Fin dai primi tempi, la Chiesa ha dunque riconosciuto al presbitero che consacra la propria vita per il ministero ecclesiastico il diritto di essere sostentato economicamente. Non a caso, nei più antichi testi della tradizione cristiana, come la Didascalia, si fa richiamo alla figura veterotestamentaria del levita per ribadire con tale accostamento la dignità ed il ruolo dei ministri del culto e, di conseguenza, anche  i loro diritti19.

Ciononostante nella stessa Didascalia – come vedremo in seguito – si preferì dare al sostentamento del clero un altro fondamento, più strettamente legato alla problematica generale dell’uso delle ricchezze da parte della Chiesa e della destinazione di queste ai poveri.

Benché non si abbiano informazioni sufficienti sulle relazioni economiche e giuridiche delle comunità cristiane delle origini circa il reperimento delle risorse necessarie alla vita della Chiesa, possiamo senz’altro affermare che nei primi secoli il cespite fondamentale era rappresentato dalle offerte dei fedeli, in danaro o in natura.

Si osservi che in quella situazione, per la tipologia dei beni e per la voluta assenza di una struttura organizzativa ad hoc, non poteva certo verificarsi l’accumulo di un patrimonio ecclesiastico permanente. Con tali elargizioni si costituiva piuttosto un fondo comune amministrato dal vescovo e destinato innanzitutto ai poveri.

S. Ambrogio in proposito ammonisce che, se la Chiesa ha dei beni, è per donarli ai poveri: «aurum Ecclesia habet; non ut servet, sed ut eroget, et subveniat in necessitatibus»20.

I chierici ricevevano parte delle offerte soltanto se bisognosi e se sceglievano di non mantenersi con i frutti del proprio lavoro. Prova ne sia che le opere dei Padri, nel segnalare gli scopi ai quali dovevano servire le ricchezze della Chiesa, non menzionano assolutamente i chierici21.

Gli stessi Canones Apostolorum consentivano agli uomini di Chiesa di prelevare una parte dei beni che amministravano solo se essi stessi appartenevano alla «categoria» dei poveri e solo per quanto fosse strettamente necessario al proprio sostentamento22.

Chi poteva far ricorso a sostanze familiari o personali era tenuto a non approfittare di quanto spettava ai poveri, come Girolamo ricorda con rigore in una lettera a papa Damaso: «qui [clerici] autem bonis parentum et opibus sustentari possunt, si quod pauperum est accipiunt, sacrilegium profecto incurrunt et conmittunt»23.

Peraltro, si deve anche ricordare che la condizione dei chierici era prossima a quella dei poveri visto che la gran parte di essi proveniva dalle classi meno abbienti.

L’obbligo dei vescovi di mantenere il clero, pur essendo stato sancito dalla Sacra Scrittura, non aveva carattere specifico ed autonomo e veniva quindi fatto discendere non dallo status sacerdotale in sé, ma dall’obbligo generico di soccorrere i poveri; poveri e chierici erano sotto questo aspetto parificati, tanto da essere iscritti nello stesso elenco (matricula, canon) e da avere il medesimo assegno giornaliero (portio congrua)24.

Bisogna però precisare che il dovere del vescovo di provvedere al mantenimento dei chierici non fa sorgere, da parte di questi ultimi, un corrispondente diritto di reclamare tale prestazione; le concessioni che il vescovo fa ai suoi sacerdoti sono designate infatti dalle fonti quali largizioni humanitatis intuitu25.

L’amministrazione del fondo costituito dalle offerte era – come s’è detto – di competenza degli Apostoli ed in seguito fu dei vescovi26. Tuttavia già nella comunità di Gerusalemme furono individuate delle persone che, per conto degli Apostoli, dovessero ricevere ed amministrare le oblazioni dei fedeli. Al riguardo At 6,1-6 ci narra l’episodio dell’elezione dei diaconi, nata dall’esigenza che i Dodici non dovessero trascurare «la parola di Dio per il servizio alle mense»27.

Questa prassi fu mantenuta anche in seguito da parte dei vescovi che, nell’ambito della guida pastorale della comunità, molto spesso delegavano ad altri la cura degli interessi materiali o quantomeno la beneficenza. In molte comunità sorgeva così la figura dell’economo che venne istituzionalizzata soltanto in epoca più tarda28.

Dal punto di vista concreto è abbastanza assodato tra gli studiosi che la destinazione delle offerte al sostentamento del clero fosse un’ipotesi residuale perché, secondo Colagiovanni, fino al IV secolo, «i sacerdoti erano di estrazione popolare, della classe lavoratrice ed anche schiava, e solo eccezionalmente della classe abbiente», cosicché «molti di costoro continuavano ad esercitare la stessa attività precedente godendo del sostentamento della «famiglia» a cui appartenevano»29.

Agli albori del cristianesimo, le offerte dei fedeli non erano sempre sufficienti a far fronte alle necessità della Chiesa e pertanto il lavoro fu spesso una scelta obbligata per i chierici.

Tant’è che il Concilio di Elvira dovette intervenire per vietare l’esercizio del commercio ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi. Il canone 18 del Concilio precisa che, se questa attività è – purtroppo – per i chierici una necessità di vita, qualora essi debbano allontanarsi per questo motivo dalla sede pastorale, debbono mandare degli incaricati di loro fiducia così da non allontanarsi dalla cura pastorale30.

Il lavoro artigianale venne invece accettato dalla Chiesa con maggiore tolleranza, purché non compromettesse il decoro di vita del chierico che lo svolgeva31.

Secondo la Didascalia il vescovo dunque si serviva di quanto proveniva dalle collette per il proprio sostentamento e, se necessario, per quello dei suoi orfani: «sicut igitur suscepistis onus omnium, ita etiam ministerium victus ac vestitus aliarumque rerum necessariarum ab omnibus, qui apud vos sunt, vos accipere decet. Et similiter ex donis a populo vobis subiecto datis nutrite diaconos et viduas et pupillos et egentes et peregrinos»32.

Questa testimonianza desunta da una fonte tanto antica si spiega meglio ricordando che all’inizio della storia della Chiesa, prima della costituzione delle chiese rurali, la vita comune attorno al vescovo era norma per il clero ed era quindi naturale che questi provvedesse direttamente, con le offerte dei fedeli, alle necessità di coloro che lo circondavano33.

In pratica però in questo periodo non vi fu una retribuzione per l’ufficio sacerdotale; lo Stocchiero infatti a questo proposito ci parla di sportulantes, di summula, di mensurae, di mensa vescovilis ed in genere di assegnazioni in danaro o in natura, con termini che ricordano il rapporto tra il patronus ed i clientes nell’esperienza giuridica romana34.

Con il progredire dell’espansione territoriale della Chiesa, nelle città si iniziarono ad istituire delle circoscrizioni territoriali (come i tituli romani) in cui un presbitero dirigeva la vita pastorale.

La medesima soluzione fu adottata anche nelle campagne creando quelle che saranno le parrocchie alle quali fu preposto un sacerdote che dipendeva dal vescovo della città più vicina. Ciò comportò il venir meno della vita comune di tutto il clero accanto al vescovo e di fatto, già dal III secolo, alcune sedi episcopali presero a corrispondere uno stipendium ai chierici da esse dipendenti35.

In proposito Stocchiero osserva che: «la quota dei redditi ecclesiastici assegnata ai membri del clero ascritti ad una chiesa cattedrale ossia vescovile (al clero incardinato in una diocesi, diremmo noi oggi), aveva la semplice natura di assegno alimentare propter officium, variabile, non contrattuale, determinato dal vescovo e distribuito dall’arcidiacono o dall’economo». Quanto all’esatta qualificazione di tale prestazione, lo stesso autore nota che essa «si avvicinava assai allo stipendium ma non aveva alcun carattere giuridico»36.

Richiamando istituti veterotestamentari, la Didascalia attesta anche che ai sacerdoti ed ai diaconi erano riservate per il loro sostentamento le primizie del tino, dell’aia, del ricavato del frantoio, dell’apiario e dei frutti. Forse si tratta del più remoto antecedente storico delle decime per ciò che riguarda la Chiesa cattolica37.

Un’altra fonte di sostentamento che, in questi primi secoli, cominciò a radicarsi come consuetudine era quella particolare forma di offerta che accompagnava la celebrazione dei sacramenti. Simili elargizioni del tutto volontarie possono essere considerate l’origine dei diritti di stola, che ebbero allora ed in seguito un grande rilievo nella problematica del sostentamento del clero e che ancor oggi, in alcuni paesi, rappresentano la risorsa più importante per i chierici.

L’insorgere di questi iura stolae destò tra i vescovi la preoccupazione che le offerte potessero essere vissute e sentite dai fedeli come simoniache. Per questo la Chiesa intervenne a separare nettamente il sacramento dall’offerta, la quale – si precisava – doveva essere spontanea e sempre successiva all’amministrazione del sacramento38.

Un significativo mutamento nelle fonti del sostentamento del clero incominciò a profilarsi quando, a partire dal III secolo, le comunità cristiane presero a dotarsi di un patrimonio immobiliare.

Numerosi testi documentano, infatti, l’esistenza di edifici riservati esclusivamente alle attività ecclesiali ed alle celebrazioni liturgiche. Molto spesso si trattava di case private adeguatamente trasformate allo scopo, di cui però la Chiesa aveva ormai la proprietà39.

In precedenza, per disporre di luoghi di riunione, la Chiesa doveva avvalersi di abitazioni private o costituire dei collegi funerari (collegia funeraticia), sola forma lecita per acquistare la proprietà di beni immobili destinati al culto o alla funzione cimiteriale.

Che la Chiesa possedesse beni immobili è comunque un dato di fatto, confermato dai decreti degli imperatori Galerio, Massenzio e soprattutto Licinio e Costantino, che sancirono la restituzione di proprietà confiscate durante le persecuzioni, specie quella di Diocleziano40.

Gradualmente si venne così costituendo un patrimonio ecclesiastico permanente che, in seguito, dall’editto di Milano in poi, grazie al favore degli imperatori si accrebbe sempre più. La fine delle persecuzioni ed il mutato rapporto con lo Stato romano significarono per la Chiesa l’introduzione di provvedimenti di aperto sostegno, di donazioni e di privilegi, tra i quali numerose esenzioni fiscali ed agevolazioni per i sacerdoti nonché dispense dalle cariche civiche (munera civilia).

In particolare, dopo l’accordo con Licinio nel 313, Costantino assunse una serie di iniziative tendenti a privilegiare la Chiesa, senza negare dal punto di vista formale il dovuto rispetto alla religione pagana. Furono introdotti l’immunità fiscale per i chierici (un provvedimento che in seguito vide delle restrizioni perché minacciava di essere gravoso per l’erario), il ricorso al tribunale del vescovo col consenso delle due parti in causa, la concessione di altri benefici come la gratuità del trasporto per le gerarchie ecclesiastiche.

Inoltre la corte e molti membri dell’aristocrazia cristiana, ormai numerosa e ricca, procedettero a cospicue donazioni che ampliarono enormemente il patrimonio della Chiesa: il Laterano, San Pietro, la costruzione delle grandi chiese di Gerusalemme sui luoghi santi si dovettero alla devozione della famiglia imperiale o di famiglie ad essa vicine.

Confrontando questi dati con il comportamento dei primi cristiani che vendevano case e poderi per deporre il ricavato ai piedi degli Apostoli, anche a voler mettere in dubbio l’autenticità del racconto di Luca, non si può non comprendere l’importanza culturale della trasformazione che interessò la Chiesa nel suo rapporto con i beni materiali. La stabile disponibilità di risorse, di fatto sino ad allora mai verificatasi, richiedeva una giustificazione che fosse fondata sul Vangelo41.

Una lettera di s. Urbano I («Decet omnes christianos») sente la necessità di affrontare la questione spiegando le ragioni del mutamento. Alcuni studiosi hanno messo in dubbio l’autenticità di questo documento, poiché fu scritto verosimilmente in un’epoca posteriore quando il cambiamento era già un fenomeno acquisito; il testo rimane comunque per noi molto significativo.

L’argomentazione prende le mosse dalla stretta utilità economica per ribadire però la finalizzazione del patrimonio ecclesiastico. In sostanza, conferendo ai vescovi la proprietà dei beni «quos vendere solebant», era possibile per i fedeli garantire alla Chiesa ed alle sue attività dei cespiti regolari e potenzialmente perpetui rappresentati dalle rendite immobiliari42.

A questi beni continuarono ad aggiungersi le oblazioni dei fedeli, spesso sotto forma di lasciti a suffragio dei defunti, sempre come offerte sacramentali e decime, queste ultime dichiarate obbligatorie dal Concilio di Tours II del 56743.

Il patrimonio così formato non apparteneva alla Chiesa Universale, ma, con una generica attribuzione a Cristo o ai poveri, era di fatto legato ad una diocesi o ad una chiesa particolare.

Per questa ragione, fino alla metà del IV sec., al vescovo fu riconosciuta la facoltà di amministrare con piena autonomia il patrimonio diocesano, ma già nel Concilio di Antiochia del 341 d.C. si richiamava con insistenza l’opportunità di una collaborazione tra il vescovo ed il clero allo scopo di migliorare l’organizzazione e prevenire possibili malversazioni44.

Il Concilio di Calcedonia del 451 istituì a tal fine l’ufficio dell’economo, disponendo che la sua presenza fosse obbligatoria in ciascuna diocesi e che esso doveva essere scelto dal vescovo de clero proprio45. Questa norma era di certo un importante correttivo alla discrezionalità del vescovo nella destinazione dei beni della Chiesa, che talvolta fu causa di riprovevoli abusi e fonte di altrettanto perniciosi sospetti.

I reiterati interventi in materia da parte dei Concili sono una traccia di tali difficoltà che portarono ad un’altra importante tappa evolutiva nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche. Per sottrarre la divisione dei redditi della Chiesa all’arbitrio dei vescovi, si introdusse il cosiddetto sistema della quadripartizione, di cui si fa menzione in una lettera di papa Simplicio del 475.

In tale importantissimo documento, originato da alcune ordinazioni sacerdotali illecite che determinarono il pontefice a rimuovere dal loro ministero i vescovi Florenzio, Equizio e Severo, papa Simplicio stabilisce che le rendite e le oblazioni spettanti al vescovo di ogni chiesa siano divise in quattro parti ed assegnate rispettivamente al vescovo, alla fabbrica della chiesa, ai poveri ed infine ai chierici per il loro sostentamento. Quest’ultima quota è da dividersi tra il clero a seconda dei meriti di ciascuno46.

Papa Gelasio, nel suo Decretum generale Episcopis per LucaniamBrutios et Siciliam del 494, riprende in termini analoghi e conferma questa divisione del patrimonio ecclesiastico in quattro parti, trattandone come di un fatto già scontato e generalizzato in Italia47.

Bisogna dire che la norma sulla quadripartizione si diffuse non senza difficoltà, con applicazioni parziali e resistenze notevoli, soprattutto da parte dei vescovi il cui diritto – per verità – fu assai poco limitato da una norma che, fatte le quote, lasciava inalterata la loro autonomia di disposizione. In linea di principio tuttavia, un aspetto molto positivo fu di certo rappresentato dall’indicazione degli scopi per i quali i redditi del patrimonio ecclesiastico potevano essere lecitamente impiegati48.

Questa regola si estese anche alla Spagna, attraverso le disposizioni del Concilio di Braga II del 563, con una variante nella forma della tripartizione delle risorse, a causa di una risalente consuetudine. Delle tre parti, una era devoluta al vescovo, l’altra ai chierici e la terza alle riparazioni della chiesa; l’obbligo di soccorrere i poveri non veniva meno ed era anzi espressamente ribadito, ma doveva essere assicurato con altri cespiti49.

Il diritto al sostentamento da parte del clero riceveva così un’ulteriore ed inequivocabile conferma, attraverso l’individuazione di una specifica porzione dei redditi del patrimonio ecclesiastico da destinare a tale precisa finalità50. Il richiamo ad una vita sobria ed a servirsi di tali risorse solo nella misura dello stretto necessario risulta da tutte le fonti del periodo e si rispecchia nelle norme di numerosi Concili, che indicano l’obbligo di mantenere distinti i beni personali dei chierici da quelli della Chiesa51.

 

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