Il Decreto Presbyterorum Ordinis e le sue disposizioni
Il testo definitivo del Decretum de Presbyterorum Ministerio et Vita – Presbyterorum Ordinis fu il risultato di un articolato e vivace dibattito da parte dei Padri conciliari.
I punti fondamentali dello Schema erano già stati fissati nella redazione dello Schema precedente: De ministerio et vita presbyterorum.
Il documento Presbyterorum Ordinis fu presentato in forma definitiva di Decreto e non di Costituzione, poiché riguardava soprattutto aspetti pastorali del ministero presbiterale203.
I numeri 17, 20 e 21, rispettivamente dedicati al rapporto tra sacerdoti e beni terreni, all’equa remunerazione dei chierici e alla costituzione della «massa comune» finalizzata alla previdenza sociale dei sacerdoti204, riguardano particolarmente la nostra riflessione.
Le numerose postulationes dei Padri al riguardo furono in gran parte respinte, e solo il numero 20 del testo, sull’equa remunerazione dei chierici, conobbe qualche modifica205.
Anche il numero 17 del testo definitivo, fondendo in sé le proposte degli schemi precedenti (relative per lo più al tema generale inerente ai beni ecclesiastici), con ulteriori riferimenti allo spirito di povertà del clero ed al rapporto dei chierici con i beni temporali, segna un’evoluzione rispetto alle posizioni precedenti206.
Il primo capoverso richiama il principio al quale si deve ispirare l’animo dei presbiteri nei confronti dei valori umani e dei beni terreni: «utentes ergo mundo tamquam non utentes»207
Prendendo le mosse dalla nozione di beni ecclesiastici, a cui fa riferimento il canone 1497 § 1 del Codex Iuris Canonici 1917, la riflessione conciliare pone in evidenza il valore dei beni ottenuti con l’esercizio del ministero sacro208, coniugando tale valenza con lo spirito di povertà evangelica209, che induce a tenersi lontano da ogni forma di avidità e di cupidigia.
Anche per questo viene vivamente raccomandata la collaborazione dei laici nell’amministrazione diretta dei beni temporali210.
Altre due significative novità di PO si riferiscono all’obbligo dei fedeli di provvedere al sostentamento del clero e all’istituto per la previdenza sociale dei presbiteri (numeri 20 e 21).
Poiché i sacerdoti si dedicano a tempo pieno al servizio di Dio nello svolgimento delle funzioni loro assegnate, è logico che siano retribuiti in modo equo, affinché abbiano una vita onesta e dignitosa, ma, qualora ciò non sia possibile, spetta ai fedeli contribuire al loro sostentamento.
Si tratta di un vero e proprio obbligo rivolto ai fedeli, i quali debbono contribuire in tal senso, a meno che non sia possibile provvedere in altro modo, come in quei luoghi ove la Chiesa ha acquisito tale diritto in ragione di specifiche clausole concordatarie o per particolari accordi con enti benéfici.
Inoltre i Vescovi hanno il compito di ammonire i fedeli in tal senso e di dettare norme a livello diocesano, meglio ancora se a livello interdiocesano, per far fronte al mantenimento dignitoso di chi svolge o ha svolto un ministero sacro211.
La retribuzione dei presbiteri che esercitano il ministero sacro deve essere equa, ossia uguale e sufficiente per tutti, nonché congrua. Nel caso essa sia insufficiente, dovrà essere integrata.
Vengono fissati alcuni parametri per favorire tale equa e congrua retribuzione, tra i quali la natura dell’ufficio, l’importanza del medesimo, gli oneri, le difficoltà, l’anzianità di servizio, gli usi locali, sempre tenendo presente che la retribuzione deve consentire ai presbiteri di far fronte sia alle proprie esigenze di vita secondo dignità, sia a quelle di chi li accudisce, nonché a garantire l’aiuto caritatevole ai poveri e un sufficiente periodo di ferie212.
Infatti, nel numero 20, viene data maggiore importanza all’ufficio, non più inteso in senso stretto, come partecipazione alla potestà d’ordine e di giurisdizione, ma in senso lato, da intendersi come «quodlibet munus» svolto dai sacri ministri e «stabiliter collatum in finem spiritualem exercendum»: l’officium diventa dunque fondamento, pilastro e cardine della nuova legislazione, mentre il beneficium passa ad un ruolo accessorio e subordinato213.
Per quanto riguarda propriamente il sistema beneficiale ricordiamo che il Concilio si mosse decisamente lungo la linea del suo abbandono o della sua riforma, dichiarando, sia nello Schema De ministerio et vita presbyterorum sia nel testo definitivo, che tale sistema deve essere abbandonato, o almeno riformato a fondo214.
Il motivo per cui non s’intendeva imporre la soppressione era sostanzialmente legato a difficoltà più «di diritto pubblico esterno», che derivanti da una riflessione ecclesiologica215.
Affermare la centralità del concetto di ufficio, inteso in senso lato, e la sua preminenza rispetto al diritto ai redditi del beneficio, diminuiva la relazione stretta tra ufficio e beneficio e apriva la strada ad una nuova legislazione in materia, che avrebbe portato all’abolizione del beneficio.
Lo spirito che ha portato alla comunione dei beni la primitiva Chiesa di Gerusalemme ha offerto spunti per la redazione del numero 21 di PO, nel quale si propone che, almeno nelle regioni ove il sostentamento del clero dipende in modo preminente dalle offerte dei fedeli, i beni finalizzati a tale scopo debbano essere raccolti da un’«institutio quaedam dioecesana»216, amministrata dal Vescovo, coadiuvato in questo da sacerdoti delegati e, se conveniente, anche da laici particolarmente esperti217.
Si raccomanda inoltre la costituzione della «massa bonorum communis» con la quale i Vescovi possano far fronte alla previdenza sanitaria e sociale del clero, costituita innanzi tutto dalle offerte dei fedeli o da altre entrate da determinarsi secondo diritto218.
Inoltre, in quelle nazioni dove la previdenza sociale a favore del clero non è ancora adeguatamente organizzata, le Conferenze episcopali devono far sì che, nel rispetto dell’ordinamento ecclesiastico e civile, si abbiano o «instituta dioecesana», anche federati, oppure altri «instituta» o «associationes» con la finalità di provvedere ad un’adeguata previdenza dei presbiteri infermi, invalidi e anziani219.