Una situazione patologica
Il problema che qui si pone non è certamente quello relativo alle procedure amministrative da seguirsi nei casi circa la materia del sostentamento del clero, ma semplicemente quello di individuare, da alcune fattispecie significative, ulteriori elementi circa le categorie oggetto della nostra analisi.
Non poche cause sono state presentate in materia di devianza sessuale applicando il canone 1044 § 2, 2°: «Sono impediti ad esercitare gli ordini: […] colui che è affetto da pazzia o da altre infermità psichiche di cui nel canone 1041 § 1, fino a che l’Ordinario consultato il perito non avrà consentito l’esercizio del medesimo ordine». Le polemiche circa questi casi sono particolarmente complesse1 e non è certo qui la sede per affrontarle.
Da questi riferimenti evidenziamo un «caso-tipo»: può un Vescovo privare della remunerazione un sacerdote accusato di abusi sessuali, se questi, per esempio, si rifiuti di fornire al Vescovo stesso i risultati di un’indagine psicologica sul suo stato o di sottoporsi ad una terapia psichiatrica?
Considerato il dettato del canone 281 possiamo dire che un chierico, il quale non esercita un ministero ecclesiale non abbia diritto ad una remunerazione. Così un chierico il quale si rifiutasse di assumere un «munus» affidatogli dal suo legittimo Ordinario, senza un legittimo impedimento, non potrebbe meritare una remunerazione a norma del canone 274 § 2.
Vi sono però altri due canoni da tener presente: il canone 281 § 2 da cui si può trarre che un chierico, il quale non possa dedicarsi per infermità, invalidità o anzianità, ad un ministero ecclesiastico, ha diritto a che si provveda adeguatamente affinché goda dell’assistenza sociale. Non si parla qui di remunerazione, ma di un diritto del chierico a che si provveda adeguatamente alle sue necessità quando, non per sua volontà, non possa più svolgere un ministero ecclesiale.
Potrebbe darsi però il caso in cui un soggetto sia stato impedito all’esercizio di un ministero ecclesiale a motivo di una pena. In tale fattispecie vale il dettato del canone 1350 § 1: «nell’infliggere pene ad un chierico si deve sempre provvedere che non manchi il necessario per un onesto sostentamento, a meno che non si tratti della dimissione dallo stato clericale». Ora, in un caso come questo, l’Ordinario è invitato a provvedere affinché non manchi ciò che è necessario ad «honestam sustentationem»; addirittura, nel caso in cui il chierico sia stato dimesso dallo stato clericale, il § 2, sempre del canone 1350, prevede che «l’Ordinario abbia cura di provvedere nel miglior modo possibile a chi è stato dimesso dallo stato clericale e che a causa della pena sia veramente bisognoso»2.
Se dunque l’Ordinario è tenuto a questa attenzione per il sostentamento di un chierico, il che non significa remunerazione, ma comunque implica un dovere di provvedere in qualche modo ad un onesto sostentamento, è ragionevole pensare che lo stesso possa dirsi nel caso in cui il Vescovo stesso impedisca ad un chierico l’esercizio di un ministero ecclesiastico.
Il Vescovo ha certamente il diritto, ma anche il dovere, di non concedere un ufficio ecclesiastico ad un sacerdote di cui non consti l’idoneità a norma del canone 149 § 1. Al tempo stesso, in caso di dubbio sull’idoneità di un sacerdote ad esercitare un ministero, può dichiararlo impedito a norma del canone 1044 § 2, 2° insieme al canone 1041 § 1, chiedendo ai periti, se non una perizia sul soggetto, appunto nel caso che questo si rifiutasse, un «votum» sugli atti a disposizione (cfr. canone 1574). Senza entrare in un esame approfondito sulla questione se un Vescovo possa legittimamente imporre ad un sacerdote un esame psicologico «ex officio», accenniamo semplicemente alla nostra posizione negativa in proposito: il Vescovo può chiedere ad un sacerdote di sottoporsi ad un esame, ma non può imporglielo, senza violare il disposto del canone 220, da leggersi insieme ai canoni 630 § 5 e 642.
Dunque un sacerdote potrebbe legittimamente ricusare di sottoporsi ad un esame psichiatrico, ma, al tempo stesso, un Vescovo potrebbe legittimamente negargli un ufficio o ministero ecclesiale se dubitasse della sua idoneità.
Un sacerdote che non esercita un ministero ecclesiale non ha certamente diritto alla remunerazione, ma questo non toglie che possa aver diritto ad un sostentamento adeguato alle sue necessità. Infatti, addirittura si può dubitare che, qualora violi il canone 274 § 2, gli si possa negare la cura della Chiesa in cui è incardinato per il suo sostentamento, peggio ancora nel caso in cui il sacerdote non rifiuti di assumere l’ufficio che l’Ordinario gli affida, ma, semplicemente e propriamente, di sottoporsi all’esame dei periti stabiliti dal Vescovo. In fondo, in questo caso, non è il sacerdote che rifiuta un ufficio, ma il Vescovo che lo ricusa, pur avendone tutto il diritto.
Se poi aggiungiamo il fatto che anche nel caso gravissimo in cui un chierico sia dimesso dallo stato clericale, l’Ordinario è invitato a prendersi cura, nel migliore modo possibile, di tale chierico, qualora sia, proprio a causa della pena canonica, in uno stato di vera indigenza. Tanto più nella fattispecie da noi citata come «caso-tipo» non esistono motivi sufficienti per negare che la Chiesa in cui il chierico è incardinato, debba prendersi cura del minimo necessario per il suo sostentamento. Non si sta parlando di un diritto alla remunerazione, che non esiste, ma di una cura che la Chiesa non può negare ad un sacerdote che, se non altro, può rientrare nella fattispecie di cui al canone 281 § 2. Evidentemente si tratterà di un sostentamento proporzionato a quanto necessario per la vita, non di remunerazione o altro, che vada oltre il necessario per vivere dignitosamente.
Altro caso di un certo interesse è quello della rimozione di un parroco3. Il canone 1746 prevede che il Vescovo abbia l’obbligo di provvedere al parroco rimosso mediante l’assegnazione di un altro ufficio, se ne è capace, oppure con una pensione, se ne sia il caso e le circostanze lo permettano. Se al parroco viene conferito un altro ufficio, egli allora ha comunque diritto alla remunerazione. Ma se il Vescovo non ritiene di affidarglielo, allora la clausola «sive pensione, prout casus ferat et adiuncta permittant» potrebbe essere interpretata nel senso che il Vescovo non è tenuto al sostentamento del parroco4.
Ci sembra qui di poter assumere la posizione di coloro che sostengono: «Riguardo alla pensione, i casi possono essere diversi, dipendentemente dal fatto se il parroco rimosso abbia maturato la pensione o meno, e in questo secondo caso se abbia o meno altra fonte di sostentamento e quali siano le sue necessità. L’espressione del canone […] non può, comunque, costituire pretesto per liberarsi facilmente dagli obblighi verso il sacerdote bisognoso. Infatti, la diocesi ha l’obbligo di assicurare ad ogni sacerdote incardinato un’honesta sustentatio (cfr. canoni 269 § 1, 384 222 § 1, 1254 § 2)»5.
Ci pare, in conclusione, di poter affermare che un chierico, per il fatto dell’ordinazione e incardinazione ad una Chiesa particolare, a prescindere dal fatto che eserciti o meno un ministero ecclesiale, abbia comunque diritto a che la Chiesa si prenda cura di fornirgli quanto necessario e indispensabile per il suo sostentamento, con, al limite, un obbligo a intervenire in caso di necessità. Tutt’altra cosa è la questione della remunerazione, la quale è legata all’esercizio di un ministero ecclesiale.
Dunque l’obbligo del sostentamento si radica nell’ordinazione-incardinazione a servizio di una Chiesa particolare e, proprio per questa ragione, è ben più vasto del diritto alla remunerazione, la quale costituisce una modalità, non l’unica, con la quale il chierico, che svolge un ministero ecclesiale, può sostenersi dignitosamente. Infine, la stessa categoria di remunerazione, nell’ottica conciliare e codiciale, proprio in forza della natura stessa della Chiesa e del legame che essa istituisce con un ministro ordinato, non accetta l’identificazione con qualche categoria civilistica, come se si trattasse di una compensazione per delle prestazioni di lavoro, ma deve essere riletta, ancora una volta, all’interno delle dinamiche proprie della Chiesa come voluta dal suo Fondatore6.
Tutto ciò non fa altro che rimarcare un dato essenziale per ogni riflessione sul tema del sostentamento e della remunerazione dei chierici: essa non può che avvenire all’interno di un quadro ecclesiologico complessivo.
1 Cfr. i rimandi e gli accenni in V. Mosca, «Le procedure», in particolare 323-324 e 335-336.
2 È importante tener presente questa norma, visto che spesso potrebbero esserci casi in cui un chierico viene privato del suo ufficio a norma del c. 196. Non si tratta di trasferimento da un ufficio ad un altro e neppure di rimozione da un ufficio, senza che ne venga conferito un altro ma, appunto, di privazione; pertanto essa ha solo carattere penale. Ciò significa che può avvenire solo per punizione di un delitto e secondo la procedura stabilita dal diritto penale. La privazione è prevista come pena espiatoria nel c. 1336 § 1, 2°. Se si tratta di una pena perpetua essa può essere imposta solo per legge, ma non per precetto (c. 1319) e in un processo giudiziale penale (cfr. c. 1342 § 2). Per noi è importante segnalare la fattispecie della privazione di un ufficio ecclesiastico perché, se un chierico è privato legittimamente dell’ufficio, allora egli viene privato anche del diritto alla remunerazione, connesso con l’esercizio di un ministero ecclesiale che, appunto, spesso coincide con un vero e proprio ufficio ecclesiastico. Ma, come vedremo, la perdita del diritto alla remunerazione, non si identifica, a nostro avviso, con la perdita del diritto al sostentamento.
3 Pensiamo qui proprio al caso in cui un parroco viene rimosso dall’ufficio, il che è assai diverso sia dalla privazione dell’ufficio, che ha carattere penale, sia dal trasferimento ad altro ufficio (cfr. Z. Grocholewski, «Trasferimento», 246-247). Da ricordare che, il parroco rimosso, a norma del c. 1747 §§ 1-2, ha l’obbligo di: 1. astenersi dall’esercizio dell’ufficio di parroco con relativi compiti e attribuzioni. 2. Lasciare libera quanto prima la casa parrocchiale, a meno che non si verifichi il caso di infermità, per cui il parroco non possa trasferirsi altrove senza incomodo. In quest’ultimo caso il Vescovo potrà lasciare al parroco rimosso anche l’uso esclusivo della casa parrocchiale, finché perdura lo stato di necessità. 3. Consegnare al successore, cioè al nuovo parroco o all’amministratore a cui il Vescovo abbia affidato la parrocchia, tutto ciò che ad essa appartiene.
4 Il quale, considerati gli obblighi sopra esposti, potrebbe trovarsi in una reale situazione di difficoltà.
5 Prosegue il nostro Autore: «Se “nell’infliggere pene ad un chierico si deve provvedere che non manchi il necessario per un onesto sostentamento, a meno che si tratti della dimissione dallo stato clericale” (can. 1350 § 1), tanto più esiste detto obbligo di provvedere alle necessità del sacerdote rimosso che, per tale motivo, non può assumere alcun ufficio nella diocesi. Si tratta di un obbligo morale oltre che giuridico. Evidentemente in qualche caso si potrà provvedere alla “honesta sustentatio” in parte con un ufficio a orario ridotto e in parte con un contributo straordinario. Comunque si devono avere presenti le norme, vigenti nella diocesi, circa il sostentamento del clero (cfr. can. 1274)» (Z. Grocholewski, «Trasferimento», 238).
6 Osserva G. Lo Castro: «Non si dà, nell’ordinamento canonico, correlazione fra diritti e doveri attinenti alla prestazione del servizio ministeriale e diritti e doveri attinenti alla rimunerazione» (G. Lo Castro, «Problemi», 220-222).