «Il Vescovo diocesano non proceda all’incardinazione di un chierico se non quando: 1° ciò sia richiesto dalle necessità o utilità della sua Chiesa particolare e salve le disposizioni del diritto riguardanti l’onesto sostentamento dei chierici (honestam sustentationem clericorum) ».

Canone 281: «§ 3. I diaconi coniugati, che si dedicano a tempo pieno al ministero ecclesiastico, siano rimunerati in modo che siano in grado di provvedere al proprio sostentamento e a quello della loro famiglia (remuneratione merentur qua sui suaeque familiae sustentationi providere valeant); coloro poi che ricevano una rimunerazione per la professione civile che esercitano o hanno esercitato (qui vero ratione professionis civilis […] remunerationem obtineant), provvedano ai loro bisogni e a quelli della propria famiglia con i redditi provenienti da tale rimunerazione».

Canone 282 § 2: «I beni di cui vengono in possesso in occasione dell’esercizio di un ufficio ecclesiastico […], dopo aver provveduto con essi al proprio onesto sostentamento (provisa ex eis honesta sustentatione) siano da loro volontariamente impiegati per il bene della Chiesa […]».

Canone 295 § 2: «Il Prelato deve provvedere sia alla formazione spirituale di coloro che ha promosso con il predetto titolo, sia al loro decoroso sostentamento (sive eorundem decorae sustentationi) ».

Canone 384: «Il Vescovo diocesano segua con particolare sollecitudine i presbiteri […] così pure faccia in modo che si provveda al loro onesto sostentamento e all’assistenza sociale (item curet ut eorum honestae sustentationi atque assistentiae sociali), a norma del diritto».

Canone 402 § 2: «La Conferenza Episcopale deve curare che si provveda ad un adeguato e degno sostentamento del Vescovo che rinuncia (curare debet ut congruae et dignae Episcopi renuntiantis sustentationi provideatur) […]».

Canone 418 § 2: «Dal momento che ha ricevuto notizia certa del trasferimento fino alla presa di possesso canonico della nuova diocesi, nella diocesi di provenienza il Vescovo trasferito […] 2° percepisce l’intera remunerazione propria dell’ufficio (integram percipit remunerationem officio propriam) ».

Canone 531: «Anche se è un altro a svolgere qualche incarico parrocchiale, le offerte ricevute dai fedeli in tale occasione siano versate nel fondo parrocchiale […] spetta al Vescovo diocesano, sentito il consiglio presbiterale, stabilire le norme con le quali si provvede alla destinazione di tali offerte e alla rimunerazione dei chierici che svolgono il medesimo incarico (necnon remunerationi clericorum idem munus implentium) ».

Canone 538 § 3: «Compiuti i settantacinque anni, il parroco è invitato a presentare la rinuncia al Vescovo diocesano il quale […] deve provvedere in modo adeguato al sostentamento e all’abitazione del rinunciante (renuntiantis congruae sustentationi et habitationi ab Episcopo dioecesano providendum est) […]».

Canone 707 § 2: «Quanto al suo sostentamento conveniente e degno, se il Vescovo è stato a servizio di una diocesi (Quoad eius congruam et dignam sustentationem) si osservi il canone 402, § 2 […]».

Canone 946: «I fedeli che danno l’offerta perché la Messa venga celebrata […] contribuiscono al bene della Chiesa, e […] partecipano della sua sollecitudine per il sostentamento dei ministri e delle opere (atque eius curam in ministris operibusque sustinendis ea oblatione participant) ».

Canone 1254 § 2: «I fini propri (dei beni temporali) sono principalmente: ordinare il culto divino, provvedere ad un onesto sostentamento del clero e degli altri ministri (honesta cleri aliorumque ministrorum sustentatio procuranda) […]».

Canone 1350 § 1: «Nell’infliggere pene ad un chierico si deve sempre provvedere che non gli manchi il necessario per un onesto sostentamento (ne iis quae ad honestam sustentationem sunt necessaria ipse careat) […]».

Da una prima e sommaria analisi dei concetti di remunerazione e di sostentamento nei canoni citati, non si può che osservare una certa somiglianza, che, talvolta, sembra condurre ad una sostanziale coincidenza fra i due termini, per cui appaiono interscambiabili.

Dunque i concetti sono da considerarsi in relazione tra loro, per quanto vi siano alcune differenze che meritano di essere rilevate: in primo luogo il fatto che la remunerazione è un mezzo attraverso il quale può essere conseguito il fine del sostentamento.

In secondo luogo si può osservare come non necessariamente il sostentamento è conseguito mediante la remunerazione. Esso, infatti, può derivare: a) da altre fonti, come l’offerta per la Messa o i beni che vengono al presbitero dall’esercizio dell’ufficio ecclesiastico (canoni 946; 282 § 2). b) Da altre modalità non necessariamente di tipo remunerativo, come per i membri delle prelature personali (canone 295 § 2).

Pure importante è osservare come il diritto al sostentamento, di cui si parla in riferimento all’incardinazione (canone 269) e nel caso di provvedimenti penali (canone 1350 § 1), pare più legato al fatto di essere chierici che a quello di esercitare un ministero o incarico ecclesiastico. Dunque vi possono essere casi nei quali vi è un diritto al sostentamento anche se non si esercita più un ufficio ecclesiastico, per esempio nella fattispecie dei Vescovi e parroci emeriti. Possiamo già, da questi primi elementi, pensare che la categoria di remunerazione sia legata all’esercizio di una funzione o di un ufficio, mentre il sostentamento è una categoria più ampia che, nel caso che ci riguarda, ossia i chierici, comprende tutto quanto sia necessario per condurre una vita degna e onesta.

Tale sostentamento deve essere onesto e decoroso. Il fatto che, per i Vescovi emeriti, si parli di sostentamento congruo e degno (canoni 402 § 2 e 707 § 29) e per i parroci emeriti, di sostentamento congruo (canone 538 § 3), termini che normalmente sono applicati alla categoria di remunerazione, pare suggerire come sia opportuno rimarcare che il sostentamento debba essere veramente congruo, cioè adeguato e, nel caso di un Vescovo, anche degno della sua posizione episcopale, si deve tenere conto che questi soggetti non sono più titolari di un ufficio per motivi indipendenti dalla loro disponibilità soggettiva, bensì a causa di una condizione oggettiva legata all’anzianità o alla malattia.

La categoria di remunerazione è dunque legata all’impegno in un ministero ecclesiastico ed è finalizzata al sostentamento. Infatti essa è il mezzo normale con il quale viene garantito il sostentamento dei chierici. Tutto questo è perfettamente in linea con il fatto che un chierico possa comunque mantenere il diritto ad avere quanto gli serve per vivere e quindi un adeguato sostentamento, anche se non esercita più un ufficio o incarico ecclesiastico oppure ne è stato privato per motivi penali. Un chierico può avere dunque diritto al sostentamento anche senza avere diritto ad una remunerazione, per cui è possibile avere il sostentamento senza il modo della remunerazione, ma non vale il contrario.

Nel tentativo di chiarire ulteriormente il concetto di remunerazione possiamo domandarci se essa possa essere vista come un mezzo attraverso il quale il chierico viene compensato per il servizio che egli rende alla Chiesa. Tale posizione pare però profondamente ambigua: certamente la remunerazione è finalizzata al sostentamento del chierico, ma non è certo indirizzata ad un pagamento delle sue prestazioni, secondo una logica del «do ut des», bensì trova la sua ragione nell’invito evangelico per cui l’operaio del Vangelo ha diritto a vivere della predicazione della Parola.

Vi sono altri aspetti della remunerazione che non vanno dimenticati: essa deve tener conto della natura del compito o ufficio esercitato. Questo non significa certamente che quanto più l’ufficio è importante nella gerarchia ecclesiastica tanto più debba essere remunerato e neppure che tutte le spese che l’adempimento di un ufficio comporta debbano essere coperte attraverso la remunerazione. Poiché, appunto, il sostentamento è la finalità della remunerazione, allora si «potrebbe ritenere, che la remunerazione dovrebbe servire, oltre che per il sostentamento, per venire incontro a quelle spese, connesse con l’esercizio di un incarico, sostenute per loro natura direttamente dal chierico: non imputabili, cioè, all’ente presso cui il chierico esercita il suo ministero o difficilmente quantificabili in vista di un rimborso spese».

La remunerazione dovrà tener conto poi delle variabili date dai luoghi e dai tempi, in modo tale che sia congrua, cioè sufficiente, proprio in rapporto a quelle condizioni che non possono essere stabilite a priori e che le differenze dei luoghi, per esempio, possono rendere particolarmente significative. Ciò che conta è che la remunerazione sia concretamente adeguata alle circostanze, ai luoghi e ai tempi nei quali un chierico svolge il proprio incarico. Si può dunque affermare che un chierico abbia diritto al suo sostentamento, sia che eserciti o non eserciti un incarico ecclesiastico (canoni 269; 384; 1350 § 1), o meglio si può intendere che la Chiesa ha il dovere di preoccuparsi affinché ogni chierico abbia quanto sia necessario al suo sostentamento, intervenendo nei casi di necessità.

Il diritto al sostentamento si può dire che coincida con quello alla remunerazione nel caso di chierici che esercitano un qualche ministero. Tuttavia il problema che si pone è se un chierico abbia diritto alla remunerazione. Il canone 281 § 1 dice semplicemente che i chierici «merentur remunerationem», non che hanno un diritto. Il canone 281 § 3 prevede che i diaconi coniugati non abbiano diritto alla remunerazione se già ne ricevono una dall’esercizio attuale o precedente di una professione civile e questo anche nel caso in cui esercitino un incarico ecclesiale a tempo pieno.

Se a queste fattispecie aggiungiamo quella dei chierici appartenenti ad istituti religiosi o a società di vita apostolica, che esercitano un ministero nelle strutture del proprio istituto e società, certamente essi hanno il diritto di essere sostentati dalla loro comunità, ma non quello di ricevere una remunerazione. Invece, nel caso in cui, gli stessi chierici, si trovassero a prestare un servizio ad altre strutture ecclesiali, come le parrocchie, essi non perderebbero il diritto ad essere sostenuti dalla propria comunità, ma avrebbero anche il diritto di ricevere una remunerazione, per quanto, generalmente, la debbano versare alla comunità stessa di appartenenza (cfr. canoni 668 § 3; 741 § 2).

Ci si potrebbe chiedere se anche un chierico, il quale gode di un patrimonio personale, vuoi per eredità o per altra ragione, in grado di sostenerlo, abbia diritto alla remunerazione. Se la remunerazione è legata al sostentamento, allora egli non ne ha bisogno per conseguire i mezzi necessari alla sua vita. D’altra parte, l’attuale codificazione ha abolito il titolo di ordinazione, per cui l’obbligo di sostenere il chierico secolare, da parte dell’Ordinario, interviene solo in via sussidiaria, come titolo di servizio alla diocesi. Ciò spinge a pensare che i beni personali del chierico, non solo non debbano essere considerati in ordine alla sua remunerazione, ma neppure in ordine al suo sostentamento.

Raccogliendo quanto siamo venuti dicendo possiamo affermare che nel Codice emerge un diritto al sostentamento, a prescindere da eventuali beni personali e che è legato al fatto di essere chierici.

Tale sostentamento deve essere garantito dalla Chiesa particolare, dalla prelatura, dall’istituto o dalla società alla quale il chierico appartiene. Tali istituzioni potranno intervenire direttamente o indirettamente a seconda che il chierico riceva o meno una remunerazione da altri per l’esercizio del suo ministero.

Il sostentamento viene normalmente assicurato mediante una remunerazione legata all’esercizio di un incarico ecclesiale, soprattutto nel caso di chierici secolari. Tuttavia si possono dare altre fattispecie:

esercizio del ministero senza remunerazione, ma con sostentamento, nei casi, per esempio, di chierici religiosi o di società di vita apostolica, membri che prestano servizio nelle strutture del proprio istituto o società.

Esercizio del ministero senza remunerazione e senza sostentamento, come nel caso dei diaconi coniugati con redditi provenienti da professione civile.

Esercizio di ministero con remunerazione solo indirettamente rivolta al sostentamento del chierico. È evidentemente il caso di quei religiosi o membri di una società di vita apostolica che esercitano un ministero, per esempio in una parrocchia, e che, per questo, ricevono una remunerazione, che tuttavia va alla comunità, la quale provvede direttamente al loro sostentamento.

Il diritto al sostentamento, anche se, al limite, può essere solo di carattere suppletivo in caso di necessità, è legato alla condizione di chierico ed è assoluto. Il diritto alla remunerazione non è invece assoluto e rivolto a tutti infatti esso esige, quale sua condizione, lo svolgimento di un incarico ecclesiale e che la remunerazione stessa sia la modalità concretamente prevista con cui viene garantito direttamente, vedi i chierici secolari, o indirettamente, vedi i chierici religiosi, il sostentamento dei chierici stessi.

Un altro problema che resta da analizzare è la definizione dei  soggetti destinatari del sostentamento di cui al canone 1274 § 1.

In tale canone si afferma, infatti, che, nella diocesi, viene previsto un istituto, il cui specifico compito è quello di provvedere al sostentamento dei chierici che ivi prestano servizio a norma del c. 281. In primo luogo si sta parlando di chierici, pertanto i beneficiari dell’istituto diocesano di sostentamento del clero sono esclusivamente i Vescovi, i presbiteri e i diaconi (cfr. canoni 207 § 1; 1008; 1009 § 1). È chiaro dal testo del canone, così come dal suo cammino redazionale, che non si è voluto distinguere tra Vescovi, presbiteri o diaconi; tra chierici secolari e chierici membri di istituti religiosi o di società di vita apostolica. L’unico criterio essenziale è il fatto di prestare un servizio a favore della diocesi.

Si tratta ora di specificare meglio cosa significhi prestare un servizio a favore della diocesi. Infatti, ci si può chiedere se basti l’incardinazione per dire che un soggetto è a servizio della diocesi, ma «un conto è essere al servizio della diocesi, un altro è prestare servizio a favore della diocesi. La prima situazione predispone alla seconda, ma non la esige necessariamente; mentre la seconda non richiede come presupposto la prima, altrimenti i chierici religiosi o appartenenti a società di vita apostolica sarebbero esclusi dal prestare servizio a favore della diocesi».

Possiamo dunque ritenere che l’istituto di cui al canone 1274 § 1 si debba prendere cura di quei chierici che effettivamente prestano un servizio a favore della diocesi; infatti, il canone 281, al quale il canone 1274 § 1 fa riferimento, parla della remunerazione come connessa all’esercizio del ministero ecclesiastico e non all’incardinazione, quale mezzo normale per garantire il sostentamento del clero. Se assumiamo questa posizione ne deriva pure che restano esclusi da tale istituto anche i chierici che, incardinati nella diocesi, non prestano più effettivamente servizio perché inabili per età o malattia; oppure coloro che si sono legittimamente trasferiti da una diocesi ad un’altra. Questo non significa che la diocesi di appartenenza non debba prendersi cura di tali chierici, ma semplicemente che lo potrà fare attraverso altri istituti diversi da quello previsto dal canone 1274 § 1 oppure, se dovesse intervenire l’istituto stesso in questione, non avrebbe dovere di farlo se non come funzione secondaria e accessoria.

Affermato che i soggetti destinatari del sostentamento nella forma remunerativa di cui al canone 1274 § 1 sono i chierici che effettivamente svolgono un servizio a favore della diocesi, ci resta da chiarire meglio in che cosa esso consista, ovvero da determinare i criteri per definirlo. Certamente svolgono un servizio effettivo a favore della diocesi tutti i chierici che sono titolari di un ufficio ecclesiastico a norma del canone 145 § 1. Tale ufficio si caratterizzerà per essere un incarico costituito stabilmente per ordinazione divina o ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale; e ciò per il fatto di essere inserito nella struttura della Chiesa diocesana e perché conferito dal Vescovo a norma del canone 157.

Certo, non sempre un servizio alla diocesi comporta la titolarità di un vero e proprio ufficio ecclesiastico: potrebbe trattarsi semplicemente di un incarico con una certa continuità nel tempo e un suo significato nella struttura della chiesa diocesana. «Anche in questo caso segno della diocesanità sarà il conferimento o comunque l’approvazione dell’incarico da parte dell’Ordinario diocesano o di chi lo rappresenta».

Si tratta, comunque, di criteri assai generici; ecco perché spetterà alla normativa diocesana o sopradiocesana, per esempio a livello di Conferenza episcopale, stabilire e precisare gli elementi secondo i quali un chierico possa ritenersi a servizio della diocesi e quindi rientrare tra coloro per cui opera, in modo diretto, l’istituto di cui al canone 1274 § 1.

Un’ulteriore domanda che ci si può porre è se l’istituto per il sostentamento del clero sia l’unico strumento per garantire tale supporto ai chierici. Nella prospettiva suggerita tale affermazione non può essere accolta visto che l’istituto non si rivolge neppure a tutti i chierici incardinati nella diocesi. D’altra parte rafforza tale ipotesi il fatto che il § 1 dello stesso canone 1274 preveda che si possa provvedere in altro modo ai chierici. Se dunque l’istituto è un mezzo, ma non l’unico, per garantire il sostentamento del clero, allora neppure tutti i beni e le offerte destinate a tale scopo dovranno necessariamente essere convogliate verso l’istituto stesso. Poiché, però, esso è la forma privilegiata, per quanto non esclusiva, per sostenere i chierici che prestano servizio alla diocesi, ne consegue che esso resta “il luogo” verso il quale far riferimento in primis per tali offerte.

Il canone 531 stabilisce che vadano nella cassa parrocchiale le offerte date ai presbiteri in occasione di qualche funzione o incarico parrocchiale e che il Vescovo diocesano, sentito il Consiglio presbiterale, possa stabilire le norme con le quali si provveda alla remunerazione dei sacerdoti che svolgono il medesimo incarico mediante le offerte stesse.

Il problema è se la remunerazione del clero parrocchiale debba derivare esclusivamente dall’istituto di cui al canone 1274 § 1 oppure, almeno in parte, dalla cassa parrocchiale. Si tratta di due prospettive molto diverse. In un primo caso sarebbe la comunità al cui servizio il presbitero presta servizio, che si dovrebbe prendere cura del suo mantenimento. Nel secondo caso sarebbe un istituto centralizzato a gestire le offerte dei fedeli e altri beni patrimoniali.

Da una lettura generale del Codice si può dire che non esista, se non in questo canone e in modo ambiguo, l’accenno al fatto che il sostentamento dei chierici spetti in primo luogo alla comunità presso la quale questi svolge il suo ministero. Il principio generale del Codice (cfr. canoni 222 § 1; 1261 § 2), già presente nei testi conciliari (cfr. PO 20), è quello per cui i fedeli devono sentirsi in obbligo di assicurare il sostentamento di tutti i ministri sacri e non solo, ma in modo specifico, di quelli che sono addetti alla loro comunità. Rafforzerebbe questa tesi il fatto stesso che PO 20 e 21 sembrano indicare come l’intervento dei fedeli debba intervenire solo quando non sia possibile provvedere in «altro modo» all’equa remunerazione dei presbiteri e privilegiano, in tal caso, l’istituto diocesano come punto di riferimento di tutte le offerte, e non le singole comunità o gli enti presso i quali i chierici prestano servizio.

Per quanto riguarda, infine, l’entrata dovuta all’applicazione della santa messa, di cui al canone 945 § 1, non si deve dimenticare come il canone 946, affermi che la prassi dei fedeli di devolvere offerte per l’applicazione delle messe ha un duplice motivo: «ad bonum conferunt Ecclesiae atque eius curam in ministris operibusque sustinendis ea oblatione participant». Dunque le intenzioni delle messe vanno per il sostentamento del clero, ma anche per le opere e le attività della Chiesa.

In breve: il Codice ha “normato” le direttive conciliari sulla nozione di ufficio, sull’abolizione dei benefici e sull’erezione dell’istituto per il sostentamento del clero, apportando elementi nuovi e le necessarie precisazioni.

Per quanto ci riguarda possiamo affermare che, per il sostentamento del clero, il Codice stabilisce come norma generale che l’istituzione che incardina il chierico mediante l’ordinazione debba provvedere anche al suo mantenimento. Il canone 281 indica inoltre che al chierico che svolge un ufficio o ministero ecclesiastico deve essere data un’equa rimunerazione. Al fine di conseguire il sostentamento del chierico, si può dunque utilizzare la modalità della remunerazione mediante l’applicazione del canone 1274, che prevede un istituto per il sostentamento del clero.

 

 

2.3 Una situazione patologica

 

Il problema che qui si pone non è certamente quello relativo alle procedure amministrative da seguirsi nei casi circa la materia del sostentamento del clero, ma semplicemente quello di individuare, da alcune fattispecie significative, ulteriori elementi circa le categorie oggetto della nostra analisi.

Non poche cause sono state presentate in materia di devianza sessuale applicando il canone 1044 § 2, 2°: «Sono impediti ad esercitare gli ordini: […] colui che è affetto da pazzia o da altre infermità psichiche di cui nel canone 1041 § 1, fino a che l’Ordinario consultato il perito non avrà consentito l’esercizio del medesimo ordine». Le polemiche circa questi casi sono particolarmente complesse e non è certo qui la sede per affrontarle.

Da questi riferimenti evidenziamo un «caso-tipo»: può un Vescovo privare della remunerazione un sacerdote accusato di abusi sessuali, se questi, per esempio, si rifiuti di fornire al Vescovo stesso i risultati di un’indagine psicologica sul suo stato o di sottoporsi ad una terapia psichiatrica?

Considerato il dettato del canone 281 possiamo dire che un chierico, il quale non esercita un ministero ecclesiale non abbia diritto ad una remunerazione. Così un chierico il quale si rifiutasse di assumere un «munus» affidatogli dal suo legittimo Ordinario, senza un legittimo impedimento, non potrebbe meritare una remunerazione a norma del canone 274 § 2.

Vi sono però altri due canoni da tener presente: il canone 281 § 2 da cui si può trarre che un chierico, il quale non possa dedicarsi per infermità, invalidità o anzianità, ad un ministero ecclesiastico, ha diritto a che si provveda adeguatamente affinché goda dell’assistenza sociale. Non si parla qui di remunerazione, ma di un diritto del chierico a che si provveda adeguatamente alle sue necessità quando, non per sua volontà, non possa più svolgere un ministero ecclesiale.

Potrebbe darsi però il caso in cui un soggetto sia stato impedito all’esercizio di un ministero ecclesiale a motivo di una pena. In tale fattispecie vale il dettato del canone 1350 § 1: «nell’infliggere pene ad un chierico si deve sempre provvedere che non manchi il necessario per un onesto sostentamento, a meno che non si tratti della dimissione dallo stato clericale». Ora, in un caso come questo, l’Ordinario è invitato a provvedere affinché non manchi ciò che è necessario ad «honestam sustentationem»; addirittura, nel caso in cui il chierico sia stato dimesso dallo stato clericale, il § 2, sempre del canone 1350, prevede che «l’Ordinario abbia cura di provvedere nel miglior modo possibile a chi è stato dimesso dallo stato clericale e che a causa della pena sia veramente bisognoso».

Se dunque l’Ordinario è tenuto a questa attenzione per il sostentamento di un chierico, il che non significa remunerazione, ma comunque implica un dovere di provvedere in qualche modo ad un onesto sostentamento, è ragionevole pensare che lo stesso possa dirsi nel caso in cui il Vescovo stesso impedisca ad un chierico l’esercizio di un ministero ecclesiastico.

Il Vescovo ha certamente il diritto, ma anche il dovere, di non concedere un ufficio ecclesiastico ad un sacerdote di cui non consti l’idoneità a norma del canone 149 § 1. Al tempo stesso, in caso di dubbio sull’idoneità di un sacerdote ad esercitare un ministero, può dichiararlo impedito a norma del canone 1044 § 2, 2° insieme al canone 1041 § 1, chiedendo ai periti, se non una perizia sul soggetto, appunto nel caso che questo si rifiutasse, un «votum» sugli atti a disposizione (cfr. canone 1574). Senza entrare in un esame approfondito sulla questione se un Vescovo possa legittimamente imporre ad un sacerdote un esame psicologico «ex officio», accenniamo semplicemente alla nostra posizione negativa in proposito: il Vescovo può chiedere ad un sacerdote di sottoporsi ad un esame, ma non può imporglielo, senza violare il disposto del canone 220, da leggersi insieme ai canoni 630 § 5 e 642.

Dunque un sacerdote potrebbe legittimamente ricusare di sottoporsi ad un esame psichiatrico, ma, al tempo stesso, un Vescovo potrebbe legittimamente negargli un ufficio o ministero ecclesiale se dubitasse della sua idoneità.

Un sacerdote che non esercita un ministero ecclesiale non ha certamente diritto alla remunerazione, ma questo non toglie che possa aver diritto ad un sostentamento adeguato alle sue necessità. Infatti, addirittura si può dubitare che, qualora violi il canone 274 § 2, gli si possa negare la cura della Chiesa in cui è incardinato per il suo sostentamento, peggio ancora nel caso in cui il sacerdote non rifiuti di assumere l’ufficio che l’Ordinario gli affida, ma, semplicemente e propriamente, di sottoporsi all’esame dei periti stabiliti dal Vescovo. In fondo, in questo caso, non è il sacerdote che rifiuta un ufficio, ma il Vescovo che lo ricusa, pur avendone tutto il diritto.

Se poi aggiungiamo il fatto che anche nel caso gravissimo in cui un chierico sia dimesso dallo stato clericale, l’Ordinario è invitato a prendersi cura, nel migliore modo possibile, di tale chierico, qualora sia, proprio a causa della pena canonica, in uno stato di vera indigenza. Tanto più nella fattispecie da noi citata come «caso-tipo» non esistono motivi sufficienti per negare che la Chiesa in cui il chierico è incardinato, debba prendersi cura del minimo necessario per il suo sostentamento. Non si sta parlando di un diritto alla remunerazione, che non esiste, ma di una cura che la Chiesa non può negare ad un sacerdote che, se non altro, può rientrare nella fattispecie di cui al canone 281 § 2. Evidentemente si tratterà di un sostentamento proporzionato a quanto necessario per la vita, non di remunerazione o altro, che vada oltre il necessario per vivere dignitosamente.

Altro caso di un certo interesse è quello della rimozione di un parroco. Il canone 1746 prevede che il Vescovo abbia l’obbligo di provvedere al parroco rimosso mediante l’assegnazione di un altro ufficio, se ne è capace, oppure con una pensione, se ne sia il caso e le circostanze lo permettano. Se al parroco viene conferito un altro ufficio, egli allora ha comunque diritto alla remunerazione. Ma se il Vescovo non ritiene di affidarglielo, allora la clausola «sive pensione, prout casus ferat et adiuncta permittant» potrebbe essere interpretata nel senso che il Vescovo non è tenuto al sostentamento del parroco.

Ci sembra qui di poter assumere la posizione di coloro che sostengono: «Riguardo alla pensione, i casi possono essere diversi, dipendentemente dal fatto se il parroco rimosso abbia maturato la pensione o meno, e in questo secondo caso se abbia o meno altra fonte di sostentamento e quali siano le sue necessità. L’espressione del canone […] non può, comunque, costituire pretesto per liberarsi facilmente dagli obblighi verso il sacerdote bisognoso. Infatti, la diocesi ha l’obbligo di assicurare ad ogni sacerdote incardinato un’honesta sustentatio (cfr. canoni 269 § 1, 384 222 § 1, 1254 § 2)».

Ci pare, in conclusione, di poter affermare che un chierico, per il fatto dell’ordinazione e incardinazione ad una Chiesa particolare, a prescindere dal fatto che eserciti o meno un ministero ecclesiale, abbia comunque diritto a che la Chiesa si prenda cura di fornirgli quanto necessario e indispensabile per il suo sostentamento, con, al limite, un obbligo a intervenire in caso di necessità. Tutt’altra cosa è la questione della remunerazione, la quale è legata all’esercizio di un ministero ecclesiale.

Dunque l’obbligo del sostentamento si radica nell’ordinazione-incardinazione a servizio di una Chiesa particolare e, proprio per questa ragione, è ben più vasto del diritto alla remunerazione, la quale costituisce una modalità, non l’unica, con la quale il chierico, che svolge un ministero ecclesiale, può sostenersi dignitosamente. Infine, la stessa categoria di remunerazione, nell’ottica conciliare e codiciale, proprio in forza della natura stessa della Chiesa e del legame che essa istituisce con un ministro ordinato, non accetta l’identificazione con qualche categoria civilistica, come se si trattasse di una compensazione per delle prestazioni di lavoro, ma deve essere riletta, ancora una volta, all’interno delle dinamiche proprie della Chiesa come voluta dal suo Fondatore.

Tutto ciò non fa altro che rimarcare un dato essenziale per ogni riflessione sul tema del sostentamento e della remunerazione dei chierici: essa non può che avvenire all’interno di un quadro ecclesiologico complessivo.

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